Dal Secolo d'Italia di sabato 1 dicembre 2007
Una gita a Naumburg, in Turingia, può diventare occasione di scoperta dell’insolito viaggio di un’icona: il volto dell’affascinante ma algida statua di Uta di Ballenstedt, che troneggia nel Duomo locale, è stato infatti, tramite gli studi Disney, trasformato nella crudele faccia accigliata di Grimilde, la strega cattiva di Biancaneve e i sette nani. Scoperta, viaggio e retroscena del passaggio di testimone dall’antica statua della bionda nobildonna germanica alla sua caricatura in versione malvagia sono ora raccontate nelle pagine di un elegante libretto, scritto da uno studioso di filosofia, Stefano Poggi, intitolato La vera storia della Regina di Biancaneve, dalla Selva Turingia a Hollywood (Raffaello Cortina Editore, pp. 104, 14 euro). «Siamo dinanzi – scrive Poggi – a un caso emblematico nella creazione di immagini, di icone che rappresentano un tratto tipico della storia culturale e artistica del Novecento».
Ma la bella Uta di Naumburg, la cui statua è collocata nella parte riservata alla celebrazione dei fondatori del Duomo, come ha potuto varcare l’oceano e sbarcare a Hollywood per essere “ridisegnata” nelle fattezze di Grimilde? Il suo volto, altero e dai lineamenti perfetti, aristocratico e attraente al punto da divenire modello delle virtù estetiche femminili, era una presenza costante in tutte le pubblicazioni dedicate alla storia dell’arte medievale tedesca nei primi decenni del Novecento.
Era un volto ben presente, quindi, a Wolfgang Reithermann, figlio di emigranti tedeschi giunti in America nel 1912 e divenuto in seguito uno dei grafici che con Walt Disney – il “mago di Burbank” – definirono tecniche, soggetti e bozzetti del film capolavoro Biancaneve e i sette nani.
Quando Disney partì nel 1935 per un tour europeo assieme al fratello Roy, Reithermann lo consigliò caldamente di visitare Naumburg e di osservare da vicino la statua della bella Uta per cucirgli addosso i panni di Grimilde. Fu l’idea risolutiva, così come quella di mettere a Betty Boop i panni di Biancaneve. Disney fu colpito dalla fotografia della statua indicata dal suo collaboratore: «Era proprio bella, anzi impressionava e quasi raggelava, forse era da pensare a lei come modello per quella che ormai tutti erano d’accordo di chiamare col bel nome tedesco di Grimhilde…».
La ricostruzione nel libro risulta un po’ appesantita dalla preoccupazione dell’autore di conferire a quest’operazione così interessante di una traccia dell’immaginario europeo convertita al cinema hollywoodiano l’alone politico di un complotto ai danni di Goebbles e del nazionalsocialismo.
Sicché l’opzione di Uta-Grimilde sarebbe da ascrivere alle pressioni in tal senso di Marlene Dietrich e del fotografo Paul Horst, che effettivamente Disney incontrò sulla nave “France” salpata da Le Havre per New York nel settembre del 1935. Entrambi erano presenti alla proiezione del film a Los Angeles, in prossimità del Natale 1937. L’attrice era compiaciuta, Horst invece si rammaricò per la corona della matrigna cattiva «che – osservò – ricorda il grattacielo Chrysler di New York». La beffa di rendere malvagia la nobile e bella Uta sarebbe servita a infrangere il progetto estetico del Reich che aveva fatto di Uta un’eroina völkisch, emblema della bellezza femminile germanica. Al punto che il potente ministro della Propaganda di Hitler si sarebbe dato da fare per mettere a tacere la provocazione ordita dagli studi Disney ai danni della Germania.
Una ricostruzione verosimile? Di fatto su questo punto si insiste nel libro con un’enfasi eccessiva, che non tiene conto del fatto tra l’altro che Hitler era un fervente ammiratore di Disney e che il suo film Biancaneve, ispirato dalla favola dei fratelli Grimm, era il preferito del poeta francese e fascista Robert Brasillach.
