Dal Secolo d'Italia di venerdì 1 febbraio 2008
A sentire il nome di Gioacchino Volpe, la mente tratteggia l’identikit di uno storico nazionalista prima che fascista, monarchico prima che rivoluzionario. A naso, insomma, un conservatore, il rappresentante nobile di una destra paludata e accademica. Intrinsecamente fuori tempo. E invece no: in realtà Gioacchino Volpe è stato, in Italia, tra i primi ad analizzare il ruolo fondamentale delle nuove generazioni nella modernizzazione e nelle sviluppo della società contemporanea. A riscoprire l’anima giovanilista, in qualche modo rivoluzionaria, dello studioso nato a Paganica ci ha ora pensato lo storico Luca Giansanti nel suo saggio sul “ringiovanimento della nazione” inserito nel volume Gioacchino Volpe tra passato e presente (Aracne, pag. 170, euro 9,00). Del resto è un fatto anche che Volpe – insieme a Giovanni Gentile – fu uno dei primi a studiare seriamente il “metodo” marxista e, a differenza dei conservatori come Benedetto Croce, non lo demonizzò, superandolo e inverandolo, invece, in una visione più ampia. Lo attestava il grande storico Raoul Manselli, secondo il quale Gioacchino Volpe nella sua analisi dei movimenti ereticali del medioevo collegò, sulla base della lezione marxiana, «i nuovi fenomeni della religiosità dei secoli XII e XIV con le nuove classi sociali entrate nella vita storica dell’epoca».
Ma l’aspetto che più sottolinea la sua modernità è proprio l’importanza nei suoi studi del fattore-giovani. «Volpe – spiega Giansanti – assegna ai “giovani”, nelle diverse fasi dello sviluppo storico italiano e nei diversi contesti politico-culturali culminanti con l’avvento del fascismo, un’importanza e un peso tutt’altro che secondari; soprattutto attribuendo e riconoscendo una funzione anticipatrice in certi casi o di accelerazione in altri, proiezione verso il futuro e rottura con il passato». Una conferma, anche questa, a quanto recentemente annotato dalla storico Giuseppe Galasso quando ha ricordato «le due ultime occasioni in cui i giovani hanno fatto irruzione massiccia nella politica: il 1922 e il 1968».
Il ruolo dei giovani nella costruzione dell’Italia novecentesca, secondo Volpe, non si limita infatti ai movimenti d’inizio Novecento: «Già a partire dalla ricostruzione delle fasi preparatorie l’unità, Volpe non manca di sottolineare il positivo emergere, nel 1820-21, di una “generazione nuova, quella appunto che si troverà sulla breccia nella fase decisiva fra il 1831 e il 1860”, grazie alla quale il movimento unitario finalmente accennava “ad un uscir dal chiuso delle sette, iniziando la propaganda in mezzo al popolo”». Volpe, quindi, attribuisce, fin dall’inizio dell’800, alla generazione più giovane elementi positivi soprattutto dal punto di vista di quei valori di novità, modernità, democrazia che possono costruire una “nuova Italia” finalmente lontana «dal focolare» familistico. Monarchico moderno qual era, Volpe, vede anche nell’ascesa al trono del giovane Vittorio Emanuele III un segnale della vittoria del “nuovo” sul “vecchio”: la giovinezza del re poteva «indurre – spiega Volpe – all’ottimismo e alla speranza in un momento in cui si invocava da tutte le parti i giovani». L’età del nuovo sovrano irrobustiva perciò il paese tutto: «Giovane e modernamente colto com’era – spiega Gioacchino Volpe – non poteva non sentire come, dentro e fuori il Parlamento, le forze più vive e progressive, compresi i poeti, erano all’opposizione e chiedevano un governo più veramente rappresentativo del paese e interprete dei suoi bisogni».
