Dal Secolo d'Italia di mercoledì 12 dicembre 2007
Pubblichiamo a seguire ampi stralci del capitolo dedicato a Mario Castellacci (a destra nella foto con Lionello e Pingitore) e del libro di Mario Bernardi Guardi Fischia il vento ed urla la bufera perché portiamo la camicia nera (storie della parte sbagliata), edito da Nuove Idee (pp. 87, euro 10) e da oggi in libreria.
«Le donne non ci vogliono più bene». Lo dice il caporale Chiorba – ma è sbronzo! non importa, anche gli altri sono sbronzi, e di tutto: vino, rabbia, paura e giovinezza – rientrando in camerata: e il legionario Sgràub, che ha fatto i suoi studi, non solo gli dà ragione ma si accorge che l’amico ha creato un endecasillabo e subito si mette a scandire: «Le don-nenon- ci-vo-glio-no-più-bene». E nasce così una canzone che, se non ha fatto la storia, una sua storia ce l’ha. Infatti lo spunto di Chiorba stimola l’inventiva.
È vero che le donne non vi vogliono più bene: ma perché? «Perché portiamo la camicia nera» dice Sgràub, ed è il secondo endecasillabo. Ed ecco Chiorba che incalza: «Cavolo, ma cosa pensano di noi?». «Hanno detto che siamo da galera», rivela Sgràub, spaccone e immalanconito. «Hanno detto che siamo da catene», precisa Cannella. Delinquenti, insomma. Ma no, non è vero, sono loro, le donne, ad esser tutte puttane, e a darla solo a chi gli conviene. Già perché dovrebbero far gli occhi dolci proprio a noi? Bisogna capirle: «L’amorecoi fascisti non conviene».
Dunque, si guarda alla convenienza. Dunque, i sensi, i sentimenti, le emozioni non contano. Proprio così, ragazzi bisogna rendersene conto, alle donne, oggi, di quelle belle cose che fanno battere il cuore non importa un accidente: «Meglio un vigliacco che non ha bandiera». Un vigliaccocome garanzia. È una garanzia per se stesso e per gli altri, l’essere vigliacco. Le donne non fanno volentieri l’amore con chi frequenta la morte. Preferiscono «uno che serberà le pelle intera».
Sì, d’accordo, ma che schifo. Appiccichiamogli qualcosa al muso di quel vigliacco che non crede in nulla, se non alla necessità di salvare la pellaccia, per portarsi così a letto la troia di turno.
Ecco: «Uno che non ha sangue nelle vene». Noi il sangue ce l’abbiamo. Lo sentiamo pulsare, è rosso e vivo, lo versiamo. Chi se ne frega delle donne se nemmeno ci guardano.
È un urlo contagioso: «Ce ne freghiamo!». Quei ragazzi neri, a fine ottobre del ’43, stanno «tra il finire e il ricominciare». Hanno imboccato una avventura che scalda e gela. C’è un testardo orgoglio romantico nella loro scelta. Rabbia, sfida, il rigore della testimonianza scomoda. Speranza di futuro, poca. La morte ha l’aria di essere terribilmente vicina. Anche loro sono vicini nella camerata dove tra poco sprofonderanno in un sonno pesante, ma forse visitato anche da qualche sogno lieve. Camerati, amici. Ubriachi della loro provocazione gioiosa e disperata. Tutti insieme, tutti soli. Maledettamente incompresi. Maledettamente? E chi se ne frega? Guerrieri in erba, studentelli mascherati da briganti, ragazzi con in tasca non il passaporto per la felicità, ma il destino d’esser strapazzati dalla storia: tutti, insieme e soli, se ne fregano.
[... ] Sgràub – e cioè Mario Castellacci, una di quelle teste matte e libere che nel 1965 inventeranno il cabaret romano Il Bagaglino – ce l’ha fatta. La sua Canzone strafottente è nata, parte per il futuro, breve e intenso. Bruciante. Ci sarà da piangere, ma anche da ridere. Perché quei seicento giorni in cui si corteggia la Signora Morte sono comunque pieni di vita. Scrive Castellaccci che, qualche tempo dopo aver partorito la Canzone strafottente, il comandante lo mandò a chiamare, preannunciandogli una bella sorpresa.
