Articolo di Pierluigi Mennitti
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 13 gennaio 2008
Potrebbe essere l’inizio di una nuova era, se dura, se tiene, se arriva sino in fondo. Le primarie per la presidenza degli Stati Uniti sono una battaglia elettorale lunga e faticosa, ricca di colpi di scena e capovolgimenti, capace di portare alle stelle e poi gettare nella polvere qualsiasi candidato, specie oggi in pieno dominio mediatico. Ma se Barack Obama dura, se tiene, se arriva fino in fondo, se sopravviverà alle montagne russe su cui stampa e tv lo hanno scaraventato dopo la vittoria in Iowa e la sconfitta in New Hampshire, avremo davvero assistito in tempo reale a un cambio radicale di stagione politica. Per restare agli Stati Uniti e non abbandonare il solco della retorica, avremo assistito a qualcosa paragonabile allo sbocciare del mito kennediano.
Quando alcuni mesi fa il senatore dell’Illinois aveva rotto gli indugi e deciso di affrontare la lunga maratona delle primarie, nessuno immaginava che una forza della natura come Hillary Clinton avrebbe trovato un rivale capace di tenerle testa. Giovane, affascinante, affabile e, soprattutto, testimonial vivente della speranza. Lui, nero, perfettamente e naturalmente integrato (e per questo malvisto dai radicali della comunità afroamericana) in una società che fa dell’ascesa sociale e della mobilità uno dei punti di forza, dei miti indissolubili, nonostante la realtà sia poi molto diversa. E a questa realtà diversa guarda Obama mettendo a fuoco incontro dopo incontro, discorso dopo discorso, il suo progetto di cambiamento che finora appare tanto affascinante quanto vago e indeterminato. Un’idea più che un’agenda di cose da fare. A una società frastagliata e disorientata, frammentata in mille rivoli individualistici, Obama racconta la favola di un paese che è stato grande e che deve riconquistare innanzitutto la capacità di pensarsi assieme.
In fondo, è il disagio vissuto da tutte le società occidentali contemporanee. La mucillagine italiana descritta dall’ultimo rapporto del Censis non è troppo diversa dall’arcipelago americano o dall’impasse che vivono società come quella francese o tedesca. Solo che Obama non solletica le paure dei suoi cittadini, non accresce il loro disorientamento per tradurlo in una politica di ricompattamento contro il nemico esterno, vero o immaginario. La prospettiva scelta da questo outsider apparente (un senatore negli Usa non può essere un vero outsider) è di guardare in positivo, di interpretare una speranza, il desiderio di un nuovo sogno americano. I commentatori statunitensi, fulminati dalla sua eleganza, si sprecano in paragoni: i Kennedy John e Bob, Martin Luter King e via elencando. Ma il paragone più calzante è quello che gli ha incollato addosso un columnist eccentrico come Andrew Sullivan che ha parlato di lui come del nuovo Ronald Reagan, lo straordinario interprete degli anni Ottanta, la stagione della deregulation, della riscoperta del privato, della forza prorompente dell’individuo.
Obama parla d’altro. Parla di sicurezza sociale e di sanità per tutti, in un paese dove il 15 per cento della popolazione non riesce a permettersi una tutela medica decente. Parla di investimenti pubblici nelle infrastrutture per rilanciare l’economia nazionale. Parla di riequilibrio energetico per spezzare il cappio della dipendenza petrolifera. Parla di tutela dell’ambiente contro un’amministrazione che è apparsa cocciutamente sorda verso questo argomento. Scalda i cuori, laddove la sua avversaria più temibile, quella Hillary Clinton carica di esperienza e di favori del pronostico, riesce a raffreddarli con il suo cinico senso per il potere.