È una “certa idea del fascismo” che oggi potrebbe essere riletta e rivalutata: «Il fascismo settario della provincia italiana, quello prepotente e interessato della piccola borghesia, il fascismo corruttore e irresponsabile degli affari del capitalismo, l’altro antisemita dei razzisti, nulla ebbero mai a vedere con lui», scrisse di Volpe il pedagogista Luigi Volpicelli. «Per Volpe – spiega ancora Giansanti – la giovinezza rappresentava in sé un attributo utile ai fini della comprensione e del recepimento di tutte quelle spinte ideali e quei fermenti diffusi nella società italiana dell’epoca». E questo è valso anche per i movimenti irredentisti: «Scompariva l’Austria delle congreghe, delle lotte di campanile, del conservatorismo». È così che Volpe ha messo in risalto il modo con cui i giovani seppero farsi interpreti – spiega ancora Giansanti – di un altro decisivo impulso al rinnovamento «attraverso la critica severa sui partiti esistenti che si traduceva “in un ulteriore sgretolamento dei partiti stessi proprio per la riluttanza dei giovani a entrarvi”; in tal senso il “giovanilismo” volpiano si colorava di tutte quelle tinte e sfumature che vivificavano una forma di serrata critica al vecchio sistema politico italiano».
Sembra di capire – seguendo i ragionamenti di Volpe – che l’appartenenza più importante non sia quella politica o partitica ma quella generazionale. E questo è ancor più valido per l’avvento del fascismo, movimento che aveva fatto del superamento delle classiche appartenenze e categorie una cifra antropologica ed esistenziale. Nella sua Storia del movimento fascista, Volpe rappresenta con precisione il contesto nel quale Mussolini va al potere e non manca di descrivere quel complesso di suggestioni che sospingono l’universo giovanile a partecipare: «Audacia, impeto, non rifuggire dalla beffa degli avversari, affrontare con indifferenza la morte, ecco i caratteri di questa milizia. “Me ne frego” (cioè, nulla mi importa di morire) è il motto popolarescamente ma efficacementeespressivo di tale stato d’animo. Grande, sui giovani, il fascino di quelle rapide azioni di guerra, di quei canti, di quella baldanza, di quel sacrificio violento e lietamente affrontato...». Si tratta, quindi, di una spinta psicologica ed esistenziale, dell’«avventura in sé stessa, l’azione per l’azione», piuttosto che un’adesione politica o culturale al fascismo: «Cresciuti al lontano rombo della guerra, sono portati a concepirla e desiderarla come un bel gioco; e, non avendola potuta fare a suo tempo, cercano di farla ora, come e dove possono. Questo fascismo delle origini portava con sé qualcosa che trascende la politica e i suoi problemi ed era, senz’altro, gioventù che trabocca, quasi ringiovanimento della nazione. La rivoluzione fascista – conclude Volpe – è, per metà, opera loro: non solo e non tanto dei combattenti quanto dei figli dei combattenti».
Un fascismo, quello di Volpe, giovanilistico, modernizzatore e riformista, che libera le forze vitali del paese, che scardina luoghi comuni e fa uscire dai binari consolidati della società ottocentesca. Un fascismo colto e alla moda, degli studenti e degli intellettuali, figlio della contemporaneità e di una società in movimento. Un fascismo che non ha paura del futuro: «Si pensi a quanti ragazzi, giovanetti, giovani, furono tratti dal chiuso della famiglia e del villaggio, vestirono una divisa, ebbero un fucile, parteciparono a campeggi e viaggi di istruzione, si cimentarono in prove individuali e collettive, si allenarono al comando, furono e si sentirono qualcuno e qualche cosa, si elevarono socialmente od ebbero la confusa aspirazione di elevarsi o, quanto meno, di mutare stato, vivere in modo diverso». È in questa esigenza del cambiamento che, oggi, va cercata l’attualità del Gioacchino Volpe nazionalista e riformista e, nel 1946, tra i primissimi ad aderire al Msi: attento, puntigliosamente, a tutto ciò che in una società significa futuro. A partire dalle nuove generazioni. E se oggi volessimo attualizzarne l’eredità culturale, dovremmo capire le esigenze di quella che è stata definita efficacemente “generazione tuareg”, di quei giovani che vivono culturalmente sulla loro pelle gli effetti di una società liquida: ciò che è liquido, infatti, non ha e non può avere la stessa forma per lungo tempo ed è soltanto il passaggio da un recipiente all’altro che ne ridetermina la forma. Questo si applica a tutte le situazioni che oggi viviamo, alle grandi questioni sociali, a ciò che interessa alla gente, ciò che ti porti in giro in tasca nella memoria del tuo telefonino. Basta premere dei tasti per creare nuove connessioni o per romperne altre in maniera irreparabile. Interpretare il giovanilismo di Volpe, allora, per riuscire a capire le nuove generazioni figlie di una “google-kultur” in cui non esistono identità culturali e politiche definite e immobili. Proprio come nei primi decenni dell’incandescente Novecento.
