Dal Secolo d'Italia di domenica 20 aprile 2008
Martin Scorsese fa sembrare tutto facile, in Shine A Light: giusto nelle sequenze iniziali – tanto per essere certo di averlo ricordato a tutti, se stesso compreso –richiama le condizioni caotiche in cui il film è nato e ha preso forma, omaggiandosi da sé per l’impresa, obiettivamente cospicua, di essere riuscito a dominare quel caos fino a trasformarlo in quello che voleva lui, cioè in questo film che è allo stesso tempo frenetico e pulsante come una corsa a perdifiato e preciso e ineccepibile come il tuffo vincente di un campione olimpico.
I Rolling Stones, Mick Jagger in testa, fanno sembrare tutto facile: spontaneo, e appassionato, e scintillante; colmo di amicizia tra loro quattro, vecchi bucanieri del rock e del blues affratellati da una vita; intriso di amore per la musica e per il pubblico; e non di meno, come se non bastasse la soddisfazione morale, la gratificazione psicologica, la consapevolezza che dopo quasi cinquant’anni non c’è più nulla di effimero, efficacissimo per il business. Mica male: te la spassi sul palco, fai soldi a palate, te la spassi lontano dal palco, fai quello che ti pare da quando ti svegli a quando te ne vai a dormire... e perciò, come ha detto Keith Richards, «Mi sono divertito un sacco. C’è stato molto dolore, ma dopotutto, che vita! Bellissima. Quando suonerà la campanella, io risulterò un vero figlio di puttana».
Quando suonerà la campanella, probabilmente, Keith girerà la testa all’indietro, dove di regola c’è la batteria del vecchio Charlie Watts (“Il Silenzioso”) e si chiederà checcazzo di attacco è, quel ding-dong da beccamorti. Dopo di che, in un modo o nell’altro, ricomincerà pari pari da dove ha finito: dove le tenete le chitarre in questo posto? E il whisky? E tutto il resto?
La sorpresa, forse, sarà l’immagine nello specchio, sempre che lassù in paradiso (o laggiù all’inferno) ti lascino un’immagine tutta tua – che non sia pura luce abbagliante di angelo o torbida, oscura, impenetrabile ombra di diavolo – e qualche tipo di specchio in cui rimirarla. Ci saranno ancora le innumerevoli rughe di oggi? Ci saranno ancora questi segni che gli solcano il viso e che attestano, fin dalla primissima occhiata, un’intera vita esposta alle intemperie di ogni sorta di eccesso?
E’ questa, la cosa davvero straordinaria di Shine A Light. E’ che i “ragazzi” sul palco non sono affatto dei ragazzi. E nemmeno degli adulti nel pieno della loro corsa. Keith Richards e Mick Jagger sono del 1943. Charlie Watts del 1941. Ron Wood (quel giovanotto...) è del 1947. Fuori da ogni eufemismo, quattro uomini anziani. Che, a guardarli, dimostrano tutti i loro anni. E anche qualcuno in più, semmai.
Ma poi succede questo: che i quattro vecchietti si immergono nella musica e ne vengono rigenerati come da un incantesimo. Ritemprati al di là di ogni immaginazione. Talmente carichi di energia, e palesemente determinati a non risparmiarne nemmeno un granello, da cancellare ogni ipotesi di forzatura. Guardateli: Mick Jagger non sta fermo un attimo, Keith Richards e Ron Wood ci danno dentro con le loro chitarre come surfisti che si godono ogni singola onda (in attesa di quella perfetta, si capisce), Charlie Watts picchia instancabile sui suoi tamburi, e sui suoi piatti, come un fuochista che spala carbone a tutt’andare e, ben contento di lasciare ad altri la gloria, nonché gli impicci, del timone, ha occhi solo per la fiamma poderosa della caldaia e orecchie soltanto per il rombo inesausto dei motori.
Lo scenario, tutto intorno, è il migliore che si potesse desiderare. Invece dello spazio enorme della tappa di Rio de Janeiro, come aveva chiesto inizialmente Mick Jagger, quello raccolto del Beacon Theatre di New York. La distanza minima tra artisti e pubblico, l’atmosfera densa di un pub affollatissimo ma ancora accogliente (saturo di gente, di aspettative, di voglia di esserci, di piacere di se stessi e degli altri), un’enclave di umanità vecchio stampo nel cuore della metropoli contemporanea per antonomasia.
