Dal Secolo d'Italia di venerdì 18 gennaio 2008
Dieci ore dieci di full immersion con Werner H. Stipetic, alias Werner Herzog. Da ieri fino a tutta la giornata di oggi, presso la Scuola Holden, Corso Dante 118, a Torino venticinque giovani film-maker e videomaker, sceneggiatori e scrittori selezionati, dopo apposito bando nazionale, hanno l'occasione della vita, offerta dalla "finestra" significativa intagliata nella rassegna «Segni di vita. Werner Herzog e il cinema», sino al 10 febbraio 2008. Due giornate con il grande maestro tedesco. Organizzata dal Museo Nazionale del Cinema, in collaborazione con la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, dalla già citata Scuola Holden e dal Teatro Regio di Torino, grazie al sostegno della Città di Torino e della Regione Piemonte. Non solo una retrospettiva, curata da Alessandro Barbera, Stefano Boni e Grazia Paganelli, ma l'occasione quindi di fare i conti con chi ha allenato alla visione di ciò che non vediamo, al particolare, in poche parole, all'inatteso che scaturisce, proprio come gli incontri alla fine del mondo.
Werner Herzog, del resto, ha saputo produrre idee, non rimpannucciandosi mai nelle ideologie, dal momento che «un film è più una questione di atletica che estetica». Allo stesso tempo, non è neanche uno psicoanalitico alla Woody Allen, infatti ammette: «Ho spesso indagato gli abissi della follia, ma sono un uomo mentalmente sano. Non mi piace guardare dentro me stesso e quindi l'inconscio per me rimane inconscio. Credo che uno dei problemi fondamentali del Novecento sia stata la psicanalisi, un errore catastrofico, una vera stupidaggine che mi sono sempre rifiutato di seguire al pari della new age e i corsi di yoga».
Dagli allora al radical chic, allora non per reazione o banale provocazione, ma in nome di un paradigma attivo che obbliga a uscire dal "gioco al ribasso" fra categorie e segmenti di società che s'annullano nel rimpiattino di un'elencazione stremata degli effetti. Ed è ciò che ha sempre fatto Herzog. Meglio discutere di cause, al fine di ripercorrere la strada di un cinema condiviso, senza essere ruffiano, simpatetico e non per questo votato all'autoreferenzialità. Alla faccia del minimalismo.
Ivo Germano (1966) Borghese di provincia all'Amicimiei, sociologo e giornalista, scientificamente si occupa di produzione culturale e strutture simboliche dell'immaginario contemporaneo. Incline a scrivere e interessarsi di cose inutili, curiosamente e felicemente borghesi.
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