Lui andò e «trovò un battaglione di Ausiliarie, nuove di zecca, ferme sull’attenti, le poppine allineate perbene: erano pronte. E di colpo, a un cenno dell’attempata signora che le comandava, levarono un canto su musica e argomento ahimè già noti: «Le donne che non vogliono a voi bene». E giù una serie patetica di risposte e smentite alla povera Canzone strafottente.
Quarant’anni dopo, l’ex legionario Sgràub riordina i suoi giorni (nel bel libro La memoria bruciata, edito da Mondadori). E si accorge di quanto amore c’è stato in “quella” scelta.
Così racconta l’amore e la moria. Noi non abbiamo vissuto le sue avventure e poi c’è mancato di conoscerlo, però, in qualche modo siamo stati insieme a lui negli anni Sessanta e dopo, quando Luciano Lucci Chiarissi, un ex che non piangeva e non si compiangeva, inventò una rivista liberamente militante come L’Orologio, «ventiquattro pagine mensili per un’iniziativa italiana nel tempo europeo». Non tanto per raccontare le ragioni dei repubblichini, quanto per mostrare / dimostrare che «quelle» ragioni che avevano portato a «quella» scelta potevano essere ben riprese e altrettanto bene spese per affrontare «politicamente» il presente. Forti di progetti e di proposte che magari potevano fare anche a cazzotti col post-fascismo istituzionale del Msi, ma che comunque offrivano non poche occasioni per un dibattito polemicamente costruttivo. Su quel che doveva essere la destra.
[... ] Castellaccci (scomparso nel 2003) racconta la sua storia piena di emozioni, a raffiche, proprio col suono dei mitra crepitanti. Una storia in corsa, verso il precipizio del 25 aprile. Tutto va a rotoli, eppure c’è anche qualcuno che ti capisce e che sospetta in te delle ragioni. Magari un tipografo comunista che ti dice, ma tu, con queste idee e queste passioni che ti ritrovi, non sei fascista. E tu, invece, sai che sai “davvero” fascista, in attesa di trovare un altro nome che comprenda quella storia e la superi, e che sono gli altri a non essere fascisti anzi a non esserlo mai stati, e che magari è il tipografo comunista a non essere comunista, ma ad essere come te senza magari saperlo.
Poi, quel ”tu“ che è il tuo interlocutore ti afferra. Diventi davvero “lui”. Ricapitoli con lui – anche se è morto: ciao Mario, da Mario – il tuo dopoguerra, che solo dopoguerra è stato, senza che la gran prova della guerra – maledizione e benedizione per un romanzo di crescita e cioè per la vita – ti sia toccata. Povero, poverissimo Drogo, tu, io finalmente, senza nemmeno una divisa, senza neanche un po’ di Morte, comunque aureolata di gloria, con cui entrare in confidenza. E tutti questi anni, in cui infilare un’idea, che sono passati invano, politicamente brancolanti, anche se esistenzialmente in piedi e che ora si sbriciolano, penosi, mentre qualcuno ti parla di futuro, e si sente d’istinto che si tratta di bugìe per catturare un’assoluzione o un’investitura. Ma da chi, poi? E per che cosa?
Vai a spiegargli, poi, agli alfieri della svendita, che ricordare i repubblichini non significa nostalgia, ma vuole, vorrebbe, essere proposta politica. Vaglia dire che qui ragazzi, i ragazzi di Salò, guardavano avanti e che tu li rimpiangi e li racconti perché, nella loro estetica un po’ romantica, un po’ decadente, conficcati in quel presente bello e doloroso, pensavano al futuro d’Italia e non a fare una bandiera dei loro piagnistei. Di nuovo: digli che se la tua è nostalgia, lo è nel senso più pieno e vitale: quello che contiene l’amaro della patria lontana, ma anche la vocazione al ritorno. Nel tuo luogo, nella tua terra. Un lungo brivido: e non di morte, ma di piacere annunciato. Se vi pare, da qui all'eternità.
