Dal Secolo d'Italia di sabato 19 gennaio 2008
La schizofrenia della cultura italiana sui grandi del Novecento sta gradualmente, anche se a fatica, guarendo. Era ora. Fino a qualche anno fa, infatti, se si voleva parlare di un D’Annunzio, di un Marinetti, di un Pirandello, bisognava stare ben attenti a differenziare il loro impegno intellettuale dalle loro scelte politiche. Come se si trattasse di mondi non comunicanti.
Con una inspiegabile "cesura" (dal taglio crociano), molti del Novecento diventavano “grandi” nonostante l’adesione al fascismo. E così, il loro fascismo diventava sempre minimale, frondista, appartato, forzato, in qualche modo non essenziale. Quando queste interpretazioni non reggevano proprio, allora la via di uscita era, semplicemente, non parlarne. Una regola, questa, che è valsa, ancora di più, per Alessandro Blasetti, il regista “italianissimo e fascistissimo” per antonomasia. Come ha scritto sul Corriere della sera il critico cinematografico Paolo Mereghetti, «il suo posto nella storia del cinema italiano è più importante di quello che solitamente gli si tende a dare», forse proprio perché «Blasetti non ha mai nascosto la sua convinta adesione al regime». E così, il padre del cinema italiano si è trovato, per tutto il dopoguerra, se non dimenticato, quantomeno accantonato, tanto che fino ad ora è stato molto difficile trovare belle copie dei suoi film.
A colmare questa lacuna arriva oggi la Ripley che sta pubblicando molti suoi titoli in dvd. In arrivo Palio (1932), La contessa di Parma (1937), La cena delle beffe (1941), Nessuno torna indietro (1945), Tempi nostri (1954)... Già usciti Altri tempi (1952), Quattro passi tra le nuvole del 1942 (dove regna l’ironica descrizione della desolazione della vita nelle periferie urbane e l’eliminazione dell’happy ending convenzionale), Un’avventura di Salvator Rosa (1939) e il capolavoro 1860 (1934), girato per onorare il cinquantenario della morte di Garibaldi. «Restaurato magistralmente dalla Cineteca Nazionale – spiega Mereghetti – integrato del finale “fascista” che collegava lo spirito dei garibaldini con quello mussoliniano, colpisce ancora oggi per la modernità del racconto, la forza dell’ellissi narrativa, l’attenzione alle diverse lingue e dialetti e il rifiuto della retorica».
Caratteristiche culturali indubbiamente “attualissime”, impossibili da interpretare utilizzando il metro che la cultura italiana ha utilizzato per cinquant’anni di storia repubblicana. Può un regista fascista essere moderno nello stile narrativo? Può rivalutare i dialetti in periodo di sfrenato nazionalismo linguistico? Può essere un precursore del neorealismo? Può, infine, un regista fascista essere antiretorico? Con la sua grandezza, Blasetti risponde affermativamente senza cadere in alcuna contraddizione. «Il soggetto di 1860 – spiegherà il regista decriptando la sua visione politica fondata sulla declinazione contestualizzata di realtà e libertà - mi fu suggerito da Emilio Cecchi, una persona assolutamente lontana dal genere fascista e veniva da una novella di Mazzucchi, che non aveva nessun rapporto con le camicie nere. Il soggetto riguardava prettamente l’unità d’Italia, che è una cosa che trascende il fascismo, anche se certamente vi si allineava. Il soggetto di Sole, che esaltava la politica agricola del fascismo, grazie alla quale tantissimi contadini hanno trovato pane e che rifarei adesso, veniva da Aldo Vergano, un antifascista che era nel nostro gruppo e che noi sapevano essere tale. Questo bisogno di verità c’era in quanto c’era sangue italiano, c’era la voglia di parlare della realtà». Non solo scene di massa, ma una voce comune: in 1860 si ascolta quella del popolo siciliano che intravede la libertà arrivare dal mare. Garibaldi compare solo in due o tre sequenze, che verranno addirittura tagliate in un’edizione successiva, perché l’attenzione si ferma e si ghiaccia sui volti chiari della gente. Non soltanto, quindi, atmosfere concitate, ma uno spirito condiviso fatto di inni e mani alzate. Atteggiamento che non rimane affatto ancorato a un’idea gerarchica e da balcone. Non c’è demagogia: spesso un’allusione al degrado urbano delle periferie o alla folla di fedeli davanti a una chiesa del centro vale più di un’ovazione assordante.
