Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 20 gennaio 2008
«Chi lavora in tv ha un incubo: la sovraesposizione. Alla fine la gente si stufa di te e dei tuoi personaggi. In tv bisogna andare quando si ha qualcosa da dire». Magari fosse (almeno qualche volta) così. In troppi ragionano diversamente e si lanciano impunemente all’arrembaggio di palinsesti mai prima d’ora così abbordabili. La via, breve e indolore, per l’affermazione personale è la tv. L’importante è esserci (e farsi notare): qualcosa accadrà. Forse. Il piccolo schermo è – ormai da tempo – la patria dei senza talento, eserciti di figuranti in cerca di un’identità, di un ruolo, di un programma o quanto meno di una comparsata, meglio se a gettone. Se non di una copertina almeno di un trafiletto. In questo dolce naufragare, un’isola non si nega a nessuno. «Troppe letterine, passaparoline, veline che sanno fare poco o niente ma invadono i giornali con i loro amori o mal di testa, stanno sui giornali e passano per show girl». Di chi sono le sagge citazioni, vecchie di qualche anno, che abbiamo speso come incipit? Di Fiorello – il cognome, Rosario il nome, classe ’60 – uno che di talento ne ha da vendere e, particolare non trascurabile, ha anche imparato a gestirlo. A differenza di tanti colleghi che scelgono la rassicurante tranquillità offerta da contratti pluriennali con Rai o Mediaset – «ma che poi non possono dire mai di no» – lui non si è stancato di sperimentare, di passare disinvoltamente dal teatro alla radio, dove «si guadagna la metà della metà della metà… rispetto a quanto si guadagna in tv. Ma si fa lo stesso: per amore, per passione». Se si ha – per l’appunto – qualcosa da dire.
L’appuntamento con VivaRadioDueMinuti – definita con legittimo entusiasmo «novità editoriale dell’anno» dal direttore Fabrizio Del Noce – dopo rinvii e polemiche (a fini promozionali?), parte domani: ore 20.30, più esattamente dopo il tg1. E non durerà solo due minuti, Striscia è avvertita. La Rai torna competitiva, senza gettare pacchi dalla finestra, il che è già un buon inizio. Della trasmissione non si sa granchè, se non che andrà in onda dagli studi di via Asiago, dai quali il format di Fiorello e Baldini ha fatto, nel recente passato, le sue prime e fortunate incursioni televisive. Da programma radiofonico cult a corazzata televisiva? Vedremo, ma noi siamo pronti a scommettere di sì. Perché l’umorismo di Fiorello è incontenibile quanto contagioso, “leggero” quanto rigoglioso, irriverente senza essere volgare. Niente a che vedere con la noiosissima satira militante, rigorosamente a senso unico e con obiettivi ben selezionati. Il povero Neri Marcorè se ne fece quasi una malattia, di infierire su Fassino proprio non se la sentiva: «Sono di sinistra. E quindi c'è più gusto a prendere in giro la destra. Non applico dentro di me la par condicio dell'imitazione».
«Io non faccio proclami politici –tiene invece a sottolineare Fiorello – perché lo spettacolo è di tutti, e non si possono dividere le platee fra destra e sinistra». Senza alcuna pretesa pedagogica: «Nessuna particolare lezione di vita, voglio semplicemente far nascere un sorriso». E quanto ce n’è bisogno! «Mi sono posto questo quesito: ma perché ogni volta che succede qualcosa, guardi la tv e senti certi discorsi, vedi certe facce di circostanza… Come la violenza entra nelle nostre case, di diritto deve entrare anche l’evasione».
Vecchia scuola dell’avanspettacolo, senza concessione alcuna alla retorica buonista e all’ipocrisia di certi comici “impegnati”: «Non è che questo significa non essere sensibili o solidali con le disgrazie del mondo. Chi fa questo mestiere non si deve sentire in colpa se canta una canzone o fa una battuta in un momento in cui c’è gente che soffre e muore nel mondo. Da che mondo è mondo, i giullari ci sono sempre stati, anche nelle guerre».
