Una cosa è certa: anche nell’epoca di internet non è possibile cancellare o rimuovere l’importanza degli archivi cartacei per la memoria delle famiglie politico- culturali. In particolare, il lungo viaggio dal postfascismo alla nuova destra italiana non sarebbe davvero comprensibile senza la possibilità di prendere visione diretta attraverso le riviste dell’area di quanto ricco, complesso e anche contraddittorio sia stato l’universo umano e politico interessato a questo percorso. Un contributo fondamentale in questa direzione ci viene adesso da Mario Bozzi Sentieri con il suo recente Dal neofascismo alla nuova destra. Le riviste 1944-1994 (Nuove Idee editrice, pp. 257, euro 16), un lavoro motivato dall’urgenza «di salvare – come precisa l’autore – non solo una memoria, ma anche di ricucire, con essa, gli intricati percorsi di una presenza politico-culturale a tratti negata,incompresa, spesso misconosciuta». Organizzato cronologicamente e a schede, il libro risponde proprio alla necessità di salvare, con la memoria, i complessi itinerari delle tante e tante testate che hanno costituito il terreno di cultura di un’area politica oggi interessata a una nuova fase di transizione. E da subito la lettura del lavoro di Bozzi Sentieri smonta gli stereotipi e i luoghi comuni che ancora inquinano l’interpretazione del postfascismo e la sua transizione nell’Italia repubblicana. Così, tanto per cominciare, la qualità delle firme che caratterizzarono quelle riviste tra il ’44 e i primi anni Cinquanta. Scrittori, studiosi e letterati di primo piano e da qualche anno riscoperti dalla critica sofisticata come Marco Ramperti, Marcello Gallian, Gioacchino Volpe o Giuseppe Maranini, animarono tra i tanti quella prima stagione di fermento pubblicistico. Basta dare un’occhiata ai collaboratori del settimanale Meridiano d’Italia, fondato nel ’46 da Franco De Agazio e diretto, dopo la sua morte per mano della Volante Rossa, dal nipote Franco Servello: tra questi oltre a Edmondo Cione e Sem Benelli, Filippo Anfuso e Massimo Rocca, Aniceto Del Massa e Roberto Mieville c’erano anche Giorgio Pini, già caporedattore del Popolo d’Italia, e Carlo Silvestri, socialista e antifascista che durante la Rsi fu tra gli animatori de L’Italia del popolo, periodico di collegamento tra le autorità fasciste e i socialisti. Di più: il grande scrittore Ignazio Silone, tra i fondatori del Pci e poi socialista libertario e anticomunista, promosse personalmente – sempre nel ’46 – l’iniziativa di Alberto Giovannini di dar vita alla rivista postfascista Rosso e Nero. Dopo una serie di incontri preparatori, cui era presente anche il giovane giornalista socialista Ugo Zatterin, Giovannini iniziava a pubblicare il periodico sulla base dell’accettazione piena della forma repubblicana e della volontà di partecipare alla ricostruzione del Paese. Anche qui le firme di Marco Ramperti, di Aniceto Del Massa e di tanti altri intellettuali che venivano dal fascismo. «Non potevo – disse Giovannini – non avere una certa fedeltà e riconoscenza verso quel regime attraverso il quale io, che ero nessuno, figlio di povera gente, di operai, cominciando col fare il fattorino, ero arrivato a dirigere un quotidiano. Il fascismo mi aveva dato la possibilità di avanzare socialmente…». Il 2 gennaio 1948, Rosso e Nero pubblica la “Lettera di un condannato a morte” di Pino Romualdi, già vicesegretario del Partito fascista repubblicano e latitante fino all’amnistia Togliatti. È solo un esempio della civiltà del dialogo e della volontà di superamento degli steccati da guerra civile che quella, come altre riviste, esprimeva… In quello stesso fermento uscirono anche il settimanale Rataplan – tra i collaboratori Marcello Gallian, Gianni Granzotto, Roberto Mieville, Nino Tripodi, Renzo Lodoli – e il mensile Pagine libere di Vito Panunzio, che si richiamava esplicitamente alla storica testata del sindacalismo rivoluzionario italiano: vi scrivono Francesco Carnelutti, Nicola Francesco Cimmino,Gioacchino Volpe, Vittorio Zincone, Carlo Curcio, Mario Gradi, Edmondo Cione, GiuseppeMaranini, Costantino Mortati, Giuseppe Bottai… Fondamentale il settimanale La Rivolta Ideale di Giovanni Tonelli che riprendeva il