martedì 15 aprile 2008

Antonello Venditti, la potenza unificatrice dei cantautori


Da Charta Minuta n. 7 Nuova serie - aprile 2008
Celebrato oltreoceano per La ricerca della felicità, Gabriele Muccino, tornato in patria, non faceva altro che ripeterlo. A chiunque gli chiedesse le sue impressioni sugli States (un dettaglio sui grattacieli o un consiglio sui fast food), rispondeva tra l’incredulo e l’entusiasta: «Angelina Jolie dal vivo è bellissima». Parvenu. Antonello Venditti già nel 1991 la volle, fortemente volle, nel videoclip di Alta Marea, cover della canzone Don’t dream it’s over dei Crowded House.
Lo ricordate? No? Allora seguite le istruzioni: collegatevi su youtube.com e digitate Alta Marea. Ella è ancora lì, giovane e bellissima. Sì, più di ora. Meno scarnificata di quella che (si fa per dire) conosciamo. Nessun tatuaggio. Figli zero. Niente occhialacci scuri. Di Brad neanche l’ombra. E quindi diciamolo una volta di più: Antonello era e rimane avanti a tutti di almeno quindici anni. Inarrestabile, dall’8 marzo in giro con il suo tour. Mentre su Video Italia e in radio impazza il suo ultimo videoclip. Malinconico al punto giusto e sapientemente ammiccante, un inno al rimpianto condito con un pizzico di rabbia mitigata dall’ottimismo. Indimenticabile, il titolo.
Un successo annunciato. Mica è un caso che produttori e registi di prodotti non esattamente d’eccellenza si affidino alla robusta stampella dei titoli vendittiani per fare cassetta. Da Buona Domenica, contenitore televisivo occupato manu militarae da reduci delle varie edizioni del grande fratello che si prendono a sportellate con gran sollazzo del pubblico, al film d’esordio dello stesso Muccino (senior), Ricordati di me, ai fortunati film di Fausto Brizzi: Notte prima degli esami. Uno e due.
E da pochi giorni nelle sale italiane è arrivato anche Questa notte è ancora nostra, film di Paolo Genovese e Luca Miniero, sempre con Nicola Vaporidis. Dai titoli alle strofe. Tanto che a questo punto è lecito aspettarsi altri sequel. Nell’ordine: Claudia non tremare non ti posso far male e Se l’amore è amore. Venditti, che di carattere è un ruvido, non si è mai mostrato particolarmente lusingato nel vedere saccheggiato il suo “immaginario”, limitandosi a fare buon viso a cattivo gioco. A volte, brontolando: «Mi sono stufato di vedere usati i titoli delle mie canzoni! E’ paradossale – si è lamentato in un’intervista – che se ora volessi scrivere un libro intitolato Notte prima degli esami non potrei. Ricordati di me passi, ma neanche tanto, perché hanno costretto il cantautore Pacifico a scrivere una canzone con quel titolo».
Ruvido, dicevamo. Venditti è uno che dice quel che pensa. Il che – in un’epoca di tatticismo seduttivo in cui l’ambizione massima è quella di piacere a tutti – è decisamente un elemento di merito. Dopo il debutto con l’amico di sempre Francesco De Gregori, la bellezza di oltre 35 anni fa, la separazione. Consensuale ma non senza qualche affettuosa polemica. Persino in politica, dividendosi nel giudizio sul comune amico Walter Veltroni.
Per De Gregori, che gli avrebbe preferito Rosy Bindi al timone del Pd, «quel che dice Veltroni spesso è difficile da afferrare, da decifrare, dice tutto e il contrario di tutto. Mostra una grande ansia di piacere, di essere appetibile a destra e a manca». D’accordo, noi, con De Gregori. Appetibile si vedrà.
Più veltroniano Venditti, che nel ’68 frequentava il primo anno di giurisprudenza alla Sapienza di Roma, mostrando già inequivocabili indizi di conservatorismo: occhiali rigorosamente Ray Ban, sempre della stessa montatura, ora come quarant’anni fa. Famiglia certamente non di sinistra, la sua. Il padre, Vincenzo Italo Venditti, un ufficiale di polizia che proprio nel ’68 diventerà vice prefetto di Roma. Nel palmarès di ex combattente un souvenir della seconda guerra mondiale poco piacevole: una ferita alla gola resa in versi dal figlio: «Mio padre ha un buco in gola / e una medaglia d’argento. / Oggi è andato in pensione /alta burocrazia nazionale». Un uomo tutto d’un pezzo: «Una montagna troppo alta da scalare» lo definisce nella bellissima Giulio Cesare, il glorioso liceo romano che frequentava e dove insegnava la madre, Wanda Sicardi, mentre «la giovane Italia cantava eia eia ala la la».
Di politica attiva non se ne è mai voluto occupare, tanto meno nelle sue canzoni: «Non ho mai scritto canzoni militanti politiche come facevano Paolo Pietrangeli con Contessa o Leoncarlo Settimelli – ha sottolineato in una recente intervista – però ci impegnavamo per un’Italia da cambiare».
E magari l’Italia non l’avranno cambiata, ma le nostre esistenze individuali sì e in meglio. E non parlo solo di quelle di “noi” quarantenni ma di più generazioni. Perché i cantautori si sono fatti, letteralmente, ascoltare. Perché, in quel mosaico sedimentato che è la colonna sonora delle nostre vite, le loro canzoni ci sono state e ci sono, leggere quanto persistenti, una droga da cui non abbiamo nessuna intenzione di disintossicarci.