È vero che le donne non vi vogliono più bene: ma perché? «Perché portiamo la camicia nera» dice Sgràub, ed è il secondo endecasillabo. Ed ecco Chiorba che incalza: «Cavolo, ma cosa pensano di noi?». «Hanno detto che siamo da galera», rivela Sgràub, spaccone e immalanconito. «Hanno detto che siamo da catene», precisa Cannella. Delinquenti, insomma. Ma no, non è vero, sono loro, le donne, ad esser tutte puttane, e a darla solo a chi gli conviene. Già perché dovrebbero far gli occhi dolci proprio a noi? Bisogna capirle: «L’amorecoi fascisti non conviene».
Dunque, si guarda alla convenienza. Dunque, i sensi, i sentimenti, le emozioni non contano. Proprio così, ragazzi bisogna rendersene conto, alle donne, oggi, di quelle belle cose che fanno battere il cuore non importa un accidente: «Meglio un vigliacco che non ha bandiera». Un vigliaccocome garanzia. È una garanzia per se stesso e per gli altri, l’essere vigliacco. Le donne non fanno volentieri l’amore con chi frequenta la morte. Preferiscono «uno che serberà le pelle intera».
Sì, d’accordo, ma che schifo. Appiccichiamogli qualcosa al muso di quel vigliacco che non crede in nulla, se non alla necessità di salvare la pellaccia, per portarsi così a letto la troia di turno.
Ecco: «Uno che non ha sangue nelle vene». Noi il sangue ce l’abbiamo. Lo sentiamo pulsare, è rosso e vivo, lo versiamo. Chi se ne frega delle donne se nemmeno ci guardano.
È un urlo contagioso: «Ce ne freghiamo!». Quei ragazzi neri, a fine ottobre del ’43, stanno «tra il finire e il ricominciare». Hanno imboccato una avventura che scalda e gela. C’è un testardo orgoglio romantico nella loro scelta. Rabbia, sfida, il rigore della testimonianza scomoda. Speranza di futuro, poca. La morte ha l’aria di essere terribilmente vicina. Anche loro sono vicini nella camerata dove tra poco sprofonderanno in un sonno pesante, ma forse visitato anche da qualche sogno lieve. Camerati, amici. Ubriachi della loro provocazione gioiosa e disperata. Tutti insieme, tutti soli. Maledettamente incompresi. Maledettamente? E chi se ne frega? Guerrieri in erba, studentelli mascherati da briganti, ragazzi con in tasca non il passaporto per la felicità, ma il destino d’esser strapazzati dalla storia: tutti, insieme e soli, se ne fregano.
[... ] Sgràub – e cioè Mario Castellacci, una di quelle teste matte e libere che nel 1965 inventeranno il cabaret romano Il Bagaglino – ce l’ha fatta. La sua Canzone strafottente è nata, parte per il futuro, breve e intenso. Bruciante. Ci sarà da piangere, ma anche da ridere. Perché quei seicento giorni in cui si corteggia la Signora Morte sono comunque pieni di vita. Scrive Castellaccci che, qualche tempo dopo aver partorito la Canzone strafottente, il comandante lo mandò a chiamare, preannunciandogli una bella sorpresa.
Lui andò e «trovò un battaglione di Ausiliarie, nuove di zecca, ferme sull’attenti, le poppine allineate perbene: erano pronte. E di colpo, a un cenno dell’attempata signora che le comandava, levarono un canto su musica e argomento ahimè già noti: «Le donne che non vogliono a voi bene». E giù una serie patetica di risposte e smentite alla povera Canzone strafottente.