Magari non riceverà il Nobel per la letteratura, ma nel 2007 ha incassato un riconoscimento più appropriato: il Telegatto dei Telegatti, quello di personaggio dell’anno. Massimo Troisi, con l’autoironia che lo contraddistingueva, raccomandava: «Meglio piacere tantissimo a pochi che piacere “così così” a tanti». Dilemma che non riguarda Fiorello, lui piace a tutti. Lontano dalle cronache “gossippare”, estraneo allo snobismo dei divi (o presunti tali) di professione, rimane un artista sinceramente “popolare”: «Io non voglio essere una persona che non ti saluta nemmeno per strada perché ad applaudirlo sono in tanti...». Un successo – non a caso – costruito dalla gavetta, conquistato di ballo studentesco in prima comunione, di matrimonio in convention aziendale, da animatore nei villaggi turistici – esperienza mai rinnegata – alle prime serate, di paese in paese. Dagli inizi all’incontro determinante con Claudio Cecchetto, tutto riaffiora nel suo immaginifico repertorio. «Il mio primo impresario – racconta – mi scoprì in un villaggio: “Fiorello, se mi dai retta diventerai il Pippo Baudo del 2000”. Io già mi vedevo sposato con la Ricciarelli. Quando dovevamo andare a fare le serate, lui diceva: “Prendete questo ragazzo, sarà il Pippo Baudo del 2000”. Ma lui non sapeva che il Pippo Baudo del 2000 sarebbe stato… sempre Pippo Baudo». Dalle radio locali al debutto televisivo nel ’88 con DeeJay Television, una Mtv ante litteram. E poi, nel ’92 la grande stagione del karaoke nelle piazze italiane con la grancassa di Italia Uno. «Superbamente pasoliniano – lo saluta con entusiasmo Aldo Grasso – perché evoca con gaia sconsideratezza alcuni spettri delle polemiche dello scrittore: l’omologazione delle culture, la televisione come “momento qualunquistico della nuova ideologia edonistica del consumo”. E’ straordinario: divertente, mai banale, la sua comicità è istintuale e non sterilizzata».
Dal Festivalbar al Festival di Sanremo, nel ’95, come concorrente. Dalle sagre ai teatri. Tanti alti. Pochi bassi, non solo professionali. Superati grazie all’affetto della famiglia. «Ricordai le parole di mio padre e il suo quotidiano esempio di rettitudine, come appuntato della Guardia di Finanza: “Un uomo onesto cammina tutta la vita a testa alta”. Da quel giorno ho iniziato la mia ricostruzione». Nicola Fiorello morì nel ’90, improvvisamente, a soli 56 anni, senza assistere alla consacrazione televisiva del figlio, di quelle toccate a pochi: uno spettacolo in prima serata e su misura, l’affermazione come one man show capace di improvvisare, cantare, imitare, divertire tenendo incollate le persone davanti alla tv (o a teatro, dove – peraltro – si paga il biglietto). «Sempre conscio dei miei limiti e della mia vera natura, quella di intrattenitore. Nel senso che non sono un cantante ma canto, non sono un ballerino ma mi diverto a fare qualche passo sul palco, non sono un attore eppure, all'occorrenza, un po’ recito e ho fatto anche il doppiatore (nell’ultimo Garfield, ndr)». E poi, anche se l’attore di famiglia è il fratello minore Beppe, Rosario vanta un film hollywoodiano – Il talento di Mr. Ripley, accanto a due stelle come Matt Damon e Jude Law – nel quale interpreta Tu vuo’ fa l’americano di Renato Carosone, e altri cameo in film come Manuale d’amore (l’infermiere nell’episodio che vede protagonisti Monica Bellucci e Riccardo Scamarcio).
Amato dal pubblico e apprezzato dalla critica. Enzo Biagi, vinta l’iniziale diffidenza, l’ha chiamato a “Il fatto” e promosso «salvatore della patria». Pietro Garinei – padre, con Sandro Giovannini, del musical italiano – in una delle ultime interviste l’ha paragonato a «re dell’improvvisazione» del calibro di Walter Chiari e Totò. «Detto da lui – commentò Fiorello – vale più di una laurea». Che non ha mai preso. «Nella mia vita ho letto poco e guardato pochissimo la tv. Non ho problemi ad ammetterlo. In pratica sono stato chiuso per quindici anni in un villaggio turistico. Tutte le sere sul palco. Non avevo tempo per fare altro. Così, quello che penso non risente di influenze di alcun tipo. Sono io, al naturale». E per fortuna! come ha ammesso Michele Serra: «Se quando stava nei villaggi turistici avesse letto qualche libro, sarebbe un Dio. Per fortuna non li ha letti». «Valtur è stata la mia università – ha commentato tra il serio e il faceto Fiorello – negli show lo dico chiaramente: l’unico mio titolo di studio è il battesimo, studiare, ma si poteva? Augusta è un’isola, eravamo circondati dal sole e dal mare, fin da bambini si stava sempre fuori a giocare». Intendiamoci, qualche denigratore, anche autorevole, non gli è mancato. Più di qualcuno. Le critiche non gli sono state risparmiate. Presuntuoso? Politicamente qualunquista? Troppo ammiccante con il popolo del centrodestra? «Quando hai troppo successo – ha detto Rosario – devono spararti addosso, anch’io ne so qualcosa. Il fatto è che noi italiani non sosteniamo i nostri prodotti». Tanti nemici, molto onore. Risponde con una battuta: «Non dimenticate che io sono cintura nera di karaoke». Già, il peccato originale. Un giornalista è arrivato a chiedergli: «Lei ha portato il karaoke in Italia, ma non si vergogna?»
