venerdì 14 marzo 2008

E noi diciamo grazie a Saviano (di Filippo Rossi)

Articolo di Filippo Rossi
Dal Secolo d'Italia di venerdì 14 marzo 2008

Se è vero che la sintonia, anche in politica, molte volte nasce da un’emozione in comune, da uno slancio irrazionale, non è possibile, allora, non sottolineare la profonda intesa esistenziale che unisce la destra italiana con lo scrittore Roberto Saviano. Non si preoccupino i lettori, non si tratta di un assurdo e puerile tentativo di arruolamento ideologico, di intruppamento partitico. L’autore di Gomorra è stato sin troppo chiaro, ieri sul Corriere della Sera, nello spiegare che uno come lui, che ha fatto della lotta alla mafia lo scopo della sua vita, non potrà mai essere di parte: «È un argomento – ha spiegato – sul quale non ci può permettere di esser partigiani. La mia responsabilità è la parola». Ed è giusto così: questo ragazzo che vive una vita non sua, perennemente sotto scorta, ha saputo dire no a un Veltroni o un Bertinotti che lo blandivano, e ha voluto spiegargli: «L’intellighenzia di sinistra dà sempre per scontato che la mafia stia dall’altra parte. Il complesso di superiorità applicato alla criminalità organizzata. Credersi immuni dalle infiltrazioni, pensare che questo sia sempre e solo un problema degli altri...». Ma la sintonia con Saviano non è (solo) in questa critica, anche se sacrosanta nella sua schiettezza giovanile.
La sintonia parte dal cuore, da una sensazione, da un fremito di simpatia. La sintonia prende il via all’emozione di leggere parole come queste: «Io sono cresciuto in una terra dove Pci e Msi – ha detto sempre al Corriere – stavano dalla stessa parte, contro la camorra. E vorrei tanto che il centrodestra riprendesse i valori dell’antimafia, quella che aveva Giorgio Almirante, e che avevano ispirato Paolo Borsellino. Li vedo trascurati, nonostante una base che al Sud ha voglia di sentirli affermare...». Eccome se è capace di farti emozionare, Roberto Saviano, perché, scientemente o meno non importa, tocca le corde profonde dell’anima di chi è stato e sta a destra in Italia. E non si tratta solo di lotta alla criminalità organizzata, non solo dell’orgoglio profondo per l’onestà personale mai ostentata come un santino. C’è dell’altro, che parla di consonanza culturale. Di individualismo, eroismo, di onore e di libertà. La memoria corre a una recensione del film 300 (ma sarebbe più giusto chiamarlo un saggio filosofico esistenziale) che Saviano scrisse per L’espresso. All’epoca, Saviano si prese anche il rimbrotto minimalista e pacifista di Michele Serra su Repubblica: ma che vai a pensare – gli disse pressappoco Serra – meglio giocare a boccette. E non poteva essere altrimenti, perché lo scrittore napoletano si era lanciato in un ragionamento che vale ancora la pena di rileggere, tutto di un fiato: «Gli spartani di Leonida aveva scritto Saviano – non possono ritirarsi. Sparta non conosce questa possibilità nel suo codice militare e nelle anime dei suoi soldati... non ha pietà e non conosce ritirata. Leonida incontra Serse... che cerca di convincere Leonida a passare tra i suoi uomini: “Immagina quale orribile fato attende i miei nemici, quando io ucciderei con gioia ognuno dei miei uomini per la vittoria”. Leonida risponde: “E io morirei per ognuno dei miei soldati”. Le due visioni degli eserciti si scontrano. Uomini al servizio di un dio-re contro combattenti comandati da un sovrano guerriero.
Quando gli immortali – la guardia di Serse – vengono infilzati, l’uomo che si ritiene un dio sente un brivido molto umano risalire lungo la schiena... Gli spartani non hanno scrittura e moneta, non hanno le biblioteche persiane, né gli astronomi mesopotamici... né migliaia di popoli assoggettati. Ma pensano al racconto. E Leonida sa che senza racconto non resta niente del sacrificio. E uno dei 300, ferito a un occhio, viene inviato a Sparta, affinché racconti. E Delio racconterà la storia, una grande storia che parla di vittoria. Seppur si tratti del più atroce dei massacri. E non sai se sono stati gli effetti speciali, o i racconti che ti hanno formato da bambino, ma alla fine del film ti sale una voglia strana. Ti va di andare da tuo figlio, se ce l’hai. O di raccogliere per strada un ragazzino qualsiasi... e portarlo in qualche angolo dove l’Italia è ancora Magna Grecia, davanti al tempio di Poseidon a Paestum, o a Pozzuoli al tempio di Serapide, o dinanzi all’orizzonte marino del tempio di Selinunte in Sicilia, e raccontargli delle Termopili e di come 300 spartani, 300 uomini liberi, hanno resistito contro un’immensa armata di soldati-schia schiavi. E ti viene voglia di prendergli la testa fra le mani e urlargli affinché non se ne dimentichi mai le parole di Leonida: “Il mondo saprà che degli uomini liberi si sono opposti a un tiranno, che pochi si sono opposti a molti e che... persino un dio-re può sanguinare”».
Grazie Saviano, di esistere e di essere un uomo e un intellettuale libero. Di aver scritto, tra le tante cose, anche la migliore esaltazione moderna di uno “spirito guerriero” che troppi, anche a destra, stanno facendo diventare macchietta passatista. No, lo spirito guerriero, l’etica agonistica, l’eroismo, la lotta per la libertà, rinasce anche un ragazzo che vive sotto scorta perché ha avuto il coraggio di ribellarsi alla criminalità organizzata. Uno di noi? No, siamo noi che vorremmo e dovremmo essere come lui. Accanto a lui.
Filippo Rossi. giornalista e scrittore (autore, con Luciano Lanna, del saggio-dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra, Vallecchi 2003), ha cominciato al quotidiano Il Tempo, è stato caporedattore del settimanale l'Italia, direttore delle news di Radio 101 e collaboratore di diverse testate politico-culturali. Attualmente è coordinatore editoriale della fondazione presieduta da Gianfranco Fini, "Farefuturo".

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