Il sapore di apologo, di favola morale alla maniera dei greci antichi, riscontrabile nella maggior parte delle pellicole, non fa che rammentare allo spettatore che egli fa parte di un tutto. Il suo Vecchia Guardia uscì nel 1934 per celebrare i dodici anni dalla Marcia su Roma: Mario Cardini, nel ruolo di Brambilla, il protagonista, aveva dodici anni sia nel film che nella vita. Se Vecchia Guardia non piacque al direttore generale della cinematografia Luigi Freddi, perché mostrava il forte legame esistente fra fascismo e borghesia, al contrario pare che a Mussolini il film piacque: si dice che se lo fece proiettare in visione privata e che, nel vederlo, pianse.
«Gli dobbiamo tutti qualcosa», diceva di lui Luchino Visconti (regista che fece interpretare a Blasetti il ruolo di se stesso nel suo Bellissima con un'indimenticabile Anna Magnani). Un giudizio confermato in pieno dallo storico del cinema italiano, Giampiero Brunetta. E gli dobbiamo tutti qualcosa, aggiungiamo noi, perché regista italianissimo che ha attraversato il Novecento vivendone le passioni fino in fondo: ha inventato il film sonoro con Resurrectio,, il film fantasy con La corona di ferro, il film neorealista con Quattro passi tra le nuvole, il peplum con Fabiola, i “mondo-movie” con Europa di notte. Portò in Italia il Technicolor col documentario Caccia alla volpe nella campagna romana. Ed è grazie a lui che il nei cinema italiani si vide il primo nudo: era il 1941 e, in La cena delle beffe, Clara Calamai esibiva per tre quarti di secondo il seno dopo, ovviamente dopo, che il regista era riuscito a ottenere imprimatur della commissione di censura presieduta dal ministro Alessandro Pavolini.
La definizione di padre del cinema italiano è la minima che gli si possa attribuire: se si pensa che fu proprio Blasetti, infatti, nel 1932 (a soli 32 anni di età, con tre film al proprio attivo) a istituire quella che venne battezzata “la scuola nazionale di cinematografia”, dove in seguito egli stesso avrà l’opportunità d’insegnare le materie di base (regia, sceneggiatura, recitazione). È uno dei motivi per cui, in realtà, la schizofrenia della cultura italiana con Blasetti, in fondo, non ha mai retto: “fascistissimo e modernissimo”, la principale caratteristica della sua intera opera fu quella di essere sempre all’avanguardia rispetto a tecniche, generi e utilizzo del mezzo cinematografico. Sul finire degli anni ’20 brevettò su proprio disegno un tipo di macchina da presa - che poi non fu realizzata - da potersi considerare oggi un’antesignana della steadycam.
E la sua modernità si espresse anche nel dopoguerra. In Tempi nostri (1953) Blasetti scoprì e valorizzò, ancor prima di De Sica, il talento e la prorompenza espressiva di Sophia Loren, affiancandola a Totò nell’ultimo episodio. L’anno seguente, in pieno realismo rosa, lancerà la coppia Loren-Mastroianni in Peccato che sia una canaglia, successo subito replicato da La fortuna di essere donna del 1955. Una vena libertaria, quella di Blasetti, che si incarno in una delle sue ultime produzione: il suo Europa di notte, 1958, darà l’avvio al filone sexy-documentaristico dei prossimi anni ’60. Con Io, io, io… e gli altri, del 1966, satira dell’egoismo italico costellata d'interpreti d'eccezione (Chiari, Lollobrigida, Manfredi, Koscina) lascerà all’Italia quello che si deve considerare il suo testamento politico-culturale. Come nelle sue anticipazioni della fantasy moderna: le atmosfere medievali della Corona di ferro svelano chiaramente l’intento di comunicare in chiave favolistica il proprio messaggio di fraternità umana a un’Europa su cui già si spandeva l’ombra della guerra. Fascistissimo e pacifista: senza contraddizione.
