Dal Secolo d'Italia di sabato 15 marzo 2008
Solo per spiegare quello che si può trovare dentro il nuovo libro di Fulvio Abbate, Quando è la rivoluzione, ci vorrebbe un altro libro. Tutto intero. Perché se il romanzo di Abbate fosse un film sarebbe come Moulin Rouge: un musical sovrabbondante di musiche e colori, di citazioni e riferimenti. Un meraviglioso e comico groviglio sugli anni ’70 italiani, trasformati in un gioco caledeoscopico di specchi politici e culturali: questo è Quando è la rivoluzione (Baldini Castoldi Dalai, pag. 311, euro 17). Ma siccome è impossibile raccontare nel breve spazio di un articolo l’infinito contenuto di uno scrigno magico pieno di invenzioni letterarie, bisogna limitarsi a qualche polaroid esemplificativa, dando forma a un album di famiglia, delle mille famiglie. Prima di questo, dal punto di vista prettamente stilistico, per farci piacere Abbate, basti quello che di lui ha scritto il critico Massimo Onofri: «Libertario da sempre, e da sempre visitato dallo spirito delle avanguardie primonovecentesche, tra i pochissimi capace (forse l’unico della sua generazione) di coniugare con naturalezza euforia e commozione».
Album, si diceva, delle famiglie politiche italiane con tutti al posto sbagliato: colleganze e osmosi che uniscono ciò che, a logica razionale, non avrebbe mai potuto essere unito. Partiamo, allora, dal poco che ci interessa direttamente e che meno fa piacere; negli anni ’70 messi in farsa da Abbate, la destra prende le sembianze di Athanor, «un dobermann conclamatamente neofascista, pluridenunciato dai vicini iscritti al sindacato della Cgil» che a un certo punto si mette ad abbaiare contro i rivoluzionari filo-cinesi (altra polaroid, altra famiglia): «Athanor non cede, magari, potendo, li sbranerebbe dal primo all’ultimo, segno che almeno sui fascisti si potrebbe contare: “Se è così, sbrigamese a falli veni’, mannamo un piccione viaggiatore a Armirante! ”». Ecco qua: prima polaroid scattata.
Album, si diceva, delle famiglie politiche italiane con tutti al posto sbagliato: colleganze e osmosi che uniscono ciò che, a logica razionale, non avrebbe mai potuto essere unito. Partiamo, allora, dal poco che ci interessa direttamente e che meno fa piacere; negli anni ’70 messi in farsa da Abbate, la destra prende le sembianze di Athanor, «un dobermann conclamatamente neofascista, pluridenunciato dai vicini iscritti al sindacato della Cgil» che a un certo punto si mette ad abbaiare contro i rivoluzionari filo-cinesi (altra polaroid, altra famiglia): «Athanor non cede, magari, potendo, li sbranerebbe dal primo all’ultimo, segno che almeno sui fascisti si potrebbe contare: “Se è così, sbrigamese a falli veni’, mannamo un piccione viaggiatore a Armirante! ”». Ecco qua: prima polaroid scattata.
Per il resto, un minimo di spiegazione di un intreccio galoppante bisogna pur darla: siamo a Roma, negli anni ’70, quando i maoisti di Servire il popolo irrompono all’“Antico Girarrosto” proclamando senza colpo ferire il comunismo. La festa di nozze di Serena e Canio, ragazzi del popolare quartiere Appio- Tuscolano, è rovinata per sempre. Così come l’esibizione del cantante Drupi, idolo della sposina. Ridotta all’impotenza perfino la maga “etrusca” Lady Norchia. Altrettanto fallimentare il tentativo di inviare un prete amico, padre Mimmo, nella vicina Castel Gandolfo dove si trovano il Papa e le sue guardie svizzere. Non resta allora che abbozzare davanti alla visione forzata del film Viva il 1° maggio rosso e proletario di Marco Bellocchio, puntualmente replicato sotto la minaccia delle armi dagli uomini dell’Unione dei comunisti italiani. Anche Marinella Cacciavillani, dama di un prestigioso salotto della Capitale, da lì a poco sarà nel mucchio degli ostaggi, insieme all’amico psicanalista Gepi Sparapano, allievo fra i prediletti di Jacques Lacan, e a un seguito di soggetti non meno esemplari: estetisti fuori di testa, storiche dell’arte fameliche di sesso e potere, poveri amanti segreti ignari dell’accaduto, controllori di volo cocainomani. Una storia spudoratamente comica che trova il suo sbocco negli stabilimenti di Cinecittà durante la lavorazione di un ennesimo trucido remake del Decamerone post-pasoliniano. Un romanzo “laico” che assomiglia a una “commedia all’italiana”, mischiando, o semplicemente evocando, personaggi di pura finzione ma anche reali: dal pittore Mario Schifano a Ugo Tognazzi, da Ornella Muti a Pier Paolo Pasolini, dallo stesso Abbate a un Alberto Moravia reduce dalla pubblicazione di un entusiastico libro proprio sulla Cina di Mao.