Ma l’aspetto che più sottolinea la sua modernità è proprio l’importanza nei suoi studi del fattore-giovani. «Volpe – spiega Giansanti – assegna ai “giovani”, nelle diverse fasi dello sviluppo storico italiano e nei diversi contesti politico-culturali culminanti con l’avvento del fascismo, un’importanza e un peso tutt’altro che secondari; soprattutto attribuendo e riconoscendo una funzione anticipatrice in certi casi o di accelerazione in altri, proiezione verso il futuro e rottura con il passato». Una conferma, anche questa, a quanto recentemente annotato dalla storico Giuseppe Galasso quando ha ricordato «le due ultime occasioni in cui i giovani hanno fatto irruzione massiccia nella politica: il 1922 e il 1968».
Il ruolo dei giovani nella costruzione dell’Italia novecentesca, secondo Volpe, non si limita infatti ai movimenti d’inizio Novecento: «Già a partire dalla ricostruzione delle fasi preparatorie l’unità, Volpe non manca di sottolineare il positivo emergere, nel 1820-21, di una “generazione nuova, quella appunto che si troverà sulla breccia nella fase decisiva fra il 1831 e il 1860”, grazie alla quale il movimento unitario finalmente accennava “ad un uscir dal chiuso delle sette, iniziando la propaganda in mezzo al popolo”». Volpe, quindi, attribuisce, fin dall’inizio dell’800, alla generazione più giovane elementi positivi soprattutto dal punto di vista di quei valori di novità, modernità, democrazia che possono costruire una “nuova Italia” finalmente lontana «dal focolare» familistico. Monarchico moderno qual era, Volpe, vede anche nell’ascesa al trono del giovane Vittorio Emanuele III un segnale della vittoria del “nuovo” sul “vecchio”: la giovinezza del re poteva «indurre – spiega Volpe – all’ottimismo e alla speranza in un momento in cui si invocava da tutte le parti i giovani». L’età del nuovo sovrano irrobustiva perciò il paese tutto: «Giovane e modernamente colto com’era – spiega Gioacchino Volpe – non poteva non sentire come, dentro e fuori il Parlamento, le forze più vive e progressive, compresi i poeti, erano all’opposizione e chiedevano un governo più veramente rappresentativo del paese e interprete dei suoi bisogni».
È una “certa idea del fascismo” che oggi potrebbe essere riletta e rivalutata: «Il fascismo settario della provincia italiana, quello prepotente e interessato della piccola borghesia, il fascismo corruttore e irresponsabile degli affari del capitalismo, l’altro antisemita dei razzisti, nulla ebbero mai a vedere con lui», scrisse di Volpe il pedagogista Luigi Volpicelli. «Per Volpe – spiega ancora Giansanti – la giovinezza rappresentava in sé un attributo utile ai fini della comprensione e del recepimento di tutte quelle spinte ideali e quei fermenti diffusi nella società italiana dell’epoca». E questo è valso anche per i movimenti irredentisti: «Scompariva l’Austria delle congreghe, delle lotte di campanile, del conservatorismo». È così che Volpe ha messo in risalto il modo con cui i giovani seppero farsi interpreti – spiega ancora Giansanti – di un altro decisivo impulso al rinnovamento «attraverso la critica severa sui partiti esistenti che si traduceva “in un ulteriore sgretolamento dei partiti stessi proprio per la riluttanza dei giovani a entrarvi”; in tal senso il “giovanilismo” volpiano si colorava di tutte quelle tinte e sfumature che vivificavano una forma di serrata critica al vecchio sistema politico italiano».