nome dall’opera omonima di Alfredo Oriani, uno degli autori più cari a Mussolini. A quest’ultima testata collaborarono Gioacchino Volpe, Ernesto Massi, Massimo Scaligero, Carlo Silvestri, Carlo Costamagna, Edmondo Cione… Il 26 settembre 1946, per iniziativa di un gruppo di reduci non-cooperatori rientrati dalla prigionia nasce un Fronte dell’italiano di cui la rivista diventa l’organo. E tra settembre e ottobre è proprio nella sede de La Rivolta Ideale, in via Milano 70 a Roma, che si pongono le basi per la riunificazione dei vari spezzoni di un mondo che portano a fine anno alla nascita del Msi. Non a caso, il direttore Tonelli sarà il primo missino eletto conquistando un seggio al Consiglio comunale di Roma nel 1947. In quello stesso anno inizia le pubblicazione anche Il pensiero nazionale, quindicinale diretto da Stanis Ruinas con la collaborazione, tra i tanti, dei soliti Aniceto Del Massa, Marco Ramperti e Marcello Gallian, del futurista Anton Giulio Bragaglia, di Ruggero Ravenna, di Giorgio Pini… Tra le riviste di questa fase, Bozzi Sentieri sottolinea l’importanza dei due soli numeri pubblicati di Europa nazione, diretta nel 1951 da Filippo Anfuso, uomo politico catanese dalla biografia tipicamente novecentesca: giornalista e inviato speciale da giovanissimo, legionario fiumano con D’Annunzio, sottosegretario di Mussolini, ambasciatore a Berlino nella Rsi e, nel dopoguerra, deputato missino. Il nome di quella testata diventò subito uno slogan destinato a una vita lunga nell’immaginario politica della destra italiana postbellica. La rivista ospitò interventi di intellettuali come Gioacchino Volpe, Concetto Pettinato, Julius Evola e Anton Zischka. Si apriva – era un fatto nuovo – a collaboratori non solo italiani ma europei e i sommari erano pubblicati anche in francese, tedesco e inglese. L’impegno era quello di guardare all’unità continentale al di là degli schemi convenzionali e del revanscismo di chi aveva perduto la guerra: «Europa nazione – scriveva Anfuso – vuol dire Europa libera e unita». Ed emergeva, altra novità, l’idea di una neutralità armata delle nazioni del Vecchio Continente. In questa stessa fase si distingueva anche il quindicinale Abc, diretto da un nome storico come Giuseppe Bottai e pubblicato tra il 1953 e il 1959. L’ex ministro delle Corporazioni riuscì a far collaborare al periodico studiosi del calibro di Luigi Volpicelli, Enrico Fulchignoni, Lorenzo Giusso, Marino Gentile, Carlo Curcio e Massimo Rocca, «Stretto tra il Msi, che lo accusa di essere un supertraditore, e la necessità di lavorare per una destra aperta – precisa Bozzi Sentieri – Bottai dà largo spazio al dibattito sulle destre, sulle loro inadeguatezza operative, programmatiche, culturali…». Con Asso di bastoni, “settimanale satirico anticanagliesco” diretto da Pietro Caporilli e in edicola con tirature impressionanti tra il 1948 e il 1957, si apre la stagione delle nuove firme. Con Enrico De Boccard, Luciano Lucci Chiarissi, Pino Rauti, Renzo Lodoli, Fausto Gianfranceschi, Egidio Sterpa, Enzo Erra, Franco Petronio e tanti altri si fanno avanti i giovanissimi, quelli che avevano appena fatto in tempo ad arruolarsi a Salò poco più che ragazzini o quelli che “non avevano accettato la sconfitta”. Sono gli stessi che animeranno La Sfida e Imperium, entrambi dirette da Erra, e Cantiere, diretta da Primo Siena insieme a Giano Accame, Carlo Casalena, Romano Ricciotti, Pino Rauti e Franco Petronio. A questo punto, Bozzi Sentieri avvia il secondo capitolo dedicato alla diaspora tra il 1956 e il ’67. È il periodo in cui si verificano tre fenomeni incrociati: il partito nelle mani di Michelini, l’allontanamento dell’ala giovanile movimentista e la nascita di organizzazioni di destra radicale (Ordine Nuovo e Giovane Europa). In questo contesto si segnala nel 1959 la nascita di una rivista che proseguirà le sue pubblicazioni fino al 1984: l’Italiano diretto da Pino Romualdi. Attento al dibattito sul ruolo e le alleanze in grado di dare al Msi una funzione ben più ampia della semplice autoconservazione nostalgica, e consapevole della necessità di collegare radicamento culturale e azione politica, Romualdi fece de l’Italiano uno strumento di analisi