martedì 11 marzo 2008

Tifare contro, una storia degli ultras italiani. Slogan, sciarpe e mortaretti (di Ivo Germano)

Articolo di Ivo Germano
Dal Secolo d'Italia di martedì 11 marzo 2008
I recenti arresti di sedici tifosi laziali all’interno dell’inchiesta sui disordini e casotti scoppiati il giorno in cui venne ucciso Gabriele Sandri in una piazzola dell’autostrada, vicino ad Arezzo, in seguito alle solite colluttazioni e scontri fra tifoserie opposte. L’11 novembre congiuntamente tifosi della Roma e della Lazio scatenarono un riot, trasformando la zona attorno allo stadio Olimpico in una piccola Ramallah della guerriglia urbana. Il bilancio fu di 70 feriti e decine di contusi. In particolare, i reati contestati sono quelli di associazione a delinquere e danneggiamento.
Le stesse scene e gli stessi commenti che sentimmo, in occasione del G8 di Genova, assieme all’immancabile “compagnia di giro” dell’opinione e contropinione di figure, figurine, figuri e figuranti rifugiati dietro l’inevitabile e infausta domanda: tifosi o semplice delinquenza? Ancor più inevitabile la divisione della torta calcistica deviante in tante fettine mediatiche prelibate per analisi, visioni, riflessioni, ponderazioni allarmate, ovviamente, da parte di esperti, opinionisti e padri di famiglia angosciati e amici e parenti disorientati. La realtà catodica che risponde all’appello e il contrappello del silenzio retorico e ipocrita del “perché siamo giunti a questo punto”; “di chi sono le responsabilità?” e il cattiverio si confonde nella melassa insopportabile della tassonomia e dell’elenco della virtù che diventa vizio nell’appuntamento con la morte, ridotta e trattata a gossip tornito e bello. Il solito paradosso che insorge nel momento in cui la vita vissuta è sostituita da quella mediata. Filtro e specchietto magico dove attingere a piene mani al luogo comune e al frasario di circostanza, spesso alibi di aria fritta e rifritta.
La cronaca, però, ci aiuta con un libro onesto, libero, quasi disinibito, proprio perché in una nazione che troppo si analizza e autoanalizza intorcinandosi in pseudoproblemi e poco si racconta. Racconta tanto e bene, dal momento che pensa bene Giovanni Francesio, Tifare contro. Una storia degli ultras italiani, (Sperling & Kupfer, Milano, pagg. 206, € 14,00). Inserito nella collana “Le radici del presente”, diretta dal giornalista e conduttore televisivo Luca Telese, la narrazione di chi è stato ultra, “ perché allo stadio sono sempre stato bene” costringe il sociologo a non far troppa sociologia, lo psicologo idem e l’assistente sociale a mollare certe menate professionali, per affrontare, sbigottiti e incuriositi, la febbrile parabola del mondo ultra italiano. Con una certa franchezza culturale la mappature obiettiva di Tifare contro testimonia della pandemia di un linguaggio e categoria mentale che è sconfinato in settori e sistemi diversi, tanto che un talk show risulta più bieco e violento di tante tranches de vie oltre le curve e il campo.
Un trentennio di trasferte, tafferugli, preparazioni di striscioni, infatti, non scade nell’autocelebrazione, o, nella geremiade del pentito di turno, ma stabilisce uno scarto nell’immaginario. Dal 1968 anno di fondazione della "Fossa dei Leoni" del Milan fino allo scioglimento e autoscioglimento di gruppi organizzati del tifo, successivamente alla morte di Luca Sandri emerge un dato di fatto inconfutabile: “Con tutte le loro macchie, con le colpe anche gravissime, gli ultras hanno costituito uno dei rari momenti di aggregazione giovanile degli ultimi anni”. Non è un “mondo a parte” e nemmeno un “nemico pubblico” che, secondo Francesio, “Lo Stato italiano si propone di sconfiggere un nemico che non si è mai preoccupato di conoscere”. I