Dal Secolo d'Italia di sabato 16 febbraio 2008
Ha sessantotto anni, ma non li dimostra, Renato Pozzetto. Del resto, era solo un ventottenne in quel ’68 in cui esordendo in tv – in coppia con Cochi Ponzoni alla trasmissione cult Quelli della domenica – rompeva con tutta la vecchia tradizione ingessata del nostro varietà televisivo. Sugli schermi televisivi di allora, piccoli e in bianco e nero, irrompeva il cabaret, proprio con Cochi e Renato. Paolo Villaggio nei panni di Fracchia e del prof. Frantz (“tedesco di Germania”), Ric e Gian e Lara Saint Paul. Una vera e propria rivoluzione per la Rai. Andavano in pensione i vecchi sketch da avanspettacolo e faceva irruzione un cabaret surreale tutto nuovo, altro che contestazione studentesca. Indimenticabile la canzoncina sulla gallina che «non è un’animale intelligente…». Una “rottura” nonconformista che, nata al Derby di Milano, non ha mai concesso nulla all’ideologismo e al sinistrese di moda. Anzi, più volte la stampa ha sottolineato il fatto che Renato non avrebbe simpatie politiche di sinistra. Oltretutto, l’attore è stato nel ’79 il protagonista del film di Steno La patata bollente, dove Bernardo Mondelli – detto il Gandhi – un metalmeccanico di provata fede comunista e militante del sindacato viene emarginato dai suoi compagni per aver ospitato nel suo appartamento un gay in difficoltà. Un film che mostrava in tutta evidenza le contraddizioni della cultura comunista nei confronti dell’omosessualità, sottolineando i pregiudizi e l’omofobia dietro le tante dichiarazioni di tolleranza. Nella pellicola, infatti, per cercare di redimere il Gandhi, i “compagni” del consiglio di fabbrica pensano di inviarlo in viaggio “premio” a Mosca. D’altronde, sempre il quel film, veniva “sdoganato” cinematograficamente il nostro quotidiano: in una scena, infatti, c’è un tassista di destra che legge in tutta evidenza il Secolo d’Italia. «Un giornale di destra», commenta il Gandhi dopo una polemica col tassista. Nel ’76, inoltre, Pozzetto era già stato il protagonista del film di Alberto Lattuada Oh, Serafina! , che era tratto dall’omonimo romanzo di uno scrittore “politicamente scorretto” come Giuseppe Berto.
Ecco, sin da allora Renato è ha rappresentato sicuramente una delle icone della commedia italiana anni Ottanta, un genere popolare e “altro” rispetto al filone Moretti & Co. E adesso Pozzetto torna – di nuovo in coppia con Cochi – a incantare con la sua comicità surrea surreale in uno spettacolo teatrale itinerante intitolato Nuotando con le lacrime agli occhi che ha già toccato diverse città italiane e che arriva al Teatro Sociale di Soresina venerdì prossimo, 22 febbraio. L’acclamata coppia di Quelli della domenica riprende così, a quarant’anni da quel ’68 dell’esordio tv, a far ridere e a riflettere andando a riproporre il vastissimo repertorio di gag, battute e canzoni, alcune delle quali scritte da Enzo Jannacci e per l’occasione accompagnate dall’orchestra Godfellas. Abbiamo incontrato Pozzetto nel suo studio nel centro di Milano, poco prima di partire per una tappa del suo spettacolo. Una volta accomodatici, accanto a una moto Guzzi d’epoca (l’attore ha il pallino dei motori) Pozzetto ripercorre gli anni del primissimo esordio, fuori da quelle che oggi vengono chiamate le “caste”. «Non sono un figlio d’arte. Vengo da una famiglia modesta: mio padre era impiegato, padre di quattro figli e sono nato in un periodo, quello della guerra, che ha messo a dura prova le famiglie e la gente, ma che è anche stato lo sprone per tornare a vivere» racconta, ricordando la sua infanzia e la sua inclinazione artistica condivisa fin da subito con l’amico Cochi Ponzoni. «Ci divertivamo ad andare suonare in osteria, a fare tardi la sera e a stare con gli amici. Fin da ragazzo mi piaceva l’ambiente dei creativi, dei pittori e delle gallerie d’arte. Divenni amico di Crippa, di Lucio Fontana, di Piero Manzoni. E fu proprio in una galleria d’arte di Milano in via Lentasio che esordimmo con le nostre canzoni: si chiamava La Muffola e la particolarità era che teneva aperto la sera fino a tardi grazie a dei divertentissimi vernissage serali. Fu un successo che ripetemmo e poco dopo approdammo al mitico Derby». Sì, il celebre cabaret che appartiene alla storia della cosidetta “Milano da bere”, vera icona della voglia di divertirsi dei milanesi degli anni ’60. «Quando arrivammo conoscemmo un po’ tutti i nostri idoli, musicisti, comici, cantanti. E così insieme a Lino