e aprendo le sue colonne a interventi spesso non-conformisti. «Significativo – annota Bozzi Sentieri – l’intervento di Evola, pubblicato sul secondo numero della rivista, marzo 1959, in tema di apertura al divorzio e l’attenzione del filosofo verso i moderni fenomeni di costume». Un decennio importante del dopoguerra viene invece accompagnato e interpretato da L’Orologio di Luciano Lucci Chiarissi, pubblicato ininterrottamente dal 1963 al 1973. Tra le sue firme, elencate come per tutte le altre riviste da Bozzi Sentieri, quelle di Gabriele Moricca e Giuseppe Ciammaruconi, di Cesare Mazza e Mario Castellacci, di Maurizio Giraldi e Jean Thiriart, di Luigi Tallarico e Barna Occhini, di Giorgio Del Vecchio e Mario Bernardi Guardi, di Pacifico D’Eramo e Antonio Lombardo, di Adriano Cerquetti ed Enzo Benedetto, di Maurizio Bergonzini, e Agostino Carrino… La rivista nasceva, spiega Bozzi Sentieri, «intorno alla consapevolezza, ben chiara sia dai primi numeri, che se prima si era convinti che la presenza politica riposassero soprattutto nello stare insieme sulla base di poche formule accettate da tutti, ora sarebbe stata necessaria una fase di approfondimento». L’Orologio tentava infatti di uscire dalla tendenza al minoratismo e al ripiegamento su se stessi che stava caratterizzando l’ambiente in quegli anni. Spiegava Lucci Chiarissi: «Annibale non è alle porte e comunque non lo è a causa del centrosinistra». E L’Orologio, che aveva lanciato il tema della riappropriazione delle “chiavi di casa”, si schierò con il gollismo recuperandone diversi temi. La rivista, inoltre, approfondisce in presa diretta i tratti fondanti della contestazione studentesca del ’68 con una serie di inchieste da Parigi firmate dal futuro politologo Antonio Lombardo e alcuni interventi a favore degli studenti a Valle Giulia. Vengono pubblicati numerosi documenti sulle facoltà occupate in tutta Europa e attorno a queste tesi vengono costituiti in vari atenei italiani i Gruppi dell’Orologio che partecipano attivamente alle battaglie sessantottine e alle occupazioni di alcune facoltà. Tra l’altro, in una di queste, il 13 dicembre ’68, Lucci Chiarissi insieme a Pacifico D’Eramo terranno un dibattito rilanciando la necessità di rilanciare tesi europeistiche e di rinnovamento sociale. Sulla stessa lunghezza d’onda, anche il quindicinale Corrispondenza repubblicana, diretto da Romolo Giuliana, esprimeva da destra posizioni analoghe. Tanto che nell’aprile del ’68, in un “avviso ai lettori” la rivista giustifica il ritardo nell’uscita con l’impegno diretto dei redattori nelle manifestazioni studentesche. Interessanti e anticipatori anche gli attacchi, «in linea di principio e in linea di fatto» ai regimi franchista e salazarista e alla dittatura militare in Grecia. «Il ritardo culturale e politico, accumulato dal Msi durante gli anni Sessanta – spiega Bozzi Sentieri – trova infatti nel 1968 la sua espressione più acuta. Di fronte alla rivolta studentesca il Msi appare impreparato a interpretare e affrontare il fenomeno». Ma questa stessa fase arriva a coincidere con la fine della segreteria Michelini e l’inizio di quella di Giorgio Almirante. Si impone una nuova gestione a tutto campo caratterizzata non solo dal rilancio dell’attivismo ma anche dal tentativo di superamento della diaspora politica e culturale. E i primi anni Settanta registrano un forte rilancio della pubblicistica di destra. Davvero tante le riviste: Candido rilanciato e diretto da Giorgio Pisanò, La Torre di Giovanni Volpe, Il Conciliatore diretto da Piero Capello, Presenza di Pino Rauti, Intervento diretto da Fausto Gianfranceschi, la Rivista di Studi corporativi di Diano Brocchi e Gaetano Rasi e numerose altre iniziative che affiancate al successo di vendita dei settimanali il Borghese e Lo Specchio e all’avvio della casa editrice Rusconi diretta da Alfredo Cattabiani diedero il senso di una nuova egemonia culturale di destra e fecero scriverne, allarmati, intellettuali come Pier Paolo Pasolini e Umberto Eco. In questo quadro brillava per le collaborazioni di primo piano la rivista La Destra diretta da Claudio Quarantotto: vantava un comitato internazionale composto da Michel de Saint Pierre, Mircea