cuori non sono tutti marci e psicotici e le “mele” non necessariamente bacate, tantomeno le teste, automaticamente, sciroccate. Certo la violenza esiste e dalla notte di Avellino-Napoli del 20 settembre 2003 il terzo che non si da diventa il poliziotto e il carabiniere, nell’avvertenza di non ricadere nell’equivoco pasoliniano del proletario in divisa contro il borghese ribelle, come lettura di un ’68 non storicizzato. Perché siamo sempre stati guelfi e ghibellini, solo che la violenza iniziale era figlia di campanilismo e malinteso municipalismo, mente ora l’oscillazione politica da sinistra a destra, restituisce un quadro più intricato.
Francesio non cade nel tranello della comparazione fra ultrà e hooligan, ma prende spunto da curve e forze dell’ordine che sono “soggetti attivi” e non esseri entomoligicamente classificabili. Che agiscono e reagiscono, a seconda delle situazioni. Il libro di Francesio ci dice la verità anche sul tanto decantato “modello inglese” significa aprire copiosamente e diffusamente il portafoglio, dotarsi di stadi-cattedrale e non di buggigattoli su cui speculare e, soprattutto, seguire alla lettera le parole del senatore Taylor: “Se non volete che si comportino come bestie, smettete di trattarli come tali”.
L’occasione di essere “soggetti attivi” significa non limitarsi istituzionalmente alla repressione e, per quanto riguarda gli ultras, prendere coscienza, come testimoniato dall’assassinio di Paparelli, Spagnulo e Raciti, di “Non aver mai rinunciato alla mistica della violenza. Non aver tolto l’acqua in cui nuotavano i delinquenti puri, gli psicopatici, gli idioti. Non aver mai coltivato strutturalmente al proprio interno gli anticorpi alla violenza, non aver detto mai apertamente che lo “scontro leale” è una stronzata impraticabile”. Non si tratta di attendere l’intervento di un dottor Dulcamara che spaccia pronte ricette contro deliri integralisti, nemmeno, compiacersi in stile cannibale delle derive trash balorde e stupide, nuovamente, sovrapponendo l’analisi alla finzione mediatica. Basta partire dell’odore dell’erba e dalla voglia di patria che ritorna, grazie alla potenza della rimossione, in tempi di globalizzazione e showbusiness. La chiave di lettura del libro è nell’enorme, forse, abnorme strutturarsi di un patriottismo del tifo, per cui, a ben vedere, sotto la pelle ultrà si nasconde l’afflato e l’orientamento di uno strambo patriottismo a volte costitutivo, altre anti-costituzionale. Di amore si tratta di una terra che non c’è più, di una consaguineità che il cosmopolitismo relativista schifa, forse, di un’idea che sconfina oltre le mura della polis globale.
L’idea conterà sempre più della classifica marcatori e la patria, ridefinita da una comunità immaginaria non potrà mai sostituita dal bouquet dell’offerta satellitare. L’eterogenesi dei fini comporrà un mosaico metapolitico, disordinato, confuso, eterogeneo, senza dubbio capace d’integrare le strutture simboliche di un promotore finanziario e di un precario da call center, di un brillante studente universitario assieme ad un venditore di telefonia mobile.
Non per legittima difesa, neppure per voglia di scandalizzare un libro sa narrare e coinvolgere su un mondo e le sue molteplici forme di rappresentazione, fra ossessioni e sentimenti. Tanto che a leggerlo sociologicamente suscita un curioso conflitto d’interesse che lambisce lo stupore per la novità.
Ivo Germano (1966) Borghese di provincia all'Amicimiei, sociologo e giornalista, scientificamente si occupa di produzione culturale e strutture simboliche dell'immaginario contemporaneo. Incline a scrivere e interessarsi di cose inutili, curiosamente e felicemente borghesi.

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