Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 16 marzo 2008
Lo ha detto lei stessa, già parecchio tempo fa: “Se il mio talento fosse pari alla mia ambizione sarei un mostro”. Di bravura, sottinteso. Purtroppo, infatti, le cose stanno proprio così: l’ambizione di Louise Veronica Ciccone è smisurata; il talento di Madonna è modesto. Risultato: una cantante mediocre è diventata una star di straordinario successo e di sorprendente longevità, capace di restare sulla breccia per 25 anni e perciò, proprio in questo 2008, accolta nella Rock’n’Roll Hall of Fame; una showgirl appena discreta si è trasformata in una dominatrice assoluta dei palcoscenici, nonché nella protagonista di videoclip a loro modo memorabili; una ragazza graziosa, ma piccolina e non certo bellissima, si è imposta nell’immaginario collettivo come un esempio di sex appeal.
A lei, ovviamente, va benissimo così. Quando lo scopo è affermarsi, a qualsiasi costo e con qualsiasi mezzo, la vittoria sul campo spazza via ogni possibile remora di carattere etico o intellettuale. Non è la pratica che deve accordarsi alla teoria. E’ l’esatto contrario. Gli ideali devono inchinarsi alla realtà. E la realtà, nel mondo dello show business, è quella delle vendite e dei profitti. I numeri, quelli delle cifre a sei zeri, e oltre, dicono più di ogni parola. I numeri sono oggettivi; le parole, anche le più raffinate, soprattutto le più raffinate, sono solo opinioni. Il tale disco vi sembra brutto? Beh, ha venduto dieci milioni di copie. Continuate pure a ripetere le vostre critiche fino a sgolarvi, ma non pretendete che vi diano retta. Dal punto di vista di chi quei dischi li ha venduti, e ne ha percepito i considerevoli guadagni, le vostre sono solo chiacchiere: magari sgradevoli – perché le lodi sono miele per tutti, e più che mai per quegli ego ipertrofici che sono spesso gli artisti – ma tutto sommato irrilevanti. Opinioni, appunto.
Madonna va dritta al sodo. Voleva diventare famosa, fin dall’inizio, e lo è diventata. Voleva restare sotto i riflettori per sempre e, almeno per ora, ci è riuscita. Come un grande giocatore d’azzardo, la sua preoccupazione non è avere le carte migliori in senso assoluto: il suo obiettivo è avere le carte necessarie a vincere la mano che si sta giocando e, quindi, a portarsi via il piatto. Una coppia di sette va altrettanto bene di un poker, se gli altri non hanno niente di meglio. O se si lasciano impressionare dal bluff e si fanno da parte.
Madonna è sola. Intimamente, irrimediabilmente sola. Un’individualista all’ennesima potenza. Una di quelle persone che fanno affidamento solo su di sé e che in nessun caso sono disposte a rinunciare alla propria libertà di manovra. Nel suo dizionario personale, e non certo in ossequio all’ordine alfabetico, la parola “alleanza” verrà sempre e comunque prima di “amicizia” e “amore”. Avendolo stabilito una volta per tutte, non si tratterà nemmeno di un dilemma da affrontare a ogni nuova occasione. E’ un fatto. E’ un dogma. L’attività professionale prevale su ogni altro ambito. Il resto viene di conseguenza. La selezione dei collaboratori è spietata e in perenne aggiornamento, così come spietata è la disciplina che Madonna impone a se stessa e incessante – tempestiva fino all’opportunismo, duttile fino alla contraddizione – è la rettifica della propria immagine pubblica.
Nel 2003, al tempo dell’invasione statunitense dell’Iraq, lei prese posizione contro Bush. Parlando del suo album in uscita, American Life, affermò che si trattava di «un’accusa contro la cultura americana». Replicando a chi sottolineava che l’immagine-simbolo del disco la raffigurava con in testa un basco alla Che Guevara, disse testualmente «Mi sono ispirata al Che perché mi trovo in uno stato d’animo rivoluzionario». Ma poi, non appena il video “rivoluzionario” suscitò le reazioni negative dell’opinione pubblica, che all’epoca era ancora nel pieno dell’innamoramento per il suo Presidente-Giustiziere, si affrettò a ritirarlo specificando che il filmato non voleva in alcun modo essere «privo di sensibilità e di rispetto» verso i soldati inviati al fronte.
Insomma: le convinzioni personali possono anche esserci, ed essere in contrasto con quelle dominanti, ma non devono mai intralciare la marcia, possibilmente trionfale, verso il successo. La coerenza tra ciò che si pensa e ciò che si esprime diventa un concetto sfumato e per nulla pressante. Nella migliore delle ipotesi, le due cose si incontreranno in seguito, in un futuro più o meno lontano ma comunque indefinito. Quando finalmente ci saranno le condizioni giuste. Quando la gente (il pubblico) sarà pronto a recepire il messaggio. Quando George W. Bush non sarà più alla Casa Bianca. E forse nemmeno i Repubblicani. Quando la guerra in Iraq, ormai, sarà sempre di più materia per la storia, e sempre meno per il dibattito politico.
Madonna lo sa. Lo sa alla perfezione. E, difatti, si lascia alle spalle le ambizioni di American Life e si riconverte al puro intrattenimento. Quello di Confessions on a Dance Floor, Confessioni su una pista da ballo. Confessioni? Rivendicazioni, semmai. L’orgoglioso, inebriante riepilogo di un campionario che ha funzionato in passato e che può funzionare di nuovo. Discoteca, movimento, seduzioni “cash & carry”. «Un disco – ha scritto Silvia Magi sull’edizione italiana di Rolling Stone – che ci incoraggia solo a raggiungerla sul dancefloor, dimenticare l’angoscia dei nostri giorni e ritornare a muovere almeno il culo».