Dopo la vittoria nell’Iowa, all’esordio della lunga marcia verso la nomination democratica, Obama saltellava allegro con la sua giovane famiglia, una moglie deliziosa, due perle di figlie, piccole e ingenue come il cuore profondo dell’America. Per un momento (evidentemente breve, già finito con il voto in New Hampshire) l’entourage di Hillary Clinton - il marito Bill, la figlia Chelsea, l’ex segretario di Stato Madeleine Albright - è apparso come la rappresentazione di un quadro antico che raccontava il passato, non il futuro.
Ci sono momenti, nella storia dei paesi, in cui un uomo, anche indipendentemente dalle sue capacità, incrocia il comune sentire della sua gente. E lo interpreta. Ad Obama può accadere così che anche un punto debole, come il fatto di non parlare della guerra in Iraq e più in generale della guerra al terrorismo, può trasformarsi in un punto di forza. Per lui la storia irachena s’è chiusa quando ha detto no, in Senato, nel momento in cui tutto il paese (e assieme ad esso Hillary Clinton) ha appoggiato la scelta di intervenire contro Saddam Hussein e il suo regime. Oggi, semplicemente, ha messo la questione alle spalle. Sceglie altri temi, superando d’un balzo l’argomento che ha lacerato l’America.
Obama può durare, può tenere, può arrivare fino in fondo perché è capitato nel posto giusto al momento giusto e con la formula vincente. Quella della speranza, invece che della paura. Se sarà capace di dare concretezza e contenuto a quella che oggi appare ancora solo come una splendida suggestione, questo quarantacinquenne dall’aria di ragazzino potrà segnare uno spartiacque, anche a prescindere dalla sua vittoria finale. Sì, potrebbe anche perdere e ugualmente aprire la strada alla suanuova frontiera.
Saltiamo continente. Altri umori, altre atmosfere. Europa, Berlino, notte di San Silvestro. La cancelliera Angela Merkel ha da poco cominciato il tradizionale discorso televisivo di fine anno, che in Germania è riservato al capo del governo. Nei primi minuti concentra tutti i risultati positivi collezionati dalla Germania da quando lei è al governo: economia, politica internazionale, tenuta sociale. Il suo è uno stile pacato e composto, la voce monocorde s’impenna solo all’inizio delle frasi, descrive non declama. Non è in campagna elettorale ma deve rendere conto di due anni di governo di grande coalizione non sempre brillante nelle questioni domestiche. Eppure è tutto un concentrato di buone notizie, calate nella difficile fase dell’economia internazionale. Non c’è spazio per i rimpianti, che pure sono tanti specie in tema di riforme. Nessuno spazio per le giustificazioni. La cancelliera evidenzia i successi e li accompagna con un messaggio costruttivo di speranza per i mesi futuri. Non sono le paure a segnare il programma dei prossimi mesi ma la volontà di poggiare sui successi per costruire uno scenario collettivo nel quale ciascun tedesco possa trovare comodamente il suo posto. Un progetto per la Germania del 2008 che esalta la voglia di rimboccarsi le maniche e il desiderio di partecipare: grande attenzione ai temi sociali che rassicurano le fasce indebolite, distanza dai toni roboanti e retorici che spacciano miracoli a buon mercato.
È un orizzonte nuovo e poggia su un cambiamento di clima che a Berlino s’è innescato in concomitanza con un evento se vogliamo banale, il mondiale di calcio del 2006. In quell’estate è cambiato l’umore del paese, le malinconie e i lamenti hanno ceduto il passo alla fiducia e i tedeschi si sono accorti di colpo che non erano poi così male come s’erano rassegnati a raccontarsi da qualche anno. La politica ha assecondato questo cambio d’umore. E la Merkel lo ha rappresentato meglio di tutti. Ecco perché è amata e riverita da amici e nemici. Una larga fetta del suo partito non la ama, perché la considera poco conservatrice e troppo sociale ma lei è divenuta indispensabile perché è l’unico politico in grado di disegnare un progetto positivo per il paese e di essere creduta dagli elettori. Nei sondaggi la Cdu resta al palo, lei vola. I suoi avversari non sanno più che cosa inventarsi, i socialdemocratici progettano di demolirne l’immagine con una campagna elettorale ad personam: sollevano paure e scivolano nei consensi.