Eliade, Vintila Horia, Thomas Molnar, Ernst Jünger, Giuseppe Prezzolini e Caspar Schrenk-Notzing. Dal 1974 in poi prende invece corpo una produzione giovanile che fa emergere, come scrive Bozzi Sentieri, «l’esigenza di un adeguamento tematico, operativo, dello stesso linguaggio». È la grande stagione delle riviste giovanili e rivolte al mondo giovanile: La Voce della Fogna, Eowyn, Donne in lotta, Diorama letterario, Dissenso, Elementi, Dimensione ambiente, Linea, La Mosca bianca, L’Altro Regno… «Da questo tipo di fermenti insieme politici e culturali – aggiunge Bozzi Sentieri – si sviluppano iniziative parallele, con sigle nuove, affiancate da una ricca pubblicistica specializzata, che evidenzia, in modo sempre più marcato, la necessità di un’azione metapolitica, in grado di condizionare le idee contemporanee, di incidere sul costume e nel moderno movimento delle idee». Il politologo Marco Revelli scriverà che con queste nuove pubblicazioni si inaugurava «un modo nuovo di stare a destra». Ha scritto anche Marco Tarchi, ricordando l’esperienza della sua Voce della Fogna: «Verso la metà degli anni Settanta capimmo che non era più tempo di sostenere la vecchia destra, che era tempo di uscire dal ghetto…». Sull’onda di questi fermenti si arriva all’ultima fase raccontata da Bozzi Sentieri quella che va dal 1981 al ’94. Una fase in cui i giovani di destra hanno acquisito le regole del movimentismo, dell’egemonia culturale e soprattutto dell’attenzione privilegiata che la politica deve avere per le tendenze giovanili e i fenomeni dell’immaginario. Dalle riviste della seconda metà degli anni Settanta hanno poi mutuato l’esigenza di rompere gli steccati, di uscire dalla logica della contrapposizione forzata e di costruire nuove sintesi. Una stagione che può essere rappresentata da tre pubblicazioni: La Contea, espressione della parte movimentista e innovativa del mondo giovanile romano, Proposta di Domenico Mennitti, e Pagine libere di Marcello Veneziani. Rilevante per tutte e tre il ruolo svolto dall’elaborazione della cosiddetta “nuova destra”. «Senza l’esperienza di essa - ha annotato lo storico Giovanni Tassani – difficilmente il Fronte della Gioventù avrebbe potuto modernizzarsi e ricominciare a interloquirecon giovani di esperienza diversa né avrebbe potuto reggere l’esperienza di una rivista decorosa e leggibile come Proposta tra il 1986 e il 1989…». Insomma, all’alba degli anni Novanta il cerchio si chiude. Caduto il Muro di Berlino, fuoriusciti dal clima delle contrapposizioni forti degli anni di piombo, lasocietà civile tornava a essere campo aperto per la destra. Non a caso si chiude proprio aquesto punto la ricostruzione di Bozzi Sentieri. Come a dimostrare che una destra a vocazionemaggioritaria – e in perenne dialogo e sintesi con le altre culture politiche del Novecento– non è nata improvvisamente e senza storia negli anni Novanta. A differenza di quanto qualcuno oggi vorrebbe far credere.
Luciano Lanna, laureato in filosofia, giornalista professionista dal 1992 e scrittore (autore, con Filippo Rossi, del saggio dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra. Vallecchi 2004), oltre ad aver lavorato in quotidiani e riviste, si è occupato di comunicazione politica e ha collaborato con trasmissioni radiofoniche e televisive della Rai. Già caporedattore del bimestrale di cultura politica Ideazione e vice direttore del quotidiano L'Indipendente, è direttore responsabile del Secolo d'Italia.
martedì 26 febbraio 2008
La lunga marcia della destra maggioritaria (di Luciano Lanna)
Viene da lontano la destra maggioritaria
Mario Bozzi Sentieri la racconta attraverso le riviste
Articolo di Luciano Lanna
Dal Secolo d'Italia di martedì 26 febbraio 2008
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4 commenti:
E' tutto un po' troppo lineare. Se facciamo riferimento alla destra post missina, arrivata all'egemonia all'inizio degli anni anni '90, il percorso può essere anche quello descritto da Lanna.
Terrei però fuori i ragazzi che inventarono la Voce della Fogna, poiché quella rottura con la destra missina fu antialmirantiana (tutto la questione sulle firme per il ripristino della pena di morte) e antifiniana.