Inoltre, nel suo viaggio americano, la regista Leni Riefenstahl, che aveva celebrato con Olympia i giochi di Berlino del 1936, fu accolta con amabile simpatia proprio da Walt Disney che non si uniformò al boicottaggio dell’opera della regista organizzato dalla Lega antinazista.
La stessa Riefenstahl rievoca l’incontro nella sua autobiografia Stretta nel tempo: «Ci invitò anche Walt Disney e l’incontrò non mancò di sorprese. Visitammo i suoi studi durante la mattinata, poi restammo con lui tutto il giorno; con pazienza e orgoglio ci mostrò le sue creazioni, spiegandoci la tecnica con cui infondeva in loro la vita, e gli schizzi del suo ultimo film L’apprendista stregone. Ne restai affascinata: era un genio, un vero stregone, con una fantasia senza limiti…».
Infine, c’è da aggiungere che se la statua di Uta aveva solleticato in passato i romantici devoti al pangermanesimo, nell’iconografia del la donna del Terzo Reich l’aristocratica margravia era destinata a un ruolo marginale, visto che – come spiega Bertold Hinz nel suo L’arte del nazismo – l’ideologia nazionalsocialista impose nella pittura, nella letteratura e nei film l’immagine della donna-madre e celebrò la bellezza attraverso un esuberanza di forme classicheggianti, indulgendo spesso nell’esibizione dei nudi femminili.
Calare perciò la vicenda di Uta- Grimilde nel contesto della propaganda nazionalsocialista senza le opportune sfumature fa correre al libro il rischio di semplificare un po’ troppo le cose. In ogni caso, a livello simbolico ed estetico, il viaggio nell’immaginario compiuto da Uta che diviene Grimilde meritava di essere narrato, giungendo anche, come fa l’autore, alla conclusione che alla fine il fascino della prima viene esaltato dalla sua imitatrice californiana, sicché il personaggio del film acquisisce una «forza di seduzione quasi magnetica» e conquista un posto durevole «tra i cattivi per antonomasia della cinematografia del Novecento».
Ma la bella Uta di Naumburg, la cui statua è collocata nella parte riservata alla celebrazione dei fondatori del Duomo, come ha potuto varcare l’oceano e sbarcare a Hollywood per essere “ridisegnata” nelle fattezze di Grimilde? Il suo volto, altero e dai lineamenti perfetti, aristocratico e attraente al punto da divenire modello delle virtù estetiche femminili, era una presenza costante in tutte le pubblicazioni dedicate alla storia dell’arte medievale tedesca nei primi decenni del Novecento.
Era un volto ben presente, quindi, a Wolfgang Reithermann, figlio di emigranti tedeschi giunti in America nel 1912 e divenuto in seguito uno dei grafici che con Walt Disney – il “mago di Burbank” – definirono tecniche, soggetti e bozzetti del film capolavoro Biancaneve e i sette nani.
Quando Disney partì nel 1935 per un tour europeo assieme al fratello Roy, Reithermann lo consigliò caldamente di visitare Naumburg e di osservare da vicino la statua della bella Uta per cucirgli addosso i panni di Grimilde. Fu l’idea risolutiva, così come quella di mettere a Betty Boop i panni di Biancaneve. Disney fu colpito dalla fotografia della statua indicata dal suo collaboratore: «Era proprio bella, anzi impressionava e quasi raggelava, forse era da pensare a lei come modello per quella che ormai tutti erano d’accordo di chiamare col bel nome tedesco di Grimhilde…».
La ricostruzione nel libro risulta un po’ appesantita dalla preoccupazione dell’autore di conferire a quest’operazione così interessante di una traccia dell’immaginario europeo convertita al cinema hollywoodiano l’alone politico di un complotto ai danni di Goebbles e del nazionalsocialismo.