Un passo più ad est verso Varsavia. Il derby delle destre polacche è stato in fondo uno scontro fra una visione pessimistica e una ottimistica del destino della Polonia. Tra le paure e le angoscie elette a programma politico e pratica di governo dei gemelli Kaczynski e la saggezza positiva di Donald Tusk. La vittoria di quest’ultimo, ben superiore rispetto ai sondaggi delle settimane pre elettorali, è stata il risultato del cambio di clima che aveva investito la società polacca nei mesi precedenti. Al vuoto esistenzialeprodotto dalla rabbia e dal rancore populista dei Kaczynsky, gli elettori hanno preferito il messaggio ragionevole di Tusk, la sua fiducia nei cittadini e nei corpi intermedi dello Stato, la sua speranza nell’Europa, la sua visione costruttiva nei rapporti con i vicini, tedeschi e russi in primo luogo. Non c’è un nemico da combattere ma un destino da costruire, possibilmente sorridendo. Da Varsavia a Kiev cambia lo spartito e mutano i protagonisti, ma tra l’ex eroe arancione intristito (Yushenko) e il suo avversario che compatta una metà del paese ma terrorizza l’altra (Yanukovic) alla fine la spunta una speranza bianca, grintosae positiva, con il bel volto sorridente incorniciato nella treccia bionda tradizionale. È stata dura ma adesso Julia Timoshenko può provarci ancora una volta e, se ne sarà capace, potràcondurre l’Ucraina fuori dalla transizione infinita.
Ottimismo, speranza, umanesimo. C’è ansia di superare il primo decennio del nuovo secolo scartando dai binari consolidati dello scontro ideologico. Quella che avanza è una nuova generazione politica post ideologica, che mescola speranze e passioni difficilida incardinare nelle caselle tradizionali della destra e della sinistra. Il radical Obama incanta i repubblicani, il neogollista Nicolas Sarkozy attira i socialisti. L’ultimo messaggio del presidente francese rompe davvero gli schemi, la politica di civilizzazione rimette in discussione paradigmi consolidati, cerca di dare risposte positive alle ansie contemporanee pescando a destra e a sinistra, a est e ad ovest, rimette l’uomo al centro della politica, spoglia di ideologismi i progetti ambientalisti, attacca senza compromessi le derive della globalizzazione, mette in soffitta i feticci della destra neoliberista dei due decenni passati. Non sono lontani gli echi dell’ultima enciclica di Papa Benedetto XVI (non a caso intitolata Spe Salvi, salvi grazie alla speranza) o i suoi recenti richiami su globalizzazione eordine mondiale.
Scompaginare, sorprendere e inventare nuovi paradigmi. In fondo il politico che avanza sembra volere recuperare il senso antico del suo mestiere, immaginare il futuro senza lasciarsi imprigionare dalle paure del nuovo. Il fatto che siano crollate le ideologie aggiunge e non toglie la fantasia di inventare. Alcuni mesi fa la rivista di cultura politica tedesca Cicero sosteneva che proprio oggi si andava realizzando quanto profetizzato nei decenni precedenti: il crollo dei riferimenti politici che per due secoli avevano determinato i nostri orientamenti, il superamento della destra e della sinistra, la ricerca di nuove sintesi. È il tempo dei politici che interpretano la speranza di uncambiamento.
Pierluigi Mennitti (Brindisi, 1966). Laureato all’Università La Sapienza di Roma in Scienze Politiche, è stato direttore della rivista di cultura politica Ideazione, per la quale ha tenuto una rubrica (Alexanderplatz) in qualità di inviato in Germania, paese nel quale risiede. In veste di politologo ha più volte presenziato alla trasmissione Otto e mezzo condotta da Giuliano Ferrara. Collabora anche con la rivista Emporion e diversi quotidiani, tra cui il Secolo d'Italia.
