lunedì 14 gennaio 2008

Il rocker e la maestrina, che musica ragazzi! (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 13 gennaio 2008

Capirete benissimo, se conoscete il poker. All’inizio c’era solo una coppia, che era sì promettente ma che, da sola, non garantiva nulla di straordinario. Forse un buon bluff, ma non certo una di quelle mani che ti fanno sentire baciato dalla fortuna e che proprio per questo, prima ancora che per la vincita in se stessa, ti porti nel cuore a lungo, forse per sempre. Lacoppia (di re? di regine? di assi?) era formata da Robert Plant, il magnifico ma ormai quasi sessantenne ex cantante del Led Zeppelin, e da Alison Krauss, che qui in Italia è una perfetta sconosciuta ma che a casa sua, negli Usa, è un’autentica star del country, diramazione bluegrass.
Nulla di più diverso. Innanzitutto sul piano artistico, ma anche su quello dell’estetica personale. Anche se dopo lo scioglimento degli Zeppelin Plant ha dimostrato in tutti i modi di non voler restare imprigionato nell’immagine che lo aveva reso famoso – la superstar che incarna al massimo grado la forza e la bellezza di una gioventù onnipotente – la sua dimensione naturale è rimasta quella: suono denso e potente, intriso di elettricità e scandito da una batteria robusta, e look da inguaribile rocker, coi capelli che magari ingrigiscono ma che rimangono lunghissimi e con la faccia, per quanto segnata dal tempo e scavata dalle rughe, di uno che si può vestire in qualsiasi modo tranne che in giacca e cravatta. Alison, al contrario, viene appunto dal bluegrass: la cui officina tradizionale è uno scarno laboratorio di strumenti acustici a corda – di solito banjo, mandolino, chitarra e fiddle (il violino che si suona appoggiandolo non alla spalla ma all’interno della coscia) – e fin dal proprio aspetto incarna alla perfezione il tipo della cantante ”acqua e sapone” che piace tanto a certa America vecchio stampo. Tecnicamente brava e professionalmente determinata, ma mai così innovativa da mettere a repentaglio il filo della continuità con la tradizione; carina e attraente, ma non così tanto da mettere in imbarazzo le altre donne – e da seminare lo scompiglio tra i rispettivi partner.
Ancora adesso, a guardarli distrattamente in uno qualsiasi dei filmati che li ritraggono insieme durante le interviste promozionali dell’album, sembrano due estranei che si sono ritrovati l’uno accanto all’altro solo per un caso fortuito. Fai conto la sala d’attesa di un aeroporto. O un party in cui la lista degli ospiti è stata preparata senza preoccuparsi affatto della loro omogeneità.
Ma questa, appunto, è solo la prima impressione. Quando cominciano a parlare, quando cominciano a ricostruire la nascita e lo sviluppo del loro sodalizio, l’idea di estraneità si dissolve rapidamente, cedendo il passo a quella di un’intesa profonda. Si vede che c’è grande stima, attenzione reciproca, consapevolezza degli ottimi risultati raggiunti. E anche quel pizzico di meraviglia, così piacevole e gratificante, di chi nemmeno se lo aspettava, di arrivare a tanto.
Quali che siano i motivi che lo hanno reso possibile, l’incontro è andato ben al di là di una semplice collaborazione tra professionisti di lungo corso: lavorando insieme, come danzatori che preparano un balletto impegnativo, come ricercatori che inseguono l’esperimento che comproverà una teoria suggestiva, hanno trovato una sintonia speciale, che supera la mera competenza e sconfina in qualcosa di più sottile. Di piùfremente. Di più creativo.
Assistiti da un produttore straordinario come T Bone Burnett, che è un musicista di prim’ordine, da sempre in cerca di atmosfere particolari, Alison e Robert hanno affrontato la preparazione di Raising Sand come un’esperienza tutta da scoprire. Il rischio dei duetti, specie tra star di questo calibro, è che ciascuno canti la propria parte come la canterebbe se fosse da solo. Una strofa tu, una strofa io, e il ritornello insieme. Una passerella ad applauso garantito. Uno spot per dividersi i profitti. Una sorta di fotomontaggio sonoro che, per quanto accurato, non può annullare il vizio d’origine della sua artificiosità. Perché le cose funzionino davvero, invece, è essenziale che ciascuno dei partecipanti si apra alla sensibilità dell’altro. Che lo ascolti, mentre canta, non solo per calibrare in modo inappuntabile il proprio inserimento, ma per riceverne un’emozione inattesa. E per liberare, a propria volta, un’interpretazione particolare, che si affranchi da ogni clichè e azzardi un movimento inusuale. Il passato – finalmente – come il trampolino di un tuffatore, invece che come il piedistallo della statua, più o meno grandiosa, più o meno pregevole, innalzata per celebrare la propria abilità.
Ciò che rende notevole Raising Sand è proprio questo. Dall’inizio alla fine, l’album è attraversato da un che di imprevedibile. Quasi di oscuro. Come in certi racconti di Truman Capote (anche senza arrivare alla malvagità inesorabile di Bare intagliate a mano, forse il vero capolavoro di Musica per camaleonti) la sensazione è che le apparenze siano ingannevoli e che, sotto la superficie, ci sia ben altro che un mondo armonioso e rassicurante. Guardatele da lontano, queste minuscole cittadine lungo la strada, questi luoghi troppo piccoli perchè il treno ci si fermi, e vedrete strade diritte ed edifici ordinati, se non proprio belli. Fermatevi a prendere un caffé, o a consumare un pasto veloce, e potrete anche concludere che il posto è davvero carino: vita tranquilla e persone gentili.
Ma provate ad avvicinarvi, invece. Provate a fermarvi per il tempo necessario a vedere al di là del vostro naso. Scorgerete cose diverse. Un’altra realtà. Un’altra America. Quella che ribalta le immagini da cartolina del country “made in Nashville” e, ai suoi colori brillanti, ai suoi sorrisi stereotipati, contrappone toni più sobri e facce più credibili.
Osservate il bianco e nero della copertina di Raising Sand; ascoltate la sua musica disadorna, quasi stilizzata. Avrete l’occasione di ricordarvi che le luci e le ombre, come il bene e il male, come la speranza e la delusione, sono entità maledettamente contigue.
(Robert Plant & Alison Krauss, Raising Sand, 2007)
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000. Prima su “Ideazione.com”, poi sui quotidiani “Linea”, di cui è stato caporedattore fino al maggio scorso, e “Il Secolo d’Italia”.

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