Dal Secolo d'Italia di sabato 12 aprile 2008
È l’alba. I tre uomini sono sulla soglia di una porta dagli ornamenti arcaici, in cui più tardi comparirà un simbolo solare esoterico. Sotto di loro, una scalinata diroccata, un paesaggio di rovine. E, ancora oltre, la spiaggia, il mare, le onde. Un momento iniziatico. È l’incipit di Un mercoledì da leoni, pellicola cult del “fascista zen” John Milius, struggente inno alla libertà, all’amicizia e alla gioventù che a maggio compirà trenta anni. Uscito in sordina, fra il disinteresse di pubblico e critica, Big Wednesday verrà rivalutato negli anni come un piccolo capolavoro, al pari, secondo il dizionario Morandini, di un altro gran bel film come Il cacciatore di Michael Cimino. Nelle sequenze iniziali appena descritte, la dimensione epica del racconto appare subito chiara. I surfisti californiani degli anni Sessanta non sono una tribù metropolitana come le altre. Sono dei semidei, esponenti di un’aristocrazia del corpo e dello spirito. Ecco come la voce narrante – che nella versione originale è dello stesso Milius – introduce le figure di Matt, Jack e Leroy, i protagonisti: «Era il loro momento, erano veramente sulla cresta dell’onda, erano i re di un regno particolare». I tre, biondi, atletici e circondati da un’aura leggendaria, sono i campioni di un’intera comunità di surfisti, che vive secondo le proprie regole: alcol e feste, ragazze e scazzottate (più qualche divisa della Werhmacht a fare da contorno). Lo sciamano di questo mannerbund alla californiana è “Bear”, una sorta di Gandalf on the beach, il maestro di una legione di eroi, colui che sa «dove nascono le maree e come si formano».
Bear, circondato da ragazzini adoranti che pendono le sue labbra, prepara le sue tavole con la perizia di un costruttore di spade giapponese, divulgando nel frattempo il suo verbo: occorre attendere il “gran giorno”, spiega il saggio, quello della “grande mareggiata che spazzerà via ogni cosa”. Un momento che va affrontato da soli, punto apicale di tutta un’esistenza. Un rito di passaggio. Ed è intorno a questi momenti topici che si avvolge la struttura temporale di Un mercoledì da leoni, con un caratteristico movimento a spirale: tutto torna eternamente, eppure tutto è sempre diverso. Nei dodici anni di vita raccontati dal film e scanditi dalle quattro grandi mareggiate (del 1962, 1965, 1968 e, l’ultima, quella memorabile del 1974), i protagonisti sono sempre lì, sulle onde. Sono sempre gli stessi, eppure cambiano. La gioventù finisce, la patria reclama sangue in Vietnam, si mette su famiglia, c’è chi si sistema, c’è chi muore. E poi ci si ritrova sempre lì, sulla spiaggia. Con una consapevolezza nuova, ma rimanendo sempre se stessi.
Per tutti questi motivi, Big Wednesday appare come il ritratto, ora malinconico, ora epico, di un altro ’68, altrettanto libertario, festaiolo e rivoluzionario di quello vissuto nei campus universitari eppure non dimentico di una certa dimensione virile, spirituale, stilistica, esistenziale, meno impegnato ma più profondo. Le parole sprezzanti di Matt verso il sudicio cameriere hippy in pieno 1968 sono a questo riguardo eloquenti. In tutto ciò, il surf diventa la disciplina semi-esoterica grazie alla quale fare «ciò che deve essere fatto», in attesa
del «grande giorno». Una sfida da affrontare con serietà estrema, quasi con raccoglimento mistico. Perché non è “solo uno sport”. È un modo di affrontare la vita. Le analisi dell’età contemporanea come era “liquida”, del resto, hanno una lunga tradizione che va da Schmitt a Bauman. Anzi, come insegna Nietzsche, dopo la morte di Dio noi siamo a bordo di una navicella sbattuta tra le maree. Ma non c’è più terra ferma alcuna. Non c’è rifugio, non c’è riparo, le onde sono il nostro destino. Inforcare la tavola da surf è allora l’unico modo per far fronte alla sfida senza lamenti nostalgici e rinunciatari. Ai tempi del nichilismo inoltrato, insomma, surfare necesse est.
del «grande giorno». Una sfida da affrontare con serietà estrema, quasi con raccoglimento mistico. Perché non è “solo uno sport”. È un modo di affrontare la vita. Le analisi dell’età contemporanea come era “liquida”, del resto, hanno una lunga tradizione che va da Schmitt a Bauman. Anzi, come insegna Nietzsche, dopo la morte di Dio noi siamo a bordo di una navicella sbattuta tra le maree. Ma non c’è più terra ferma alcuna. Non c’è rifugio, non c’è riparo, le onde sono il nostro destino. Inforcare la tavola da surf è allora l’unico modo per far fronte alla sfida senza lamenti nostalgici e rinunciatari. Ai tempi del nichilismo inoltrato, insomma, surfare necesse est.
