Dal Secolo d'Italia di sabato 19 gennaio 2008
Non è un libro leggero. E non indulge per niente al politicamente corretto. Il titolo dice tutto: Lettera di un padre omosessuale alla figlia (Rizzoli, pp. 142, euro 15). Sette parole che siamo sicuri faranno storcere la bocca a qualche lettore. È l’automatismo dei riflessi condizionati. Eppure l’autore, Daniele Scalise, è tutt’altro da una persona che fa della sua condizione esistenziale una bandiera da sventolare in piazza, non va in televisione a recitare il ruolo del “diverso” e auspica una civiltà in cui «nessuno per essere qualcuno potrà rivendersi la propria omosessualità come titolo di merito o come motivo di infelicità». Non gli vanno proprio giù i luoghi comuni che vorrebbero i gay più raffinati degli altri, più versati nelle arti, più eleganti, più colti, più sensibili: «Stupidaggini. Enormi, colossali, sesquipedali stupidaggini». Semmai, Scalise è un giornalista e scrittore che ha il coraggio di affrontare fino in fondo una condizione umana che esiste e di fronte alla quale non si può far finta di nulla nascondendo la testa sotto la sabbia. Ce lo impone la responsabilità di vivere dentro la postmodernità. E Scalise vi si attiene, parlando di «gente che conosce la sofferenza per nome e cognome, che ha dovuto affrontare percorsi dolorosi e l’ha fatto con grande dignità».
Politicamente, avendo attraversato da giovanissimo i fermenti del ’68 e del ’77, lui è adesso in grado di sbeffeggiare tutti quelli che a sinistra hanno detto castronerie. «Come è successo – scrive – a Dario Fo. Il premio Nobel, il grande moralizzatore degli anni Sessanta, Settanta, Ottanta, Novanta e poi basta. A suo tempo il Nobel affermò che il governo dell’Avana aveva fatto bene a liberarsi degli omosessuali, che avevano in mano tutte le leve del potere». O quando ricorda che a mettere sotto torchio Pier Paolo Pasolini era stato proprio il puritano Pci, che poi aveva espulso il poeta dal partito il 26 ottobre 1949 per “indegnità politica e morale” sulla scorta della lezione marxista-leninista che giudicava l’omosessualità «un vizio borghese che rischiava di contagiare la maschia gioventù proletaria».
Detto questo, il coraggio di Scalise si spinge oltre, riuscendo a fare fino in fondo i conti con se stesso, con il proprio passato, con la politica e con la società italiana in trasformazione e, soprattutto, con la presenza di suo padre. «Tuo nonno – scrive Scalise a sua figlia – di certo lo ricordi… Anche se non mi chiese nulla sulle cause della mia sofferenza – era molto pudico e sono certo che non l’avrebbe fatto nemmeno se si fosse trattato di una donna – la nostra comunicazione era diventata limpida». E le pagine su “quel” padre sono tra le più toccanti del libro: «È morto alle soglie dei suoi novant’anni, un fascio di durezze e dolcezze, sfinito da una religione primitiva. Nato alla fine dell’Ottocento in una Calabria disadorna e selvatica, aveva vissuto una fanciullezza orfana, sconclusionata, e una giovinezza a suo dire dannata, come sovente lo sono quelle più interessanti. Sul fronte della prima guerra mondiale aveva servito il suo paese con incoscienza e slancio…». Tornato dal fronte, racconta Daniele, suo padre aveva seguito l’avventura fiumana con D’Annunzio: «Ogni volta che parlava del Vate poeta, anche a distanza di decenni, gli si illuminavano gli occhi e gli tornava la febbre della grande impresa. Il suo non era fanatismo ma passione, una passione incarnata in un’idea, un progetto, una storia». Un genitore fascista, insomma: «Mio padre era un giornalista appassionato e credeva che l’unico modo di esercitare la sua professione fosse immergerla nell’ardore politico: aveva abbracciato da subito le spavalde idee mussoliniane… Fino al crollo del regime rimase fedele alle sue convizioni, che non mutò certo dopo la sconfitta. Si sentì però vinto dalla Storia, come molti italiani a lui contemporanei, senza che questo significasse però rinnegare il proprio passato, e tanto meno saltare il fosso accomodandosi tra i vincitori».
Una conciliazione col proprio padre, quella di Scalise, coraggiosa e forte. «Mi ebbe – scrive ora a sua figlia, passando il testimone – all’età che ora ho io e il solo pensiero mi dà un brivido, ricordandomi i nessi che legano indissolubilmente padri e figli, il destino che con gli anni ci fa somiglianti, fino a una scabrosa identità con chi ci ha generato… Mi pare che a volte nei rapporti tra genitori e figli vi sia un’eco armonica, un rimandarsi segnali di generazione in generazione… Ed è questo che immagino possa arricchire il cammino degli esseri umani, il loro mutare pur nella fenomenale identità familiare». È un riconoscimento che tutti gli italiani debbono saper fare. Lo si deve ai propri figli.
Luciano Lanna, laureato in filosofia, giornalista professionista dal 1992 e scrittore (autore, con Filippo Rossi, del saggio dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra. Vallecchi 2004), oltre ad aver lavorato in quotidiani e riviste, si è occupato di comunicazione politica e ha collaborato con trasmissioni radiofoniche e televisive della Rai. Già caporedattore del bimestrale di cultura politica Ideazione e vice direttore del quotidiano L'Indipendente, è direttore responsabile del Secolo d'Italia.
Luciano Lanna, laureato in filosofia, giornalista professionista dal 1992 e scrittore (autore, con Filippo Rossi, del saggio dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra. Vallecchi 2004), oltre ad aver lavorato in quotidiani e riviste, si è occupato di comunicazione politica e ha collaborato con trasmissioni radiofoniche e televisive della Rai. Già caporedattore del bimestrale di cultura politica Ideazione e vice direttore del quotidiano L'Indipendente, è direttore responsabile del Secolo d'Italia.
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