lunedì 4 febbraio 2008

Lucio Battisti, il romanzo sublime di un ragazzo troppo timido (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 3 febbraio 2008

Vedila come un romanzo, la vita personale e artistica di Lucio Battisti, e la divisione in due parti (o addirittura in due volumi, per una separazione ancora più netta) sarebbe inevitabile. Parte prima: la nascita e l’affermazione, fino all’apoteosi, di un timido ragazzo della provincia reatina che, grazie al suo straordinario talento di musicista e al provvidenziale incontro con un autore di testi del calibro di Mogol, si impone sulla scena del pop italiano come il migliore in senso assoluto.
Immediato ma per nulla banale. Innovativo, o persino sperimentale, ma per niente artificioso. Capace di sfornare a getto continuo grandissime canzoni, che conquistano legioni di ascoltatori e si iscrivono puntualmente nella memoria collettiva, ma anche di non dimenticare mai che non è quella la meta finale. La canzone, anche la più bella, è solo una delle forme espressive in cui riversare ciò che si incontra esplorando le sterminate galassie della musica; perciò, in attesa che il grande pubblico se ne renda conto, bisogna allo stesso tempo rispettare le regole e forzarle, non tradire le aspettative – col loro bisogno incessante, quasi spasmodico, di melodia e sentimentalismo – ma nemmeno subirle come un diktat inderogabile. Non siamo qui per dirvi che avete torto. Siamo qui per dirvi, per farvi scoprire, che ci sono orizzonti meravigliosi e impensabili, al di là delle collinette delle vostre abitudini.
La prima parte: quella che comincia sul finire degli anni Sessanta e che si snoda lungo tutto il decennio successivo, fino a spegnersi negli ultimi episodi, con residui lampi di ispirazione ma complessivamente infiacchiti, di Una donna per amico e Una giornata uggiosa. La seconda parte: quella del “dopo Mogol”, degli album sempre più complessi e scostanti. Il distacco dalla canzone di stampo tradizionale e la rivendicazione, fin troppo ostentata, del diritto dell’artista a proporsi in modo difficile, rigoroso, quasi incomprensibile.
Il nostro canto libero, antologia composta da due cd e da un dvd, si attiene rigorosamente alla distinzione (alla scissione) tra le due fasi. Mette a fuoco la prima e ignora la seconda. Nella parte audio allinea 28 dei suoi più grandi successi, nonché un paio di inediti, nell’ordine Perché dovrei e Il mio bambino. Ma questi ultimi sono solo dei provini, incisi da Lucio al puro scopo di trasferire su nastro gli appunti relativi alla musica e al testo, e il resto è materiale notissimo. Che, semmai, si è ascoltato fin troppo.
Si trattasse solo di questo, non varrebbe nemmeno la pena di parlarne. Ma è la parte video, a fare la differenza. E a rendere l’acquisto consigliabilissimo. Ecco i filmati di repertorio, che in tivù si sono visti a più riprese ma che non erano mai stati raccolti in un solo dvd. Ecco i filmati aggiuntivi, con Bruno Lauzi e la Formula Tre; e con una versione sorprendente, per chi non la conosceva, della trascinante Proud Mary, indimenticato hit dei Creedence Clearwater Revival. Ecco, soprattutto, l’intervista di Maria Laura Giulietti a Mogol. Arrivato a 71 anni, con alle spalle una carriera che è difficile immaginare più ricca, Mogol si lascia andare volentieri alla rievocazione del suo lungo, splendido sodalizio con Battisti. Se anche ci sono state, a suo tempo, incomprensioni e persino ruggini, gli anni trascorsi le hanno ormai dissolte. Mogol si guarda indietro e nelle sue parole c’è innanzitutto ammirazione. C’è la consapevolezza di aver potuto collaborare con un artista magnifico. C’è la memoria sorridente di un’amicizia che è stata forte. E solo qualche piccola ombra, più malinconica che ostile, dell’allontanamento sopravvenuto in seguito.
Mogol, ed è il modo migliore per rendergli omaggio, rievoca soprattutto il Battisti degli inizi. Il ragazzo che amava la musica e non chiedeva di meglio che potervisi dedicare a tempo pieno. Il giovane entusiasta che, in un ambiente come quello dello spettacolo in cui la parola d’ordine è mettersi in mostra, si sentiva più che altro un autore e non aveva nessuna voglia (nessuna smania) di fare anche il cantante. Non tanto per una scarsa fiducia nei propri mezzi vocali, quanto per il fatto che i cantanti si debbono sobbarcare l’onere dei concerti. Peggio: delle promozioni televisive. La sciocca, deprimente pantomima del playback, col disco originale che va in onda e “il celebre artista” che fa l’imitazione, afona, fittizia, di se stesso.
Vuoi mettere? Quando stai componendo sei lì che spazi nel mondo della completa libertà, che vivi il fremito dell’avventura creativa, che ti tendi per afferrare l’ispirazione e per riuscire a fissarla in una sequenza precisa (compiuta) di note. Quando vai su un palco, o ancora peggio in uno studio tv, c’è solo la riproduzione di quello che sai già. E non può essere l’applauso del pubblico, a colmare il divario.
All’inizio degli anni Settanta poteva essere solo un’ipotesi, ma il prosieguo ne darà la più inequivocabile delle conferme. Battisti prima rinuncerà completamente a esibirsi in pubblico, poi reciderà persino i fili, pur così forti e preziosi, che lo legavano al suo istinto melodico e ne facevano il beniamino del pubblico. Battisti si chiuderà in un isolamento totale. Arroccato in un labirinto di suoni impervi e di testi enigmatici.
Ma questa è la seconda parte. Quella di cui non dobbiamo occuparci. Se fosse davvero un romanzo, le ultime righe del primo volume sarebbero percorse dalla malinconia di qualcosa che finisce e che non tornerà mai più. L’ultima scena potrebbe essere quella di Lucio che è da solo nella sua casa e si mette a suonare. Prende la chitarra acustica e accenna qualche accordo: incerto, quasi svogliato. Si ferma. Ripone lo strumento e si guarda intorno. Vede la tastiera elettronica, piena di pulsanti e di led luminosi pronti ad accendersi e di ogni sorta di altri marchingegni, e la osserva. Le si siede davanti. Click. Schiaccia un tasto, tra i tanti a disposizione, e parte un ritmo preregistrato. Ipnotico. Artificiale, sì, ma a suo modo irresistibile.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000. Prima su “Ideazione.com”, poi sui quotidiani “Linea”, di cui è stato caporedattore fino al maggio scorso, e “Il Secolo d’Italia”.

2 commenti:

Hesperia ha detto...

E' decisamente il più grande, il più geniale e anche il mio preferito. Non ci si stanca di ascoltarlo. Suggerisco le meno note come "Le tre verità", "Comunque bella" e "Questo inferno rosa". Sembrano scritte ieri. Anzi, mezz'ora fa.

Roberto Alfatti Appetiti ha detto...

Attuale, sempre, sì.
E complimenti e in bocca al lupo per il blog, bella grafica e
ottimi contenuti.
A presto!