Respiriamo un attimo, facciamo mente locale e ricominciamo col nostro personalissimo album di famiglia. C’è una borghesia altissima e pigrissima, salottiera, razzista e finta colta, comunista per moda e gusto estetico che gioca alla rivoluzione finché la rivoluzione non arriva veramente: proprio “La rivoluzione”, infatti, è il nome della boutique della Cacciavillani, dove si è subito accolti da un manifesto cubano che raffigura un Cristo guerrigliero, schioppo in spalla e aureola, fissato al muro accanto ad alcuni ritratti fotografici di Richard Avedon: Marella Agnelli; Andy Warhol, Jane Fonda-Barbarella. La rivoluzione che fa tendenza, insomma, per una borghesia italiana che, modello Zelig, si ricollega acriticamente a ogni refolo della storia, che «fa il saluto dapprima al re, poi al Duce e infine a De Gasperi, Fanfani, Andreotti, a Aldo Moro, Emilio Colombo, ai socialisti di Pietro Nenni e De Martino, ma anche ai socialdemocratici filo-atlantici di Saragat, Ferri e Tanassi, talvolta per scrupolo estremo anche al principe Junio Valerio Borghese, e, in dirittura d’arrivo, pure ai comunisti di Togliatti, Longo e Berlinguer, e magari, sempre immaginando un moto rivoluzionario non preventivabile, perfino agli extraparlamentari di sinistra, quelli che praticano decisamente le idee di Marx, Lenin, Mao, e poi Marcuse, Adorno... E tutto questo per altruismo, semplice altruismo».
Click, altra polaroid per l’intellettuale organico più a se stesso che a una qualsivoglia palingenesi rivoluzionaria: nel libro si chiama Alberto Moravia ma si capisce che potrebbe essere chiunque altro: «Viva Mao- Tze-Tung! Viva Mao-Tze-Tung! Dai Alberto, ripetiamo insieme, dai...». E poi ancora, click, ci sono i popolani, la maggioranza silenziosa, gente normale che pensa cose indicibili del tipo: «... che palle, che palle, ‘sti communisti, so’ sempre la stessa cosa, sta’ storia della Resistenza qui, Resistenza lì, non ci lasciano dormire, e che sarà mai ‘sto cazzo di Resistenza!». Oppure: «’sto Mao, chi l’ha mai visto, ‘sto Mao, ma se voi state a pensa’ che c’enteressa ‘sto Mao vostro nun avete capito gnente...». Eccoli, invece, i rivoluzionari, quelli che invece a Mao ci credono: dogmatici, tromboni, ovviamente ideologici di un’ideologia più stupida di tutte le ideologie, caricaturale ma alla fine sin troppo vera. Al punto 11 della loro rivoluzione applicata all’Italia si può leggere: «Tutto il materiale pornografico e ogni fattore di propaganda delle idee amorali e corruttrici della borghesia devono essere immediatamente eliminati». Parole che fanno gioire il prete del gruppo che, infatti, ci mette ben poco, a cambiare casacca e aderire, fascia rossa al braccio, immediatamente alla nuova religione.
Ma le polaroid di questo multicolore album italiano non sono finite. Abbate non fa mancare proprio niente al lettore, con il gusto dell’ironia, col sarcasmo acidulo del libertario, spiega, argomenta, racconta e, anche, si racconta mettendo se stesso nel suo frullatore narrativo. E così scappa fuori anche un “Fulvio Abbate” quindicenne che spiega le sue scelte: «Io stavo nella Fgci, i giovani revisionisti, ma non ero contento, non ero al mio posto, li trovavo poco rivoluzionari e troppo timorosi, timorati, vili, così un giorno, durante un corteo contro il governo del democristiano Emilio Colombo, li ho piantati e mi sono unito allo spezzone dove c’erano le bandiere più rosse: i veri compagni». E sì, perché Abbate, nel mare magno della suo festival farsesco, le cose certo non le manda a dire. Se un ragazzo, allora, diventava maoista sognando un “comunismo altro” era anche colpa «dei comunista del Pci, gente banalissima, quelli del partito ufficiale, dove si pretende che i ragazzi siano dei coglioni timorati, di più siano figli. Figli che fanno e dicono le stesse cose dei genitori iscritti al partito dal 1943, e mai un gesto di discontinuità, guai infatti a uscire dal percorso stabilito... e senza mai mandare a quel paese papà e mamma, “perché c’hanno raggione loro, tu’ padre è stato partiggiano ad Avezzano, tu’ padre, mica vuoi manca’ de rispetto ar compagno partiggiano, no, eh? ”». Ecco, fra i maoisti era la stessa cosa, stesse stronzate, stessa tristezza, ma almeno c’era l’illusione di essere comunque contro, fa dire Abbate a uno suo personaggio. Tutto questo mentre il dobermann Athanor continua ad abbaiare con la bava alla bocca. Alla luna. Inutilmente.