La stessa esperienza di Diorama e della Nuova Destra è stata adeguatamente illustrata da Marco Tarchi in "Cinquant'anni di nostalgia". Certo, una volta che la destra postmissina ha preso l'egemonia molti di quei ragazzi sono tornati all'ovile, ma altri avevano già da tempo smesso non solo di riconoscersi nella destra, ma anche nella dicotomia destra/sinistra, rimanendo molto critici sia verso i nostalgismi e sia verso Alleanza Nazionale. E' stato Veneziani ad attribuire a quella destra l'appellativo "Nuova", anche perché tarchi e soci, ormai su posizioni molto più vicine alla sinistra eterodossa sul piano dell'analisi della postmodernità, dell'etichetta "Nuova Destra" non sapevano proprio più che farsene.
Intendiamoci, non sto criticando le scelte della destra postmissina. Semplicemente io non condivido nulla di quelle idee, come non le condividono quelli che scrivono su "Diorama". Ognuno fa le sue scelte. Ma credo anche che dei distinguo vadano fatti.
Non sono d'accordo, Claude. "I ragazzi che inventarono La voce della fogna" altro non erano che rautiani, esponenti della corrente di minoranza del Msi (forte soprattutto a livello giovanile). So che può sembrare difficile crederlo (considerando l'involuzione politica di Rauti verso un radicalismo di destra che gli era estraneo) ma Pino Rauti è stato il primo, a destra, a parlare di nuovi linguaggi, ambientalismo, etc. Dopo l'uscita di Marco Tarchi (rautiano anche lui) dal Msi le sue riviste hanno preso progressivamente le distanze dal partito e dalla destra politica e oggi sono altro.
Difatti, caro Roberto.
Rautiani. Non mi pare impossibile, perché lo sapevo (sono abbastanza ferrato sulla storia dell'ex Nuova Destra - semmai mi si può rimproverare di esporre un punto di vista soggettivo, tutt'ora molto "tarchiano"), e non a caso ho parlato di una rottura "antialmirantiana" e "antifiniana".
Tarchi stesso ha più volte sottolineato come l'obiettivo iniziale di quei ragazzi fosse non quello di uscire dalla destra, bensì di riformarla, svecchiandola dai nostalgismi e dai tardosepolcrismi.
Poi subentrò la "metapolitica" (intuizione debenostiana rielaborata da Gramsci), unita all'opzione democratica (convincere della bonta delle proprie idee, non "costringere").
Alla fine, però, Rauti è stato un riferimento momentaneo, anche perché egli di metapolitica non ci ha mai capito un granché (pur avendo qualche vezzo intellettuale). Come dici giustamente tu, Tarchi uscì dal partito, e altri con lui, e ciò che da allora animò la loro curiosità aveva ben poco a che vedere con i riferimenti della destra egemonica e istituzionale (dall'idea nazionale all'ecologia ecc), né con la destra in genere.
Per questo insisto a dire che il riferimento a diorama nell'articolo di Lanna può anche esserci, a patto però di segnalare che la destra ha preso (o è rimasta) su altre strade. E' mancato il coraggio, o si è preferito considerare come "svolta" la possibilità di andare al governo e riprendere visibilità. però la destra è rimasta un po' confusa, e tuttora sta prendendo un po' ovunque rimanendo però su territori conformisti.
D'altro canto è vero che Marco Tarchi ha perso vincendo. Quando Diorama è diventato uno strumento al dì la della destra e della sinistra, critico di ogni egemonia e proiettato verso un pensiero postmoderno, molti dei suoi collaboratori sono passati a "Ideazione", l'ipotesi della Nuova Cultura o delle Nuove Sintesi è rimasta un'ipotesi e lo stesso progetto metapolitico non è andato da nessuna parte.
Io però rimango convinto che non sarà la scelta parlamentare, partitico-politica, alla lunga a vincere, ma quella delle idee. E le idee di un Tarchi, di un De Benoist o di un Marramao o di uno Zarelli (compresi i vari Latouche, Pallante ecc) sono tra le poche che trovo interessanti in un panorama di pura finzione.
Sono d'accordo, a dirla tutta - però - molti dei temi e delle battaglie "tarchiane" sono state fatte proprie dalla destra che, non a caso, si è "svecchiata", uscendo - per tornare alle parole di Tarchi stesso - dal tunnel del neofascismo e confrontandosi con la modernità. Questo può, paradossalmente, dispiacere a Tarchi, ma è facilmente riscontrabile. Ma con questo nuovo bipartitismo (coatto?) le identità sono nuovamente in movimento. Vedremo che succede.
Un abbraccio
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