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 13 gennaio 2008
Potrebbe essere l’inizio di una nuova era, se dura, se tiene, se arriva sino in fondo. Le primarie per la presidenza degli Stati Uniti sono una battaglia elettorale lunga e faticosa, ricca di colpi di scena e capovolgimenti, capace di portare alle stelle e poi gettare nella polvere qualsiasi candidato, specie oggi in pieno dominio mediatico. Ma se Barack Obama dura, se tiene, se arriva fino in fondo, se sopravviverà alle montagne russe su cui stampa e tv lo hanno scaraventato dopo la vittoria in Iowa e la sconfitta in New Hampshire, avremo davvero assistito in tempo reale a un cambio radicale di stagione politica. Per restare agli Stati Uniti e non abbandonare il solco della retorica, avremo assistito a qualcosa paragonabile allo sbocciare del mito kennediano.
Quando alcuni mesi fa il senatore dell’Illinois aveva rotto gli indugi e deciso di affrontare la lunga maratona delle primarie, nessuno immaginava che una forza della natura come Hillary Clinton avrebbe trovato un rivale capace di tenerle testa. Giovane, affascinante, affabile e, soprattutto, testimonial vivente della speranza. Lui, nero, perfettamente e naturalmente integrato (e per questo malvisto dai radicali della comunità afroamericana) in una società che fa dell’ascesa sociale e della mobilità uno dei punti di forza, dei miti indissolubili, nonostante la realtà sia poi molto diversa. E a questa realtà diversa guarda Obama mettendo a fuoco incontro dopo incontro, discorso dopo discorso, il suo progetto di cambiamento che finora appare tanto affascinante quanto vago e indeterminato. Un’idea più che un’agenda di cose da fare. A una società frastagliata e disorientata, frammentata in mille rivoli individualistici, Obama racconta la favola di un paese che è stato grande e che deve riconquistare innanzitutto la capacità di pensarsi assieme.
In fondo, è il disagio vissuto da tutte le società occidentali contemporanee. La mucillagine italiana descritta dall’ultimo rapporto del Censis non è troppo diversa dall’arcipelago americano o dall’impasse che vivono società come quella francese o tedesca. Solo che Obama non solletica le paure dei suoi cittadini, non accresce il loro disorientamento per tradurlo in una politica di ricompattamento contro il nemico esterno, vero o immaginario. La prospettiva scelta da questo outsider apparente (un senatore negli Usa non può essere un vero outsider) è di guardare in positivo, di interpretare una speranza, il desiderio di un nuovo sogno americano. I commentatori statunitensi, fulminati dalla sua eleganza, si sprecano in paragoni: i Kennedy John e Bob, Martin Luter King e via elencando. Ma il paragone più calzante è quello che gli ha incollato addosso un columnist eccentrico come Andrew Sullivan che ha parlato di lui come del nuovo Ronald Reagan, lo straordinario interprete degli anni Ottanta, la stagione della deregulation, della riscoperta del privato, della forza prorompente dell’individuo.
Obama parla d’altro. Parla di sicurezza sociale e di sanità per tutti, in un paese dove il 15 per cento della popolazione non riesce a permettersi una tutela medica decente. Parla di investimenti pubblici nelle infrastrutture per rilanciare l’economia nazionale. Parla di riequilibrio energetico per spezzare il cappio della dipendenza petrolifera. Parla di tutela dell’ambiente contro un’amministrazione che è apparsa cocciutamente sorda verso questo argomento. Scalda i cuori, laddove la sua avversaria più temibile, quella Hillary Clinton carica di esperienza e di favori del pronostico, riesce a raffreddarli con il suo cinico senso per il potere.