Toffolo, Bruno Lauzi e a Jannacci mettemmo in piedi il mitico Gruppo Motore che poco alla volta iniziò a gestire tutti gli spettacoli». Verrebbe da chiedersi se Pozzetto rimpianga la Milano di allora, ma l’attore non è proprio un tipo incline alla nostalgia della serie “si stava meglio quando si stava peggio”: «Milano usciva dagli anni della ricostruzione e la città aveva voglia di vivere e di divertirsi. Ma quella è una fase, una delle tante, che fanno parte di una città. Ne meglio, né peggio di oggi». Anzi, a differenza di tanti intellettuali “declinisti”, Pozzetto tende a valorizzare le potenzialità della società odierna: «In realtà, per i giovani ci sono molte più opportunità che in passato per divertirsi, ma anche per avere degli spazi in cui socializzare e magari mettere a frutto il proprio talento professionale o artistico».
Qual è stata quindi la ricetta del suo successo? «Certamente ho colto le giuste occassioni e sono stato anche fortunato per le offerte che mi venivano fatte. Certo le soddisfazioni sono state tante, oltre ai film, quello di essere primi in classifica con tante canzoni e di raccogliere molto successo in teatro. Naturalmente il tutto ce lo siamo conquistati da soli, senza l’aiuto di nessuno» racconta Pozzetto che non ha comunque peli sulla lingua su certe scorciatoie prese da altri personaggi dello spettacolo. «Certo, soprattutto negli anni Settanta, ma anche dopo, in molti, schierandosi politicamente e in modo aperto a sinistra, hanno senza dubbio avuto dei favori. Invece, io e Cochi non ci siamo mai interessati di politica e questo per noi è stato un bene. Ancora oggi tra di noi non ne parliamo, abbiamo pure idee differenti, ma per noi lo spettacolo viene prima di tutto…». Un vero e proprio ragazzo semplice dentro una metropoli, Renato, come Il ragazzo di campagna del noto film di Castellano e Pipolo del 1984. E quella sua icona inconfondibile da bravo ragazzo è stata celebrata in tutte quelle pellicole anni Ottanta: Un povero ricco, Mia moglie è una strega, Nessuno è perfetto, Noi uomini duri (in cui comparviva anche una giovanissima Alessandra Mussolini) …
Gli chiediamo se in questo momento di grande revival, quasi di revisionismo, del cinema italiano di quegli anni, allora considerato di serie b, non abbia pensato a girare un sequel dei suoi successi: «Credo che quei film siano stati dei successi perché raccontavano di un periodo specifico del nostro paese, raccontavano storie vere in cui gli italiani si riconoscevano. Riproporre un qualcosa come semplice operazione commerciale, almeno per quanto riguarda me, non mi è mai interessato. E poi, detto fra di noi, quei ragazzi di campagna di oggi non ci sono più. Il divario tra i due mondi è pressochè sparito. Dopo gli anni Novanta i ragazzi che trasportavano il letame con l’Apecar si sono estinti, ma hanno moderni trattori con aria condizionata e autoradio…». Certo, l’idea di tornare a fare cinema non è del tutto esclusa: «Tornerei a girare solo di fronte a un segnale di curiosità nei miei confronti e per propormi qualcosa di nuovo. Le strade già percorse non mi piacciono». Ormai Pozzetto vive praticamente con il cellulare e l’orologio in mano e la voglia di fare il nonno non gli impedisce comunque di continuare a lavorare e a divertirsi: «Oggi più che mai lavoro e ho realizzato diversi dei miei sogni. Carriera artistica a parte, ho una società che si occupa di trasporti aerei per l’ospedale San Raffaele di Milano, un lavoro bellissimo che nasce dalla mia passione per il volo!». Pozzetto infatti, oltre a gestire la società, è pilota di elicotteri e tutto quello che ha un motore lo intriga: «Mi sono sempre piaciute le macchine d’epoca e le moto. Un vero e proprio amore che ho avuto la fortuna di coltivare». Ma un sogno nel cassetto le è rimasto?, gli chiedo: «Forse a livello cinematografico ho il rimpianto di non esser riuscito a lavorare con certi grandi registi italiani che nel periodo in cui arrivai io erano già scomparsi, anche se io sono riuscito a lavorare con mostri sacri come Risi e Lattuada. Era però già un mondo cinematografico che stava morendo. Comunque non mi lamento, sono contento per quello che ho fatto». D’altronde, non si nasconde dietro intellettualismi. «Forse sarà una deformazione professionale, ma credo che siano quarant’anni che non vado al cinema…», confida ridendo. Ma qualche rimpianto, grandi registi a parte, ce l’ha?, insisto: «Sì, aprire un’osteria sul Lago Maggiore, prima o poi lo farò».
