Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 27 aprile 2008



Più che un esploratore dell’esistenza, capace di aprire, o se non altro di cercare, qualche nuovo “passaggio a nord-ovest”, una guida locale che, a forza di vagabondare di qua e di là, ha imparato a menadito la mappa del territorio in cui è solito aggirarsi. Più che un viaggiatore di lungo corso, un tassista ad alto chilometraggio: uno che la sa lunga sul traffico, e sui vigili, e su ogni altra furbizia della “vita a quattro ruote”; uno che fa un figurone quando si tratta di andare alla svelta da un posto all’altro della città, ma che fuori dal suo contesto non sa un bel niente. Peggio: non lo vuole nemmeno sapere.
Max Pezzali è molto popolare, ovviamente. In un’epoca in cui la parola d’ordine è essere immediati, affinché chiunque si senta lusingato nel rispecchia
rsi senza il più piccolo sforzo in ciò che gli viene proposto, il criterio di giudizio corrente è il più istintivo e superficiale: mi piace, ergo ha un valore. Invece di vedere nell’arte, o nella cultura, o in qualsiasi altra forma di (ri)elaborazione della realtà, la porta di accesso a qualcosa di superiore, ci si compiace di trovare tutto a propria immagine e somiglianza. Mi assomiglia, ergo è bellissimo.

I media si sono adeguati da un pezzo: per definizione, si potrebbe dire. I media – che di questo stato di cose sono da un lato la causa e dall’altro la conseguenza, in un circolo vizioso di conferme reciproche – alimentano l’equivoco ogni giorno. Da anni. Da interi decenni. Le tv coi loro programmi idioti, culminati nei reality show; le radio con le loro play list di “grandi successi”; la stampa coi suoi cedimenti al sensazionalismo e al gossip.
Gli editori di libri, a loro volta, si stanno adeguando in massa. Si pubblica innanzitutto per vendere, a prescinder
e dal valore intrinseco del testo. Ciò che in precedenza sarebbe stato bloccato all’origine, per manifesta insufficienza, ora viene avallato a cuor leggero: non importa che la scrittura sia modesta e il contenuto trascurabile; ciò che conta, e che spinge alla pubblicazione, è l’appeal commerciale, vero o presunto. E se l’autore è già conosciuto, sia pure per qualunque altro motivo, la strada è spianata. Il nome viene utilizzato alla stregua di un logo, che si può spostare tranquillamente da un ambito all’altro. Ti piace la Ferrari, nel senso dell’automobile, e ti compri qualsiasi oggetto che ne riproduca il marchio. Ti piace un certo personaggio, che in vita sua non ha mai scritto nemmeno un raccontino di dieci pagine, e ti compri il suo libro. Non l’autobiografia; il suo romanzo d’esordio.

Il romanzo d’esordio di Max Pezzali esce in questi giorni, edito da Baldini Castoldi Dalai. Si intitola Per prendersi una vita e, così asserisce l’autore nelle note di copertina,
«è una storia crudele». Quattro ragazzi della provincia lombarda, di qualche cittadina intorno al Po, che nel luglio del 1988, subito dopo gli esami di maturità, intraprendono un viaggio fino a Londra per assistere a un concerto di Joe Strummer, l’ex leader dei Clash. Stipati su una Mini Minor, col bagaglio ridotto all’essenziale, coi pochi soldi che sono riusciti a racimolare: ma pur sempre, e finalmente, “on the road”, con quel senso di avventura e di libertà che si prova, all’ennesima potenza, la prima volta che ci si lascia alle spalle la famiglia e il luogo d’origine. Con tutti i loro vincoli, spesso insopportabili. Ma anche con tutte le loro sicurezze implicite ed esplicite: più necessarie, spesso, di quanto si sia disposti a riconoscere.

Il viaggio (proprio come l’adolescenza) comincerà spensierato e si concluderà in tutt’altro modo. L’amicizia reciproca verrà tradita per un verso e rinsaldata per un altro. La vita si mostrerà per quella che è: nella migliore delle ipotesi una delus
ione parziale, che conduce a una maggiore, e più onerosa, consapevolezza. Nella peggiore, la dissoluzione di qualsiasi entusiasmo giovanile. Il venir meno della capacità di meravigliarsi di fronte a ciò che non si conosce, innamorandosi in un istante delle cose e delle persone. Amando la vita in quanto tale.

Pezzali fa quello che può: la nota positiva è che la qualità della scrittura tende ad aumentare via via che la storia si snoda, e specialmente quando, ormai, ci si approssima alla fine. Quella negativa è che ci sono troppe cadute di tono, che magari vorrebbero riflettere l’immaturità dei protagonisti ma che degenerano nell’approssimazione. Nel luogo comune. Nello stereotipo. Talvolta nella sciatteria.
Eppure, il testo è stato pubblicato così com’era. Senza che nessuno dicesse all’autore che quella lì andava considerata una prima stesura, con ampi, amplissimi margini di revisione e di miglioramento.
Poi, probabilmente, il libro avrà successo comunque: e l’esigenza di fare di più sarà cancellata (per sempre?!) dalla convinzione che non ce ne sia nessun bisogno. E’ piaciuto all’editore ed è piaciuto al pubblico. E i critici – si sa – sono solo dei gran rompicoglioni.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000. Prima su “Ideazione.com”, poi sui quotidiani “Linea”, di cui è stato caporedattore fino al maggio scorso, e “Secolo d’Italia”.
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