Canzoni come La leva calcistica della classe ’68 di De Gregori hanno alimentato l’amore per il calcio più di quanto i danni del moggismo abbiano potuto in parte minacciare. Sì, perché certe canzoni erano capaci di parlare di sentimenti e di scuotere emozioni in un periodo storico – gli anni Settanta – «in cui – come testimonia Venditti – era difficile parlare d’amore piuttosto che di politica». Sono solo canzonette, si difendeva autoironicamente Edoardo Bennato, che con il suo album saluta gli anni Ottanta nel nome di Peter Pan. Motivo sufficiente per essere considerato un disimpegnato, peggio: un renitente, un piccolo borghese. Tanto che il suo collega Claudio Baglioni con il suo “piccolo grande amore” venne iscritto d’ufficio – marchio d’infamia – tra gli artisti ritenuti tout court di destra.
Sergio Caputo neanche a parlarne, lui e le sue ballate del Sabato italiano e Italiani mambo: un qualunquista.
Lucio Battisti altrettanto, con un’aggravante: fascista. Troppi i capi d’accusa e gli indizi di colpevolezza: un padre dichiaratamente di destra, presunte partecipazioni del Lucio nazionale alle manifestazioni del Fuan, persino ipotetici finanziamenti alle organizzazioni di destra. E poi con quell’altro ecofascio del Mogol avevano girato l’Italia a cavallo. Una bieca provocazione reazionaria.
Antonello, da questo punto di vista, era al di sopra di ogni sospetto: si è sempre dichiarato di sinistra, anche se cattolico. Pur se estraneo al massimalismo della sinistra radicale, al velleitarismo dell’artista impegnato e autoreferenziale: «Ho vissuto in maniera laica, anche se ho portato con me l’educazione cristiana datami da mia madre, cattolica praticante. La conferma viene anche dal mio linguaggio che non è tipico della cultura di sinistra». Tiè.
Tanto poco di sinistra da far storcere il muso a molti compagni. Specialmente negli anni Ottanta, quando Antonello abbraccia e alimenta l’ottimismo degli anni postideologici e venendo liquidato come autore commerciale e retrocesso nel purgatorio dalla critica che conta. Nel ’75 aveva già scritto il de profundis del sessantottismo imperituro. Lo fa nella sua bellissima Compagno di scuola: «E le assemblee e i cineforum i dibattiti / mai concessi allora /e le fughe vigliacche davanti al cancello / e le botte nel cortile e nel corridoio, / primi vagiti di un ’68 / ancora lungo da venire e troppo breve da dimenticare/ E il tuo impegno che cresceva sempre più forte in te… / Compagno di scuola, compagno per niente / ti sei salvato o sei entrato in banca pure tu? ».
Lui in banca non c’è entrato. E neanche in redazione. Meno che mai in Parlamento. Anche se nella biografica Robin ricorda: «E suo padre lo voleva avvocato e sua madre per lo meno professore». Né l’uno né l’altro. Musicista.
Cosa è rimasto di quelle utopie, si è chiesto Venditti. «Solamente unità e amore per noi». Consapevolezza che affiora già nel ’78 in Sotto il segno dei pesci: «Ti ricordi quella strada, eravamo io e te, e la gente che correva e gridava insieme a noi, tutto quel che voglio pensavo, è solamente amore…». Salvo concludere, con un fondo di amarezza, in Noi nell’album Benvenuti in paradiso del ’91: «Noi sotto il segno dei pesci noi… noi che sognavamo a occhi aperti, adesso siamo i perdenti noi».
Canzoni nelle quali può riconoscersi chiunque abbia partecipato a un corteo, a una manifestazione di qualsiasi segno, pesci rossi o topi fascisti usciti dalla fogne, a prescindere dalle diverse scelte di campo. Per questo il cantautore romano piace da sempre anche a destra e, come nei live al Circo Massimo di Roma, riempie gli stadi unificandoci tutti nel nome dell’immaginario condiviso, quello dove – per intenderci – «Nietzsche e Marx si davano la mano Nietzsche / e parlavano insieme dell’ultima festa / e del vestito nuovo, fatto apposta / e sempre di quella ragazza che filava tutti (meno che te)». La sfiga come collante generazione, altro che politica.
A noi non rimane che tessere il più sincero degli elogi all’Italia dei cantautori, tutti inclusi. Ricordandone altri due, per tutti. L’abruzzese Ivan Graziani, scomparso giusto dieci anni fa, autore di canzoni struggenti e bellissime come Firenze e Agnese.
E Pierangelo Bertoli, morto nel 2002 e dimenticato, troppo presto. Comunista sì, ma romantico e dolente, affogato di rimpianto per donne perdute. «Io vorrei dirti ciao come stai / come sei bella stasera / più bella del sole più dolce della primavera / ma chissà poi se lei mi vorrà / ancora come allora». I miei pensieri sono tutti lì. Era il 1983.
Li ricordiamo, saldando un debito di riconoscenza per averci accompagnato in note per tanti anni. Se l’Italia ingessata troppo a lungo sulle barricate dell’identità, stretta nel bipolarismo muscolare delle contrapposizioni coatte, della guerra civile permanente, ha un terreno culturale ed emozionale comune, il merito è un po’ anche loro, cantori di un’Italia unificata.

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