Ecco, sin da allora Renato è ha rappresentato sicuramente una delle icone della commedia italiana anni Ottanta, un genere popolare e “altro” rispetto al filone Moretti & Co. E adesso Pozzetto torna – di nuovo in coppia con Cochi – a incantare con la sua comicità surrea surreale in uno spettacolo teatrale itinerante intitolato Nuotando con le lacrime agli occhi che ha già toccato diverse città italiane e che arriva al Teatro Sociale di Soresina venerdì prossimo, 22 febbraio. L’acclamata coppia di Quelli della domenica riprende così, a quarant’anni da quel ’68 dell’esordio tv, a far ridere e a riflettere andando a riproporre il vastissimo repertorio di gag, battute e canzoni, alcune delle quali scritte da Enzo Jannacci e per l’occasione accompagnate dall’orchestra Godfellas. Abbiamo incontrato Pozzetto nel suo studio nel centro di Milano, poco prima di partire per una tappa del suo spettacolo. Una volta accomodatici, accanto a una moto Guzzi d’epoca (l’attore ha il pallino dei motori) Pozzetto ripercorre gli anni del primissimo esordio, fuori da quelle che oggi vengono chiamate le “caste”. «Non sono un figlio d’arte. Vengo da una famiglia modesta: mio padre era impiegato, padre di quattro figli e sono nato in un periodo, quello della guerra, che ha messo a dura prova le famiglie e la gente, ma che è anche stato lo sprone per tornare a vivere» racconta, ricordando la sua infanzia e la sua inclinazione artistica condivisa fin da subito con l’amico Cochi Ponzoni. «Ci divertivamo ad andare suonare in osteria, a fare tardi la sera e a stare con gli amici. Fin da ragazzo mi piaceva l’ambiente dei creativi, dei pittori e delle gallerie d’arte. Divenni amico di Crippa, di Lucio Fontana, di Piero Manzoni. E fu proprio in una galleria d’arte di Milano in via Lentasio che esordimmo con le nostre canzoni: si chiamava La Muffola e la particolarità era che teneva aperto la sera fino a tardi grazie a dei divertentissimi vernissage serali. Fu un successo che ripetemmo e poco dopo approdammo al mitico Derby». Sì, il celebre cabaret che appartiene alla storia della cosidetta “Milano da bere”, vera icona della voglia di divertirsi dei milanesi degli anni ’60. «Quando arrivammo conoscemmo un po’ tutti i nostri idoli, musicisti, comici, cantanti. E così insieme a Lino Toffolo, Bruno Lauzi e a Jannacci mettemmo in piedi il mitico Gruppo Motore che poco alla volta iniziò a gestire tutti gli spettacoli». Verrebbe da chiedersi se Pozzetto rimpianga la Milano di allora, ma l’attore non è proprio un tipo incline alla nostalgia della serie “si stava meglio quando si stava peggio”: «Milano usciva dagli anni della ricostruzione e la città aveva voglia di vivere e di divertirsi. Ma quella è una fase, una delle tante, che fanno parte di una città. Ne meglio, né peggio di oggi». Anzi, a differenza di tanti intellettuali “declinisti”, Pozzetto tende a valorizzare le potenzialità della società odierna: «In realtà, per i giovani ci sono molte più opportunità che in passato per divertirsi, ma anche per avere degli spazi in cui socializzare e magari mettere a frutto il proprio talento professionale o artistico».