Respiriamo un attimo, facciamo mente locale e ricominciamo col nostro personalissimo album di famiglia. C’è una borghesia altissima e pigrissima, salottiera, razzista e finta colta, comunista per moda e gusto estetico che gioca alla rivoluzione finché la rivoluzione non arriva veramente: proprio “La rivoluzione”, infatti, è il nome della boutique della Cacciavillani, dove si è subito accolti da un manifesto cubano che raffigura un Cristo guerrigliero, schioppo in spalla e aureola, fissato al muro accanto ad alcuni ritratti fotografici di Richard Avedon: Marella Agnelli; Andy Warhol, Jane Fonda-Barbarella. La rivoluzione che fa tendenza, insomma, per una borghesia italiana che, modello Zelig, si ricollega acriticamente a ogni refolo della storia, che «fa il saluto dapprima al re, poi al Duce e infine a De Gasperi, Fanfani, Andreotti, a Aldo Moro, Emilio Colombo, ai socialisti di Pietro Nenni e De Martino, ma anche ai socialdemocratici filo-atlantici di Saragat, Ferri e Tanassi, talvolta per scrupolo estremo anche al principe Junio Valerio Borghese, e, in dirittura d’arrivo, pure ai comunisti di Togliatti, Longo e Berlinguer, e magari, sempre immaginando un moto rivoluzionario non preventivabile, perfino agli extraparlamentari di sinistra, quelli che praticano decisamente le idee di Marx, Lenin, Mao, e poi Marcuse, Adorno... E tutto questo per altruismo, semplice altruismo».
Click, altra polaroid per l’intellettuale organico più a se stesso che a una qualsivoglia palingenesi rivoluzionaria: nel libro si chiama Alberto Moravia ma si capisce che potrebbe essere chiunque altro: «Viva Mao- Tze-Tung! Viva Mao-Tze-Tung! Dai Alberto, ripetiamo insieme, dai...». E poi ancora, click, ci sono i popolani, la maggioranza silenziosa, gente normale che pensa cose indicibili del tipo: «... che palle, che palle, ‘sti communisti, so’ sempre la stessa cosa, sta’ storia della Resistenza qui, Resistenza lì, non ci lasciano dormire, e che sarà mai ‘sto cazzo di Resistenza!». Oppure: «’sto Mao, chi l’ha mai visto, ‘sto Mao, ma se voi state a pensa’ che c’enteressa ‘sto Mao vostro nun avete capito gnente...». Eccoli, invece, i rivoluzionari, quelli che invece a Mao ci credono: dogmatici, tromboni, ovviamente ideologici di un’ideologia più stupida di tutte le ideologie, caricaturale ma alla fine sin troppo vera. Al punto 11 della loro rivoluzione applicata all’Italia si può leggere: «Tutto il materiale pornografico e ogni fattore di propaganda delle idee amorali e corruttrici della borghesia devono essere immediatamente eliminati». Parole che fanno gioire il prete del gruppo che, infatti, ci mette ben poco, a cambiare casacca e aderire, fascia rossa al braccio, immediatamente alla nuova religione.
Ma le polaroid di questo multicolore album italiano non sono finite. Abbate non fa mancare proprio niente al lettore, con il gusto dell’ironia, col sarcasmo acidulo del libertario, spiega, argomenta, racconta e, anche, si racconta mettendo se stesso nel suo frullatore narrativo. E così scappa fuori anche un “Fulvio Abbate” quindicenne che spiega le sue scelte: «Io stavo nella Fgci, i giovani revisionisti, ma non ero contento, non ero al mio posto, li trovavo poco rivoluzionari e troppo timorosi, timorati, vili, così un giorno, durante un corteo contro il governo del democristiano Emilio Colombo, li ho piantati e mi sono unito allo spezzone dove c’erano le bandiere più rosse: i veri compagni». E sì, perché Abbate, nel mare magno della suo festival farsesco, le cose certo non le manda a dire. Se un ragazzo, allora, diventava maoista sognando un “comunismo altro” era anche colpa «dei comunista del Pci, gente banalissima, quelli del partito ufficiale, dove si pretende che i ragazzi siano dei coglioni timorati, di più siano figli. Figli che fanno e dicono le stesse cose dei genitori iscritti al partito dal 1943, e mai un gesto di discontinuità, guai infatti a uscire dal percorso stabilito... e senza mai mandare a quel paese papà e mamma, “perché c’hanno raggione loro, tu’ padre è stato partiggiano ad Avezzano, tu’ padre, mica vuoi manca’ de rispetto ar compagno partiggiano, no, eh? ”». Ecco, fra i maoisti era la stessa cosa, stesse stronzate, stessa tristezza, ma almeno c’era l’illusione di essere comunque contro, fa dire Abbate a uno suo personaggio. Tutto questo mentre il dobermann Athanor continua ad abbaiare con la bava alla bocca. Alla luna. Inutilmente.
Filippo Rossi. giornalista e scrittore (autore, con Luciano Lanna, del saggio-dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra, Vallecchi 2003), ha cominciato al quotidiano Il Tempo, è stato caporedattore del settimanale l'Italia, direttore delle news di Radio 101 e collaboratore di diverse testate politico-culturali. Attualmente è coordinatore editoriale della fondazione presieduta da Gianfranco Fini, "Farefuturo".
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