Quarant’anni dopo, l’ex legionario Sgràub riordina i suoi giorni (nel bel libro La memoria bruciata, edito da Mondadori). E si accorge di quanto amore c’è stato in “quella” scelta.
Così racconta l’amore e la moria. Noi non abbiamo vissuto le sue avventure e poi c’è mancato di conoscerlo, però, in qualche modo siamo stati insieme a lui negli anni Sessanta e dopo, quando Luciano Lucci Chiarissi, un ex che non piangeva e non si compiangeva, inventò una rivista liberamente militante come L’Orologio, «ventiquattro pagine mensili per un’iniziativa italiana nel tempo europeo». Non tanto per raccontare le ragioni dei repubblichini, quanto per mostrare / dimostrare che «quelle» ragioni che avevano portato a «quella» scelta potevano essere ben riprese e altrettanto bene spese per affrontare «politicamente» il presente. Forti di progetti e di proposte che magari potevano fare anche a cazzotti col post-fascismo istituzionale del Msi, ma che comunque offrivano non poche occasioni per un dibattito polemicamente costruttivo. Su quel che doveva essere la destra.
[... ] Castellaccci (scomparso nel 2003) racconta la sua storia piena di emozioni, a raffiche, proprio col suono dei mitra crepitanti. Una storia in corsa, verso il precipizio del 25 aprile. Tutto va a rotoli, eppure c’è anche qualcuno che ti capisce e che sospetta in te delle ragioni. Magari un tipografo comunista che ti dice, ma tu, con queste idee e queste passioni che ti ritrovi, non sei fascista. E tu, invece, sai che sai “davvero” fascista, in attesa di trovare un altro nome che comprenda quella storia e la superi, e che sono gli altri a non essere fascisti anzi a non esserlo mai stati, e che magari è il tipografo comunista a non essere comunista, ma ad essere come te senza magari saperlo.
Poi, quel ”tu“ che è il tuo interlocutore ti afferra. Diventi davvero “lui”. Ricapitoli con lui – anche se è morto: ciao Mario, da Mario – il tuo dopoguerra, che solo dopoguerra è stato, senza che la gran prova della guerra – maledizione e benedizione per un romanzo di crescita e cioè per la vita – ti sia toccata. Povero, poverissimo Drogo, tu, io finalmente, senza nemmeno una divisa, senza neanche un po’ di Morte, comunque aureolata di gloria, con cui entrare in confidenza. E tutti questi anni, in cui infilare un’idea, che sono passati invano, politicamente brancolanti, anche se esistenzialmente in piedi e che ora si sbriciolano, penosi, mentre qualcuno ti parla di futuro, e si sente d’istinto che si tratta di bugìe per catturare un’assoluzione o un’investitura. Ma da chi, poi? E per che cosa?
Vai a spiegargli, poi, agli alfieri della svendita, che ricordare i repubblichini non significa nostalgia, ma vuole, vorrebbe, essere proposta politica. Vaglia dire che qui ragazzi, i ragazzi di Salò, guardavano avanti e che tu li rimpiangi e li racconti perché, nella loro estetica un po’ romantica, un po’ decadente, conficcati in quel presente bello e doloroso, pensavano al futuro d’Italia e non a fare una bandiera dei loro piagnistei. Di nuovo: digli che se la tua è nostalgia, lo è nel senso più pieno e vitale: quello che contiene l’amaro della patria lontana, ma anche la vocazione al ritorno. Nel tuo luogo, nella tua terra. Un lungo brivido: e non di morte, ma di piacere annunciato. Se vi pare, da qui all'eternità.
Mario Bernardi Guardi (Pisa) è scrittore e giornalista, conferenziere e organizzatore culturale. Ha pubblicato in volume saggi su Nietzsche, Borges, Jünger, la cultura mitteleuropea, i tic e i tabù della sinistra, Gobetti, Berto Ricci, Risorgimento e Antirisorgimento. Attualmente scrive su Libero, Il Foglio, Il Tempo, Secolo d'Italia, Il Domenicale, Linea e Palomar.
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