In mancanza di meglio, sottinteso.
A lei, ovviamente, va benissimo così. Quando lo scopo è affermarsi, a qualsiasi costo e con qualsiasi mezzo, la vittoria sul campo spazza via ogni possibile remora di carattere etico o intellettuale. Non è la pratica che deve accordarsi alla teoria. E’ l’esatto contrario. Gli ideali devono inchinarsi alla realtà. E la realtà, nel mondo dello show business, è quella delle vendite e dei profitti. I numeri, quelli delle cifre a sei zeri, e oltre, dicono più di ogni parola. I numeri sono oggettivi; le parole, anche le più raffinate, soprattutto le più raffinate, sono solo opinioni. Il tale disco vi sembra brutto? Beh, ha venduto dieci milioni di copie. Continuate pure a ripetere le vostre critiche fino a sgolarvi, ma non pretendete che vi diano retta. Dal punto di vista di chi quei dischi li ha venduti, e ne ha percepito i considerevoli guadagni, le vostre sono solo chiacchiere: magari sgradevoli – perché le lodi sono miele per tutti, e più che mai per quegli ego ipertrofici che sono spesso gli artisti – ma tutto sommato irrilevanti. Opinioni, appunto.
Madonna va dritta al sodo. Voleva diventare famosa, fin dall’inizio, e lo è diventata. Voleva restare sotto i riflettori per sempre e, almeno per ora, ci è riuscita. Come un grande giocatore d’azzardo, la sua preoccupazione non è avere le carte migliori in senso assoluto: il suo obiettivo è avere le carte necessarie a vincere la mano che si sta giocando e, quindi, a portarsi via il piatto. Una coppia di sette va altrettanto bene di un poker, se gli altri non hanno niente di meglio. O se si lasciano impressionare dal bluff e si fanno da parte.
Madonna è sola. Intimamente, irrimediabilmente sola. Un’individualista all’ennesima potenza. Una di quelle persone che fanno affidamento solo su di sé e che in nessun caso sono disposte a rinunciare alla propria libertà di manovra. Nel suo dizionario personale, e non certo in ossequio all’ordine alfabetico, la parola “alleanza” verrà sempre e comunque prima di “amicizia” e “amore”. Avendolo stabilito una volta per tutte, non si tratterà nemmeno di un dilemma da affrontare a ogni nuova occasione. E’ un fatto. E’ un dogma. L’attività professionale prevale su ogni altro ambito. Il resto viene di conseguenza. La selezione dei collaboratori è spietata e in perenne aggiornamento, così come spietata è la disciplina che Madonna impone a se stessa e incessante – tempestiva fino all’opportunismo, duttile fino alla contraddizione – è la rettifica della propria immagine pubblica.
Nel 2003, al tempo dell’invasione statunitense dell’Iraq, lei prese posizione contro Bush. Parlando del suo album in uscita, American Life, affermò che si trattava di «un’accusa contro la cultura americana». Replicando a chi sottolineava che l’immagine-simbolo del disco la raffigurava con in testa un basco alla Che Guevara, disse testualmente «Mi sono ispirata al Che perché mi trovo in uno stato d’animo rivoluzionario». Ma poi, non appena il video “rivoluzionario” suscitò le reazioni negative dell’opinione pubblica, che all’epoca era ancora nel pieno dell’innamoramento per il suo Presidente-Giustiziere, si affrettò a ritirarlo specificando che il filmato non voleva in alcun modo essere «privo di sensibilità e di rispetto» verso i soldati inviati al fronte.
Insomma: le convinzioni personali possono anche esserci, ed essere in contrasto con quelle dominanti, ma non devono mai intralciare la marcia, possibilmente trionfale, verso il successo. La coerenza tra ciò che si pensa e ciò che si esprime diventa un concetto sfumato e per nulla pressante. Nella migliore delle ipotesi, le due cose si incontreranno in seguito, in un futuro più o meno lontano ma comunque indefinito. Quando finalmente ci saranno le condizioni giuste. Quando la gente (il pubblico) sarà pronto a recepire il messaggio. Quando George W. Bush non sarà più alla Casa Bianca. E forse nemmeno i Repubblicani. Quando la guerra in Iraq, ormai, sarà sempre di più materia per la storia, e sempre meno per il dibattito politico.
Madonna lo sa. Lo sa alla perfezione. E, difatti, si lascia alle spalle le ambizioni di American Life e si riconverte al puro intrattenimento. Quello di Confessions on a Dance Floor, Confessioni su una pista da ballo. Confessioni? Rivendicazioni, semmai. L’orgoglioso, inebriante riepilogo di un campionario che ha funzionato in passato e che può funzionare di nuovo. Discoteca, movimento, seduzioni “cash & carry”. «Un disco – ha scritto Silvia Magi sull’edizione italiana di Rolling Stone – che ci incoraggia solo a raggiungerla sul dancefloor, dimenticare l’angoscia dei nostri giorni e ritornare a muovere almeno il culo».
In mancanza di meglio, sottinteso.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000. Prima su “Ideazione.com”, poi sui quotidiani “Linea”, di cui è stato caporedattore fino al maggio scorso, e “Secolo d’Italia”.
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