Bardo dietro la cinepresa, ma già surfista militante in prima persona, John Milius sa bene tutto ciò. Tanto da insistere con tavole e onde anche in un contesto totalmente alieno dalle spiagge californiane di Big Weddesday, ovvero fra le acque esotiche del Mekong, dove è ambientato quell’Apocalypse Now di cui Milius sarà indimenticabile sceneggiatore. «Charlie don’t surf»: la battuta del pazzoide tenente colonnello Kilgore, impegnato a cavalcare le onde in mezzo alla “sporca guerra”, è entrata a pieno diritto nella storia del cinema. “Charlie”, ovvero il vietcong, nel gergo militare statunitense, “non fa surf” ed è probabilmente questa, al di là di ogni altra motivazione politica, la allucinata logica in base alla quale se ne reclama la distruzione. La battuta di Kilgore ispirerà i Clash – Charlie don’t surf è il titolo di un loro singolo – e, recentissimamente, i Baustelle, che però ribalteranno la sentenza. Si intitola infatti Charlie fa surf l’ultima hit del gruppo senese: un inno a una giovinezza libertaria, forse decadente ma pur sempre ribelle rispetto al “mondo di grandi e di preti” che vorrebbe ucciderne ucciderne lo spirito: «Vorrei morire a questa età, vorrei star fermo mentre il mondo va: ho quindici anni. Programmo la mia drum-machine e suono la chitarra elettrica: vi spacco il culo. È questione d’equilibrio, non è mica facile. Charlie fa surf, quanta roba si fa, MDMA».
Ribelli, anarcoidi, “cattivi” ma dotati di un fascino potentissimo sono anche i rapinatori-surfistiparacadusti di Point break pellicola del 1991 diretta da Kathrin Bigelow. Una comunità non conforme, ora libertaria, ora anticonsumistica, ora zen (il capo, interpretato da Patrick Swayze, si chiama Bodhi, abbreviazione di Bodhisattva) che riuscirà a sedurre anche l’infiltrato dell’Fbi interpretato da Keanu Reeves. «Noi non ci battiamo per i soldi – dichiara Bodhi – noi ci battiamo contro il sistema, quel sistema che uccide lo spirito dell’uomo; noi siamo siamo l’esempio per quei morti viventi che strisciano sulle autostrade nelle loro infuocate bare di metallo, noi dimostriamo con la nostra opera che lo spirito dell'uomo è ancora vivo». Un film con le idee piuttosto chiare – si fa per dire – sulla collocazione politica del mondo dei surfisti è invece il grottesco, pulp e surreale Surf nazist must die, diretto da Peter George. Una pellicola che piacerebbe a Quentin Tarantino, presentata fra lo sconcerto generale al Festival di Cannes del 1987 e presto divenuta di culto fra gli amanti del cinema di serie Z.
Il film parla di una banda di nazi-surfisti che spadroneggia sulle spiagge di una Los Angeles devastata da un terribile terremoto. Un tema, quello dei pazzoidi surfisti crociuncinati, ripreso con sfrontata ironia anche dal gruppo di rock non conforme Innato senso di allergia, nella loro goliardica Surf nazis must live: «Forse siamo troppo belli, alti, biondi, intelligenti, non piacciamo a certa gente forse meno intelligente. Ma se cavalchiamo l’onda, oh baby, non c’è storia, ogni mora, ogni bionda, in amor per noi cadrà. Ma qualcuno non ci sta e forse non ci starà mai, dalla spiaggia urla già: Surf nazis must die!».
Sempre in tema di sottocultura popolare, non può essere taciuta la figura di Silver Surfer, il personaggio dei fumetti della Marvel creato da Stan Lee e Jack Kirby nel lontano 1966. Extraterrestre apparentemente invincibile, il surfista argentato è un supereroe fra i più complessi, eternamente in bilico fra bene e male, nonché legato a doppia mandata da un rapporto di amore e odio nei confronti di Galactus, potentissimo divoratore di mondi. Un personaggio, quello della Marvel, che ha avuto poco successo nelle strisce animate, ma che proprio per la sua complessità psicologica ha sempre avuto un suo seguito di fedelissimi, fino ad essere ripescato lo scorso anno dal regista Tim Story per I Fantastici Quattro e Silver Surfer. Un araldo solitario, quello creato da Lee e Kirby. Solitario come chiunque inforchi una tavola da surf. Lì, in mezzo alle onde, spiegava il Bear di John Milius, sei sempre solo.
Adriano Scianca (1980), laureato in filosofia, collaboratore di diverse riviste, giornali e siti web, nonchè appassionato di cultura non conforme, filosofia sovrumanista e pensiero postmoderno.
Adriano Scianca (1980), laureato in filosofia, collaboratore di diverse riviste, giornali e siti web, nonchè appassionato di cultura non conforme, filosofia sovrumanista e pensiero postmoderno.
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