Nostalgiche emozioni
Dal Foglio di giovedì 20 dicembre 2007
Un terreno sul quale W ha ipotecato l’ipotecabile, ma i finiani hanno deciso di dare battaglia.
Ecco, adesso facciamo a chi si racconta e si turba di più. Passato il tempo del “fascisti e comunisti giocarono a scopone/ e vinsero i fascisti con l’asso di bastoni”, la lotta si sposta sul fronte delle emozioni. E se Walter Veltroni ha da tempo ipotecato tutto quello che era ipotecabile – da “Quel gran pezzo dell’Ubalda tutta nuda e tutta calda” a don Milani, da “Studio 10” ad Antonello Cuccureddu – i finiani non potevano restare con le mani in mano. Così ieri, trionfalmente, il Secolo d’Italia poteva annunciare in prima pagina: “La destra si racconta, altro che Veltroni…”, così adesso c’è solo da assistere alla lotta tra chi riscopre per primo il telefono in bachelite e chi l’alba.
Si tratta, nientemeno, di “una prima pietra emozionale”, persino di “un archivio delle emozioni”, addirittura “una sorta di megafono delle emozioni” – se le coronarie reggono, a una simile ondata adrenalinica, è certo una bella cosa. Emozioni, tiè Veltroni. Come del resto cantava per primo, e in tempi stupidi di sospettato cameratismo, il grandissimo Lucio Battisti, “tu chiamale se vuoi/ emozioni”. Vuole, e perciò così le chiama Filippo Rossi, coordinatore di Charta Minuta, rivista finiana che ha deciso di ammassare veltronianamente emozioni post (e pure non post) fasciste, così che persa l’Ulbalda si possa salvare Giovannona Coscialunga, e se Oronzo Canà è andato si metta per tempo il cappello sul Merlo Maschio. Tra Ken Kesey, scrittore anni Sessanta, “Al diavolo i fatti! Abbiamo bisogno di storie”, e Antonio Pennacchi, “Per favore niente pippe ideologiche”, si tratta di un curioso tentativo che passa da Raf a tutti gli gnometti del “Signore degli anelli” (che da quelle parti rappresentano ciò che i Kennedy sono per Veltroni), dai Wrangler alle Clarks – tutto un rimembrare e un lieto stupore, anche quando gli amici di un tempo non li chiami più Gorlim e Beren (sempre lì siamo, tra terre di mezzo che manco Follini), ma Nino e Gianni perché sei cresciuto e loro sono cresciuti (ma onestamente Gorlim e Beren erano quasi meglio come nomi).
Palestra o letteratura?
La nostalgia, veltronianamente, è quella di un tempo, nei racconti di questa prima infornata di emozioni destrorse, e gli scritti che puntano sulle storie vere sono più intriganti e divertenti di quelli che vanno vagando per mondi più elevati – e su tutto il beffardo giudizio di Pennacchi: “Da quando in qua i fasci studiano la letteratura? Al massimo se ne vanno in palestra e i libri fanno finta di leggerli”, vera indicazione di grande letteratura. Dunque, è tempo pure a destra di ammucchiare emozioni, ché su quel fronte si scarseggia. Neanche più l’epoca de er Pecora porta lucciconi, e Fini, in fondo, una sola volta ha messo in campo qualcosa di più emozionante di una battuta di pesca: quando voleva vedere i “Berretti verdi” con John Wayne e i compagni glielo impedirono e lui scoprì l’Idea. Non è granché, ma sempre meglio del tentativo di far venire il batticuore andando in giro con Aznar. A Charta Minuta giurano che è solo la prima puntata, che a racconto seguirà racconto, a emozione seguirà emozione. Ce n’è, di terreno da recuperare: non potendo più essere fascista, la destra si era fatta smemorata; non essendo più comunista, Veltroni si era fatto ardito. Perciò, meglio non perdere di vista “Scipione l’Africano”: W ha già detto che lui in Africa ci sarà.
Si tratta, nientemeno, di “una prima pietra emozionale”, persino di “un archivio delle emozioni”, addirittura “una sorta di megafono delle emozioni” – se le coronarie reggono, a una simile ondata adrenalinica, è certo una bella cosa. Emozioni, tiè Veltroni. Come del resto cantava per primo, e in tempi stupidi di sospettato cameratismo, il grandissimo Lucio Battisti, “tu chiamale se vuoi/ emozioni”. Vuole, e perciò così le chiama Filippo Rossi, coordinatore di Charta Minuta, rivista finiana che ha deciso di ammassare veltronianamente emozioni post (e pure non post) fasciste, così che persa l’Ulbalda si possa salvare Giovannona Coscialunga, e se Oronzo Canà è andato si metta per tempo il cappello sul Merlo Maschio. Tra Ken Kesey, scrittore anni Sessanta, “Al diavolo i fatti! Abbiamo bisogno di storie”, e Antonio Pennacchi, “Per favore niente pippe ideologiche”, si tratta di un curioso tentativo che passa da Raf a tutti gli gnometti del “Signore degli anelli” (che da quelle parti rappresentano ciò che i Kennedy sono per Veltroni), dai Wrangler alle Clarks – tutto un rimembrare e un lieto stupore, anche quando gli amici di un tempo non li chiami più Gorlim e Beren (sempre lì siamo, tra terre di mezzo che manco Follini), ma Nino e Gianni perché sei cresciuto e loro sono cresciuti (ma onestamente Gorlim e Beren erano quasi meglio come nomi).
Palestra o letteratura?
La nostalgia, veltronianamente, è quella di un tempo, nei racconti di questa prima infornata di emozioni destrorse, e gli scritti che puntano sulle storie vere sono più intriganti e divertenti di quelli che vanno vagando per mondi più elevati – e su tutto il beffardo giudizio di Pennacchi: “Da quando in qua i fasci studiano la letteratura? Al massimo se ne vanno in palestra e i libri fanno finta di leggerli”, vera indicazione di grande letteratura. Dunque, è tempo pure a destra di ammucchiare emozioni, ché su quel fronte si scarseggia. Neanche più l’epoca de er Pecora porta lucciconi, e Fini, in fondo, una sola volta ha messo in campo qualcosa di più emozionante di una battuta di pesca: quando voleva vedere i “Berretti verdi” con John Wayne e i compagni glielo impedirono e lui scoprì l’Idea. Non è granché, ma sempre meglio del tentativo di far venire il batticuore andando in giro con Aznar. A Charta Minuta giurano che è solo la prima puntata, che a racconto seguirà racconto, a emozione seguirà emozione. Ce n’è, di terreno da recuperare: non potendo più essere fascista, la destra si era fatta smemorata; non essendo più comunista, Veltroni si era fatto ardito. Perciò, meglio non perdere di vista “Scipione l’Africano”: W ha già detto che lui in Africa ci sarà.
(Senza firma ma attribuibile a Stefano Di Michele)
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