Qual è stata quindi la ricetta del suo successo? «Certamente ho colto le giuste occassioni e sono stato anche fortunato per le offerte che mi venivano fatte. Certo le soddisfazioni sono state tante, oltre ai film, quello di essere primi in classifica con tante canzoni e di raccogliere molto successo in teatro. Naturalmente il tutto ce lo siamo conquistati da soli, senza l’aiuto di nessuno» racconta Pozzetto che non ha comunque peli sulla lingua su certe scorciatoie prese da altri personaggi dello spettacolo. «Certo, soprattutto negli anni Settanta, ma anche dopo, in molti, schierandosi politicamente e in modo aperto a sinistra, hanno senza dubbio avuto dei favori. Invece, io e Cochi non ci siamo mai interessati di politica e questo per noi è stato un bene. Ancora oggi tra di noi non ne parliamo, abbiamo pure idee differenti, ma per noi lo spettacolo viene prima di tutto…». Un vero e proprio ragazzo semplice dentro una metropoli, Renato, come Il ragazzo di campagna del noto film di Castellano e Pipolo del 1984. E quella sua icona inconfondibile da bravo ragazzo è stata celebrata in tutte quelle pellicole anni Ottanta: Un povero ricco, Mia moglie è una strega, Nessuno è perfetto, Noi uomini duri (in cui comparviva anche una giovanissima Alessandra Mussolini) …
Gli chiediamo se in questo momento di grande revival, quasi di revisionismo, del cinema italiano di quegli anni, allora considerato di serie b, non abbia pensato a girare un sequel dei suoi successi: «Credo che quei film siano stati dei successi perché raccontavano di un periodo specifico del nostro paese, raccontavano storie vere in cui gli italiani si riconoscevano. Riproporre un qualcosa come semplice operazione commerciale, almeno per quanto riguarda me, non mi è mai interessato. E poi, detto fra di noi, quei ragazzi di campagna di oggi non ci sono più. Il divario tra i due mondi è pressochè sparito. Dopo gli anni Novanta i ragazzi che trasportavano il letame con l’Apecar si sono estinti, ma hanno moderni trattori con aria condizionata e autoradio…». Certo, l’idea di tornare a fare cinema non è del tutto esclusa: «Tornerei a girare solo di fronte a un segnale di curiosità nei miei confronti e per propormi qualcosa di nuovo. Le strade già percorse non mi piacciono». Ormai Pozzetto vive praticamente con il cellulare e l’orologio in mano e la voglia di fare il nonno non gli impedisce comunque di continuare a lavorare e a divertirsi: «Oggi più che mai lavoro e ho realizzato diversi dei miei sogni. Carriera artistica a parte, ho una società che si occupa di trasporti aerei per l’ospedale San Raffaele di Milano, un lavoro bellissimo che nasce dalla mia passione per il volo!». Pozzetto infatti, oltre a gestire la società, è pilota di elicotteri e tutto quello che ha un motore lo intriga: «Mi sono sempre piaciute le macchine d’epoca e le moto. Un vero e proprio amore che ho avuto la fortuna di coltivare». Ma un sogno nel cassetto le è rimasto?, gli chiedo: «Forse a livello cinematografico ho il rimpianto di non esser riuscito a lavorare con certi grandi registi italiani che nel periodo in cui arrivai io erano già scomparsi, anche se io sono riuscito a lavorare con mostri sacri come Risi e Lattuada. Era però già un mondo cinematografico che stava morendo. Comunque non mi lamento, sono contento per quello che ho fatto». D’altronde, non si nasconde dietro intellettualismi. «Forse sarà una deformazione professionale, ma credo che siano quarant’anni che non vado al cinema…», confida ridendo. Ma qualche rimpianto, grandi registi a parte, ce l’ha?, insisto: «Sì, aprire un’osteria sul Lago Maggiore, prima o poi lo farò».
Ippolito Edmondo Ferrario, classe 1976, vive e sopravvive a Milano, dove si diletta a fare il mercante d'arte. Giornalista e scrittore, ha pubblicato numerosi libri dedicati a Triora, il famoso paese delle streghe, di cui è cittadino onorario, i noir Il pietrificatore di Triora col quale ha dato vita al detective Leonardo Fiorentini, suo alter ego, e Il collezionista di Apricale... e le stelle grondano sangue (rispettivamente Fratelli Frilli Editori, 2006 e 2007).
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