Dopo la vittoria nell’Iowa, all’esordio della lunga marcia verso la nomination democratica, Obama saltellava allegro con la sua giovane famiglia, una moglie deliziosa, due perle di figlie, piccole e ingenue come il cuore profondo dell’America. Per un momento (evidentemente breve, già finito con il voto in New Hampshire) l’entourage di Hillary Clinton - il marito Bill, la figlia Chelsea, l’ex segretario di Stato Madeleine Albright - è apparso come la rappresentazione di un quadro antico che raccontava il passato, non il futuro.
Ci sono momenti, nella storia dei paesi, in cui un uomo, anche indipendentemente dalle sue capacità, incrocia il comune sentire della sua gente. E lo interpreta. Ad Obama può accadere così che anche un punto debole, come il fatto di non parlare della guerra in Iraq e più in generale della guerra al terrorismo, può trasformarsi in un punto di forza. Per lui la storia irachena s’è chiusa quando ha detto no, in Senato, nel momento in cui tutto il paese (e assieme ad esso Hillary Clinton) ha appoggiato la scelta di intervenire contro Saddam Hussein e il suo regime. Oggi, semplicemente, ha messo la questione alle spalle. Sceglie altri temi, superando d’un balzo l’argomento che ha lacerato l’America.
Obama può durare, può tenere, può arrivare fino in fondo perché è capitato nel posto giusto al momento giusto e con la formula vincente. Quella della speranza, invece che della paura. Se sarà capace di dare concretezza e contenuto a quella che oggi appare ancora solo come una splendida suggestione, questo quarantacinquenne dall’aria di ragazzino potrà segnare uno spartiacque, anche a prescindere dalla sua vittoria finale. Sì, potrebbe anche perdere e ugualmente aprire la strada alla suanuova frontiera.
Saltiamo continente. Altri umori, altre atmosfere. Europa, Berlino, notte di San Silvestro. La cancelliera Angela Merkel ha da poco cominciato il tradizionale discorso televisivo di fine anno, che in Germania è riservato al capo del governo. Nei primi minuti concentra tutti i risultati positivi collezionati dalla Germania da quando lei è al governo: economia, politica internazionale, tenuta sociale. Il suo è uno stile pacato e composto, la voce monocorde s’impenna solo all’inizio delle frasi, descrive non declama. Non è in campagna elettorale ma deve rendere conto di due anni di governo di grande coalizione non sempre brillante nelle questioni domestiche. Eppure è tutto un concentrato di buone notizie, calate nella difficile fase dell’economia internazionale. Non c’è spazio per i rimpianti, che pure sono tanti specie in tema di riforme. Nessuno spazio per le giustificazioni. La cancelliera evidenzia i successi e li accompagna con un messaggio costruttivo di speranza per i mesi futuri. Non sono le paure a segnare il programma dei prossimi mesi ma la volontà di poggiare sui successi per costruire uno scenario collettivo nel quale ciascun tedesco possa trovare comodamente il suo posto. Un progetto per la Germania del 2008 che esalta la voglia di rimboccarsi le maniche e il desiderio di partecipare: grande attenzione ai temi sociali che rassicurano le fasce indebolite, distanza dai toni roboanti e retorici che spacciano miracoli a buon mercato.
È un orizzonte nuovo e poggia su un cambiamento di clima che a Berlino s’è innescato in concomitanza con un evento se vogliamo banale, il mondiale di calcio del 2006. In quell’estate è cambiato l’umore del paese, le malinconie e i lamenti hanno ceduto il passo alla fiducia e i tedeschi si sono accorti di colpo che non erano poi così male come s’erano rassegnati a raccontarsi da qualche anno. La politica ha assecondato questo cambio d’umore. E la Merkel lo ha rappresentato meglio di tutti. Ecco perché è amata e riverita da amici e nemici. Una larga fetta del suo partito non la ama, perché la considera poco conservatrice e troppo sociale ma lei è divenuta indispensabile perché è l’unico politico in grado di disegnare un progetto positivo per il paese e di essere creduta dagli elettori. Nei sondaggi la Cdu resta al palo, lei vola. I suoi avversari non sanno più che cosa inventarsi, i socialdemocratici progettano di demolirne l’immagine con una campagna elettorale ad personam: sollevano paure e scivolano nei consensi.