Il tutto mentre impazzava Tangentopoli e gli uomini di spettacolo si riscoprivano fustigatori politici estranei ai partiti, soprattutto chi era nato e viveva a corte dei potenti. Come se dare vita (e un volto) a un fenomeno che comunque sia rimarrà nella storia della televisione – capace di interpretare la voglia di ottimismo di un popolo interclassista riunificato attorno a un microfono e un palco per cantare – fosse una colpa imperdonabile, una macchia indelebile nella carriera, un gesto controrivoluzionario e conservatore. Per alcuni, sì. Daniele Luttazzi, tanto per citarne uno. «Luttazzi in ogni intervista mi cita per spiegare la differenza tra i meriti della satira politica e la presa in giro bonaria che è quella che faccio io. E non mi sento per questo un deficiente, è che ognuno deve fare il suo, io ho un'estrazione da villaggio turistico, più in là di tanto non posso andare». Un modo garbato per tenere ben distinta la gag divertente dal becero attacco politico. La verità è che Fiorello non s’è intruppato e non gode di sconti: «Manu Chao? Lo rispetto come artista, ma l’ultima canzone mi sembra un temino da seconda elementare. Se l’avessi fatta io mi avrebbero detto giustamente: che stronzata».
Passano gli anni ma Fiorello ha ancora il desiderio (e il coraggio necessario) di mettersi in gioco, tornando in tv. A giudicare dallo spot in bianco e nero in cui si è presentato con tanto di parrucca cotonata, tailleur anni Sessanta e filo di perle alla Nicoletta Orsomando, sembra non aver perso il gusto dell’imitazione. A partire da quelle più celebri, veri e propri tormentoni tra i suoi innumerevoli fans. Dal «democraticamente, diciamolo» di larussiana espressione a Umberto Eco che nello sketch inciampa in un congiuntivo e scoppia a piangere sino allo “Smemorato di Cologno", ispirato a un personaggio della cronaca realmente esistito e ripreso, in chiave parodica, nel film Lo smemorato di Collegno, girato nel ’62 da Sergio Corbucci e interpretato da Totò ed Enrico Viarisio. Ma lo smemorato è anche una non troppo velata parodia di Silvio Berlusconi, pronto a perdere la memoria ogni qualvolta nel colloquio – esilarante – si sfiora il tema del comunismo. Fiorello-Smemorato: «Perché c'è gente che continua a urlarmi Forza Italia? Allora, molto probabilmente potrei anche essere l'allenatore della nazionale». Baldini: «No, guardi, Forza Italia è il nome di un partito». Ancora Fiorello: «Mi consenta, se il partito di governo si chiama Forza Italia, l'opposizione come si chiama: Arbitro cornuto?». Che poi “smemorato” Berlusconi s’è mostrato davvero, non tanto con riferimento all’arma spuntata dell’anticomunismo, ma al punto da dare al nuovo partito il nome che era dell’intera coalizione che lo sosteneva, dimenticando – in un colpo solo – il valore del bipolarismo e la lealtà profusa negli anni dagli alleati… Ma questo è un altro discorso.