Sembra di capire – seguendo i ragionamenti di Volpe – che l’appartenenza più importante non sia quella politica o partitica ma quella generazionale. E questo è ancor più valido per l’avvento del fascismo, movimento che aveva fatto del superamento delle classiche appartenenze e categorie una cifra antropologica ed esistenziale. Nella sua Storia del movimento fascista, Volpe rappresenta con precisione il contesto nel quale Mussolini va al potere e non manca di descrivere quel complesso di suggestioni che sospingono l’universo giovanile a partecipare: «Audacia, impeto, non rifuggire dalla beffa degli avversari, affrontare con indifferenza la morte, ecco i caratteri di questa milizia. “Me ne frego” (cioè, nulla mi importa di morire) è il motto popolarescamente ma efficacementeespressivo di tale stato d’animo. Grande, sui giovani, il fascino di quelle rapide azioni di guerra, di quei canti, di quella baldanza, di quel sacrificio violento e lietamente affrontato...». Si tratta, quindi, di una spinta psicologica ed esistenziale, dell’«avventura in sé stessa, l’azione per l’azione», piuttosto che un’adesione politica o culturale al fascismo: «Cresciuti al lontano rombo della guerra, sono portati a concepirla e desiderarla come un bel gioco; e, non avendola potuta fare a suo tempo, cercano di farla ora, come e dove possono. Questo fascismo delle origini portava con sé qualcosa che trascende la politica e i suoi problemi ed era, senz’altro, gioventù che trabocca, quasi ringiovanimento della nazione. La rivoluzione fascista – conclude Volpe – è, per metà, opera loro: non solo e non tanto dei combattenti quanto dei figli dei combattenti».
Un fascismo, quello di Volpe, giovanilistico, modernizzatore e riformista, che libera le forze vitali del paese, che scardina luoghi comuni e fa uscire dai binari consolidati della società ottocentesca. Un fascismo colto e alla moda, degli studenti e degli intellettuali, figlio della contemporaneità e di una società in movimento. Un fascismo che non ha paura del futuro: «Si pensi a quanti ragazzi, giovanetti, giovani, furono tratti dal chiuso della famiglia e del villaggio, vestirono una divisa, ebbero un fucile, parteciparono a campeggi e viaggi di istruzione, si cimentarono in prove individuali e collettive, si allenarono al comando, furono e si sentirono qualcuno e qualche cosa, si elevarono socialmente od ebbero la confusa aspirazione di elevarsi o, quanto meno, di mutare stato, vivere in modo diverso». È in questa esigenza del cambiamento che, oggi, va cercata l’attualità del Gioacchino Volpe nazionalista e riformista e, nel 1946, tra i primissimi ad aderire al Msi: attento, puntigliosamente, a tutto ciò che in una società significa futuro. A partire dalle nuove generazioni. E se oggi volessimo attualizzarne l’eredità culturale, dovremmo capire le esigenze di quella che è stata definita efficacemente “generazione tuareg”, di quei giovani che vivono culturalmente sulla loro pelle gli effetti di una società liquida: ciò che è liquido, infatti, non ha e non può avere la stessa forma per lungo tempo ed è soltanto il passaggio da un recipiente all’altro che ne ridetermina la forma. Questo si applica a tutte le situazioni che oggi viviamo, alle grandi questioni sociali, a ciò che interessa alla gente, ciò che ti porti in giro in tasca nella memoria del tuo telefonino. Basta premere dei tasti per creare nuove connessioni o per romperne altre in maniera irreparabile. Interpretare il giovanilismo di Volpe, allora, per riuscire a capire le nuove generazioni figlie di una “google-kultur” in cui non esistono identità culturali e politiche definite e immobili. Proprio come nei primi decenni dell’incandescente Novecento.
Filippo Rossi, giornalista e scrittore (autore, con Luciano Lanna, del saggio-dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra, Vallecchi 2003), ha cominciato al quotidiano Il Tempo, è stato caporedattore del settimanale l'Italia, direttore delle news di Radio 101 e collaboratore di diverse testate politico-culturali. Attualmente è coordinatore editoriale della fondazione presieduta da Gianfranco Fini, "Farefuturo".
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