Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 13 aprile 2008
L’autobiografia è appena uscita, qui in Italia. Apparsa in lingua originale nell’autunno 2007, pubblicata dalla newyorchese Broadway Books, viene ora riproposta da Sperling & Kupfer. Eric Clapton, autentica leggenda del rock-blues, vi si racconta da cima a fondo, col tono asciutto di chi non avverte nessun bisogno di magnificarsi. Al contrario: a prevalere, anche perché assai meno conosciute, sono le debolezze, i problemi, le zone d’ombra. I conflitti interiori che si è portato dentro così a lungo e che solo negli ultimi anni, in buona parte grazie a un matrimonio felice quanto tardivo, hanno lasciato il posto a una serenità stabile, che si può sperare definitiva.
Il punto di partenza è stato tra i peggiori: figlio illegittimo di una madre che ad appena quindici anni rimase incinta di un soldato canadese, e che poi se ne andò lontano a farsi una nuova famiglia, Eric è cresciuto coi nonni, credendo a lungo che fossero loro i suoi genitori. Ha ricevuto affetto e sostegno. Ha imparato che sul lavoro si deve dare tutto. Ma intanto aveva saputo la verità, e il senso di rifiuto e di abbandono ha preso a tormentarlo. Una ferita profonda, infetta, rinnovata ogni giorno da quell’assenza che non finiva mai.
Lo ha salvato la musica, probabilmente. La musica lo ha plasmato, gli ha dato i mezzi per diventare una star, lo ha accompagnato per tutta la vita. Allo stesso tempo, però, ciò che gira intorno alla musica – quando il successo diventa sinonimo di eccesso, e il troppo denaro e la troppa celebrità fanno credere agli artisti di essere invulnerabili a qualsiasi vizio e a qualsiasi abuso – lo ha avvicinato più e più volte alla totale debacle sul piano fisico e su quello psichico, facendone via via un tossicomane e un alcolizzato; comunque, una persona che non riusciva a maturare e a diventare adulta.
Per moltissimo tempo, fino a quando non ce l’ha fatta a disintossicarsi e a rinunciare per sempre al bere, Clapton è rimasto impigliato nel tipico paradosso dei ragazzi che diventano celebri, e che vengono osannati, quando la loro adolescenza non è ancora finita. Il talento li proietta in avanti; l’immaturità li risucchia indietro. Le dita sono veloci e apparentemente infallibili: nel volare sulla tastiera di una chitarra creano un’immagine meravigliosa di sicurezza, di magia, di predestinazione. Il cuore e la mente continuano ad annaspare di fronte alle mutevoli circostanze della vita: niente spartito, niente accordi prefissati, persino nessuna certezza sul ritmo da tenere; come fai a cavartela bene, o addirittura alla perfezione, se non hai capito che razza di musica devi suonare?
E’ accaduto. Accadrà di nuovo. Il ragazzo diventa una star e lo rimane. Si gode i privilegi del presente e accantona gli strascichi del passato. L’unico obbligo che riconosce è quello di fare dischi e concerti che rinnovino il suo successo, prolungando all’infinito l’incanto di quella vita così speciale. Guadagni smisurati. Applausi scroscianti. Sguardi di pura, e inesauribile, ammirazione. Le luci della ribalta che in qualche modo non si spengono mai. O che sono pronte a riaccendersi quando vuoi, ogni volta che vuoi.
Ci credi. Ti abitui. Sei tu che decidi cosa si suona. Quando. Con chi. Scegli a tuo piacimento i musicisti, gli studi di registrazione, le donne, le case. Non rinnovi i contratti. Liquidi le partner. Va tutto benissimo. Va tutto malissimo.
Eric Clapton, nato il 30 marzo 1945 nel Surrey, è diventato famoso a poco più di vent’anni. Suonando blues, e rock-blues, nell’Inghilterra della seconda metà degli anni Sessanta. Suonando con gli Yardbirds e con John Mayall. Imponendosi come solista di grido. Alto, affascinante, carismatico. Concentrato, e rigoroso, nello sforzarsi di tirare fuori le note migliori. Nell’inseguire una musica che soddisfacesse innanzitutto il suo stesso bisogno di intensità e di bellezza. Lieto di condividerla con chi la amasse come la amava lui, ma a distanza di sicurezza dal semplice intrattenimento.
L’abilità divenne rito. L’apprezzamento divenne apoteosi. Sui muri di Londra comparve la celeberrima scritta “Clapton is God”.
«Ero perplesso, e in un certo senso dispiaciuto. Non volevo quel tipo di notorietà. Sapevo che mi avrebbe procurato guai. Ma a un’altra parte di me quell’idea piaceva, era il segno che ciò che avevo coltivato per tutti quegli anni mi veniva in qualche modo riconosciuto. Il punto era, naturalmente, che attraverso il mio modo di suonare la gente aveva imparato a conoscere una musica nuova, e me ne attribuiva il merito, come se il blues fosse una mia invenzione. Quanto alla tecnica, c’erano un sacco di chitarristi bianchi americani che mi davano parecchi punti.»
Altri sorvolerebbero, su quest’ultimo aspetto. Eric Clapton no. Un po’ perché è troppo innamorato del suo strumento per non restargli fedele, rendendo omaggio alle sue intrinseche potenzialità, anche nel riconoscere di buon grado la bravura altrui; un po’ perché ormai, varcata la soglia dei sessant’anni, ogni possibile antagonismo può finalmente cedere il passo alla serena accettazione del valore reciproco. La stima non coincide necessariamente con l’amicizia, ma certamente le prepara il terreno.
Allo stesso modo, la sincerità di un’autobiografia non coincide necessariamente con la saggezza del suo autore, ma aiuta a ricordare – o ad apprendere – che l’unico modo di capire le cose è guardarle in faccia per quelle che sono.
Il contrario del pop.
L’antica lezione del blues.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000. Prima su “Ideazione.com”, poi sui quotidiani “Linea”, di cui è stato caporedattore fino al maggio scorso, e “Secolo d’Italia”.
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