Il sapore di apologo, di favola morale alla maniera dei greci antichi, riscontrabile nella maggior parte delle pellicole, non fa che rammentare allo spettatore che egli fa parte di un tutto. Il suo Vecchia Guardia uscì nel 1934 per celebrare i dodici anni dalla Marcia su Roma: Mario Cardini, nel ruolo di Brambilla, il protagonista, aveva dodici anni sia nel film che nella vita. Se Vecchia Guardia non piacque al direttore generale della cinematografia Luigi Freddi, perché mostrava il forte legame esistente fra fascismo e borghesia, al contrario pare che a Mussolini il film piacque: si dice che se lo fece proiettare in visione privata e che, nel vederlo, pianse.
«Gli dobbiamo tutti qualcosa», diceva di lui Luchino Visconti (regista che fece interpretare a Blasetti il ruolo di se stesso nel suo Bellissima con un'indimenticabile Anna Magnani). Un giudizio confermato in pieno dallo storico del cinema italiano, Giampiero Brunetta. E gli dobbiamo tutti qualcosa, aggiungiamo noi, perché regista italianissimo che ha attraversato il Novecento vivendone le passioni fino in fondo: ha inventato il film sonoro con Resurrectio,, il film fantasy con La corona di ferro, il film neorealista con Quattro passi tra le nuvole, il peplum con Fabiola, i “mondo-movie” con Europa di notte. Portò in Italia il Technicolor col documentario Caccia alla volpe nella campagna romana. Ed è grazie a lui che il nei cinema italiani si vide il primo nudo: era il 1941 e, in La cena delle beffe, Clara Calamai esibiva per tre quarti di secondo il seno dopo, ovviamente dopo, che il regista era riuscito a ottenere imprimatur della commissione di censura presieduta dal ministro Alessandro Pavolini.
La definizione di padre del cinema italiano è la minima che gli si possa attribuire: se si pensa che fu proprio Blasetti, infatti, nel 1932 (a soli 32 anni di età, con tre film al proprio attivo) a istituire quella che venne battezzata “la scuola nazionale di cinematografia”, dove in seguito egli stesso avrà l’opportunità d’insegnare le materie di base (regia, sceneggiatura, recitazione). È uno dei motivi per cui, in realtà, la schizofrenia della cultura italiana con Blasetti, in fondo, non ha mai retto: “fascistissimo e modernissimo”, la principale caratteristica della sua intera opera fu quella di essere sempre all’avanguardia rispetto a tecniche, generi e utilizzo del mezzo cinematografico. Sul finire degli anni ’20 brevettò su proprio disegno un tipo di macchina da presa - che poi non fu realizzata - da potersi considerare oggi un’antesignana della steadycam.
E la sua modernità si espresse anche nel dopoguerra. In Tempi nostri (1953) Blasetti scoprì e valorizzò, ancor prima di De Sica, il talento e la prorompenza espressiva di Sophia Loren, affiancandola a Totò nell’ultimo episodio. L’anno seguente, in pieno realismo rosa, lancerà la coppia Loren-Mastroianni in Peccato che sia una canaglia, successo subito replicato da La fortuna di essere donna del 1955. Una vena libertaria, quella di Blasetti, che si incarno in una delle sue ultime produzione: il suo Europa di notte, 1958, darà l’avvio al filone sexy-documentaristico dei prossimi anni ’60. Con Io, io, io… e gli altri, del 1966, satira dell’egoismo italico costellata d'interpreti d'eccezione (Chiari, Lollobrigida, Manfredi, Koscina) lascerà all’Italia quello che si deve considerare il suo testamento politico-culturale. Come nelle sue anticipazioni della fantasy moderna: le atmosfere medievali della Corona di ferro svelano chiaramente l’intento di comunicare in chiave favolistica il proprio messaggio di fraternità umana a un’Europa su cui già si spandeva l’ombra della guerra. Fascistissimo e pacifista: senza contraddizione.
Filippo Rossi, giornalista e scrittore (autore, con Luciano Lanna, del saggio-dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra, Vallecchi 2003), ha cominciato al quotidiano Il Tempo, è stato caporedattore del settimanale l'Italia, direttore delle news di Radio 101 e collaboratore di diverse testate politico-culturali. Attualmente è coordinatore editoriale della fondazione presieduta da Gianfranco Fini, "Farefuturo".
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