Un passo più ad est verso Varsavia. Il derby delle destre polacche è stato in fondo uno scontro fra una visione pessimistica e una ottimistica del destino della Polonia. Tra le paure e le angoscie elette a programma politico e pratica di governo dei gemelli Kaczynski e la saggezza positiva di Donald Tusk. La vittoria di quest’ultimo, ben superiore rispetto ai sondaggi delle settimane pre elettorali, è stata il risultato del cambio di clima che aveva investito la società polacca nei mesi precedenti. Al vuoto esistenzialeprodotto dalla rabbia e dal rancore populista dei Kaczynsky, gli elettori hanno preferito il messaggio ragionevole di Tusk, la sua fiducia nei cittadini e nei corpi intermedi dello Stato, la sua speranza nell’Europa, la sua visione costruttiva nei rapporti con i vicini, tedeschi e russi in primo luogo. Non c’è un nemico da combattere ma un destino da costruire, possibilmente sorridendo. Da Varsavia a Kiev cambia lo spartito e mutano i protagonisti, ma tra l’ex eroe arancione intristito (Yushenko) e il suo avversario che compatta una metà del paese ma terrorizza l’altra (Yanukovic) alla fine la spunta una speranza bianca, grintosae positiva, con il bel volto sorridente incorniciato nella treccia bionda tradizionale. È stata dura ma adesso Julia Timoshenko può provarci ancora una volta e, se ne sarà capace, potràcondurre l’Ucraina fuori dalla transizione infinita.
Ottimismo, speranza, umanesimo. C’è ansia di superare il primo decennio del nuovo secolo scartando dai binari consolidati dello scontro ideologico. Quella che avanza è una nuova generazione politica post ideologica, che mescola speranze e passioni difficilida incardinare nelle caselle tradizionali della destra e della sinistra. Il radical Obama incanta i repubblicani, il neogollista Nicolas Sarkozy attira i socialisti. L’ultimo messaggio del presidente francese rompe davvero gli schemi, la politica di civilizzazione rimette in discussione paradigmi consolidati, cerca di dare risposte positive alle ansie contemporanee pescando a destra e a sinistra, a est e ad ovest, rimette l’uomo al centro della politica, spoglia di ideologismi i progetti ambientalisti, attacca senza compromessi le derive della globalizzazione, mette in soffitta i feticci della destra neoliberista dei due decenni passati. Non sono lontani gli echi dell’ultima enciclica di Papa Benedetto XVI (non a caso intitolata Spe Salvi, salvi grazie alla speranza) o i suoi recenti richiami su globalizzazione eordine mondiale.
Scompaginare, sorprendere e inventare nuovi paradigmi. In fondo il politico che avanza sembra volere recuperare il senso antico del suo mestiere, immaginare il futuro senza lasciarsi imprigionare dalle paure del nuovo. Il fatto che siano crollate le ideologie aggiunge e non toglie la fantasia di inventare. Alcuni mesi fa la rivista di cultura politica tedesca Cicero sosteneva che proprio oggi si andava realizzando quanto profetizzato nei decenni precedenti: il crollo dei riferimenti politici che per due secoli avevano determinato i nostri orientamenti, il superamento della destra e della sinistra, la ricerca di nuove sintesi. È il tempo dei politici che interpretano la speranza di uncambiamento.
Pierluigi Mennitti (Brindisi, 1966). Laureato all’Università La Sapienza di Roma in Scienze Politiche, è stato direttore della rivista di cultura politica Ideazione, per la quale ha tenuto una rubrica (Alexanderplatz) in qualità di inviato in Germania, paese nel quale risiede. In veste di politologo ha più volte presenziato alla trasmissione Otto e mezzo condotta da Giuliano Ferrara. Collabora anche con la rivista Emporion e diversi quotidiani, tra cui il Secolo d'Italia.
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