Sicché l’opzione di Uta-Grimilde sarebbe da ascrivere alle pressioni in tal senso di Marlene Dietrich e del fotografo Paul Horst, che effettivamente Disney incontrò sulla nave “France” salpata da Le Havre per New York nel settembre del 1935. Entrambi erano presenti alla proiezione del film a Los Angeles, in prossimità del Natale 1937. L’attrice era compiaciuta, Horst invece si rammaricò per la corona della matrigna cattiva «che – osservò – ricorda il grattacielo Chrysler di New York». La beffa di rendere malvagia la nobile e bella Uta sarebbe servita a infrangere il progetto estetico del Reich che aveva fatto di Uta un’eroina völkisch, emblema della bellezza femminile germanica. Al punto che il potente ministro della Propaganda di Hitler si sarebbe dato da fare per mettere a tacere la provocazione ordita dagli studi Disney ai danni della Germania.
Una ricostruzione verosimile? Di fatto su questo punto si insiste nel libro con un’enfasi eccessiva, che non tiene conto del fatto tra l’altro che Hitler era un fervente ammiratore di Disney e che il suo film Biancaneve, ispirato dalla favola dei fratelli Grimm, era il preferito del poeta francese e fascista Robert Brasillach.
Inoltre, nel suo viaggio americano, la regista Leni Riefenstahl, che aveva celebrato con Olympia i giochi di Berlino del 1936, fu accolta con amabile simpatia proprio da Walt Disney che non si uniformò al boicottaggio dell’opera della regista organizzato dalla Lega antinazista.
La stessa Riefenstahl rievoca l’incontro nella sua autobiografia Stretta nel tempo: «Ci invitò anche Walt Disney e l’incontrò non mancò di sorprese. Visitammo i suoi studi durante la mattinata, poi restammo con lui tutto il giorno; con pazienza e orgoglio ci mostrò le sue creazioni, spiegandoci la tecnica con cui infondeva in loro la vita, e gli schizzi del suo ultimo film L’apprendista stregone. Ne restai affascinata: era un genio, un vero stregone, con una fantasia senza limiti…».
Infine, c’è da aggiungere che se la statua di Uta aveva solleticato in passato i romantici devoti al pangermanesimo, nell’iconografia del la donna del Terzo Reich l’aristocratica margravia era destinata a un ruolo marginale, visto che – come spiega Bertold Hinz nel suo L’arte del nazismo – l’ideologia nazionalsocialista impose nella pittura, nella letteratura e nei film l’immagine della donna-madre e celebrò la bellezza attraverso un esuberanza di forme classicheggianti, indulgendo spesso nell’esibizione dei nudi femminili.
Calare perciò la vicenda di Uta- Grimilde nel contesto della propaganda nazionalsocialista senza le opportune sfumature fa correre al libro il rischio di semplificare un po’ troppo le cose. In ogni caso, a livello simbolico ed estetico, il viaggio nell’immaginario compiuto da Uta che diviene Grimilde meritava di essere narrato, giungendo anche, come fa l’autore, alla conclusione che alla fine il fascino della prima viene esaltato dalla sua imitatrice californiana, sicché il personaggio del film acquisisce una «forza di seduzione quasi magnetica» e conquista un posto durevole «tra i cattivi per antonomasia della cinematografia del Novecento».
Annalisa Terranova è nata a Roma nel 1962, giornalista e scrittrice. Caposervizio al "Secolo d’Italia", è redattrice al mensile "Area" e collabora con varie testate. E' stata tra le fondatrici del Centro Studi Futura ed attiva nella rivista "Eowyn". Ha pubblicato (per le edizioni Settimo Sigillo), Planando sopra boschi di braccia tese ('96), saggio sul movimento giovanile del MSI, e Aspetta e spera che già l’ora si avvicina (2002), dedicato agli eventi di Alleanza Nazionale in rapporto alla svolta di Fiuggi. Recentemente ha pubblicato Camicette nere. Donne di lotta e di governo da Salò ad Alleanza Nazionale (Mursia, 2007)
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