Amato dal pubblico e apprezzato dalla critica. Enzo Biagi, vinta l’iniziale diffidenza, l’ha chiamato a “Il fatto” e promosso «salvatore della patria». Pietro Garinei – padre, con Sandro Giovannini, del musical italiano – in una delle ultime interviste l’ha paragonato a «re dell’improvvisazione» del calibro di Walter Chiari e Totò. «Detto da lui – commentò Fiorello – vale più di una laurea». Che non ha mai preso. «Nella mia vita ho letto poco e guardato pochissimo la tv. Non ho problemi ad ammetterlo. In pratica sono stato chiuso per quindici anni in un villaggio turistico. Tutte le sere sul palco. Non avevo tempo per fare altro. Così, quello che penso non risente di influenze di alcun tipo. Sono io, al naturale». E per fortuna! come ha ammesso Michele Serra: «Se quando stava nei villaggi turistici avesse letto qualche libro, sarebbe un Dio. Per fortuna non li ha letti». «Valtur è stata la mia università – ha commentato tra il serio e il faceto Fiorello – negli show lo dico chiaramente: l’unico mio titolo di studio è il battesimo, studiare, ma si poteva? Augusta è un’isola, eravamo circondati dal sole e dal mare, fin da bambini si stava sempre fuori a giocare». Intendiamoci, qualche denigratore, anche autorevole, non gli è mancato. Più di qualcuno. Le critiche non gli sono state risparmiate. Presuntuoso? Politicamente qualunquista? Troppo ammiccante con il popolo del centrodestra? «Quando hai troppo successo – ha detto Rosario – devono spararti addosso, anch’io ne so qualcosa. Il fatto è che noi italiani non sosteniamo i nostri prodotti». Tanti nemici, molto onore. Risponde con una battuta: «Non dimenticate che io sono cintura nera di karaoke». Già, il peccato originale. Un giornalista è arrivato a chiedergli: «Lei ha portato il karaoke in Italia, ma non si vergogna?»
Il tutto mentre impazzava Tangentopoli e gli uomini di spettacolo si riscoprivano fustigatori politici estranei ai partiti, soprattutto chi era nato e viveva a corte dei potenti. Come se dare vita (e un volto) a un fenomeno che comunque sia rimarrà nella storia della televisione – capace di interpretare la voglia di ottimismo di un popolo interclassista riunificato attorno a un microfono e un palco per cantare – fosse una colpa imperdonabile, una macchia indelebile nella carriera, un gesto controrivoluzionario e conservatore. Per alcuni, sì. Daniele Luttazzi, tanto per citarne uno. «Luttazzi in ogni intervista mi cita per spiegare la differenza tra i meriti della satira politica e la presa in giro bonaria che è quella che faccio io. E non mi sento per questo un deficiente, è che ognuno deve fare il suo, io ho un'estrazione da villaggio turistico, più in là di tanto non posso andare». Un modo garbato per tenere ben distinta la gag divertente dal becero attacco politico. La verità è che Fiorello non s’è intruppato e non gode di sconti: «Manu Chao? Lo rispetto come artista, ma l’ultima canzone mi sembra un temino da seconda elementare. Se l’avessi fatta io mi avrebbero detto giustamente: che stronzata».
Passano gli anni ma Fiorello ha ancora il desiderio (e il coraggio necessario) di mettersi in gioco, tornando in tv. A giudicare dallo spot in bianco e nero in cui si è presentato con tanto di parrucca cotonata, tailleur anni Sessanta e filo di perle alla Nicoletta Orsomando, sembra non aver perso il gusto dell’imitazione. A partire da quelle più celebri, veri e propri tormentoni tra i suoi innumerevoli fans. Dal «democraticamente, diciamolo» di larussiana espressione a Umberto Eco che nello sketch inciampa in un congiuntivo e scoppia a piangere sino allo “Smemorato di Cologno", ispirato a un personaggio della cronaca realmente esistito e ripreso, in chiave parodica, nel film Lo smemorato di Collegno, girato nel ’62 da Sergio Corbucci e interpretato da Totò ed Enrico Viarisio. Ma lo smemorato è anche una non troppo velata parodia di Silvio Berlusconi, pronto a perdere la memoria ogni qualvolta nel colloquio – esilarante – si sfiora il tema del comunismo. Fiorello-Smemorato: «Perché c'è gente che continua a urlarmi Forza Italia? Allora, molto probabilmente potrei anche essere l'allenatore della nazionale». Baldini: «No, guardi, Forza Italia è il nome di un partito». Ancora Fiorello: «Mi consenta, se il partito di governo si chiama Forza Italia, l'opposizione come si chiama: Arbitro cornuto?». Che poi “smemorato” Berlusconi s’è mostrato davvero, non tanto con riferimento all’arma spuntata dell’anticomunismo, ma al punto da dare al nuovo partito il nome che era dell’intera coalizione che lo sosteneva, dimenticando – in un colpo solo – il valore del bipolarismo e la lealtà profusa negli anni dagli alleati… Ma questo è un altro discorso.
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