Non è solo un omaggio ai Rolling Stones: è una celebrazione, costellata di brindisi doverosamente alcolici, e via via più inebrianti, della musica dal vivo. Ovverosia – senza nulla togliere agli irrinunciabili vantaggi dei dischi e di ogni altra forma di riproduzione artificiale – della musica allo stato puro. Ricondotta nel suo habitat naturale. Restituita al suo calore, alla sua completezza di esperienza condivisa.
Arrivato al terzo film di ambito prettamente musicale, dopo il coinvolgente The Last Waltz del 1978, incentrato sul concerto di addio di The Band, e dopo il fin troppo analitico No Direction Home del 2005, dedicato alla formazione e all’ascesa di Bob Dylan fino al 1966, Scorsese si concentra sullo show e limita all’essenziale ogni altra aggiunta. Sia le immagini di repertorio, sia quelle realizzate appositamente per Shine A Light, non mirano affatto a ricostruire la biografia degli Stones. Vogliono solo fornire dei piccoli, illuminanti contrappunti a quello che accade sul palco.
Per esempio: viene chiesto a Keith Richards e a Ron Wood chi sia, tra loro due, il più bravo con la chitarra. «Sono io», dice Ron, «anche se lui non vuole ammetterlo». «In realtà – replica Keith – siamo tutti e due abbastanza scarsi. Ma messi insieme facciamo per dieci».
Lavoro di squadra, man. Il migliore, quanto meno in ambito rock.
I Rolling Stones, Mick Jagger in testa, fanno sembrare tutto facile: spontaneo, e appassionato, e scintillante; colmo di amicizia tra loro quattro, vecchi bucanieri del rock e del blues affratellati da una vita; intriso di amore per la musica e per il pubblico; e non di meno, come se non bastasse la soddisfazione morale, la gratificazione psicologica, la consapevolezza che dopo quasi cinquant’anni non c’è più nulla di effimero, efficacissimo per il business. Mica male: te la spassi sul palco, fai soldi a palate, te la spassi lontano dal palco, fai quello che ti pare da quando ti svegli a quando te ne vai a dormire... e perciò, come ha detto Keith Richards, «Mi sono divertito un sacco. C’è stato molto dolore, ma dopotutto, che vita! Bellissima. Quando suonerà la campanella, io risulterò un vero figlio di puttana».
Quando suonerà la campanella, probabilmente, Keith girerà la testa all’indietro, dove di regola c’è la batteria del vecchio Charlie Watts (“Il Silenzioso”) e si chiederà checcazzo di attacco è, quel ding-dong da beccamorti. Dopo di che, in un modo o nell’altro, ricomincerà pari pari da dove ha finito: dove le tenete le chitarre in questo posto? E il whisky? E tutto il resto?
La sorpresa, forse, sarà l’immagine nello specchio, sempre che lassù in paradiso (o laggiù all’inferno) ti lascino un’immagine tutta tua – che non sia pura luce abbagliante di angelo o torbida, oscura, impenetrabile ombra di diavolo – e qualche tipo di specchio in cui rimirarla. Ci saranno ancora le innumerevoli rughe di oggi? Ci saranno ancora questi segni che gli solcano il viso e che attestano, fin dalla primissima occhiata, un’intera vita esposta alle intemperie di ogni sorta di eccesso?
E’ questa, la cosa davvero straordinaria di Shine A Light. E’ che i “ragazzi” sul palco non sono affatto dei ragazzi. E nemmeno degli adulti nel pieno della loro corsa. Keith Richards e Mick Jagger sono del 1943. Charlie Watts del 1941. Ron Wood (quel giovanotto...) è del 1947. Fuori da ogni eufemismo, quattro uomini anziani. Che, a guardarli, dimostrano tutti i loro anni. E anche qualcuno in più, semmai.
Ma poi succede questo: che i quattro vecchietti si immergono nella musica e ne vengono rigenerati come da un incantesimo. Ritemprati al di là di ogni immaginazione. Talmente carichi di energia, e palesemente determinati a non risparmiarne nemmeno un granello, da cancellare ogni ipotesi di forzatura. Guardateli: Mick Jagger non sta fermo un attimo, Keith Richards e Ron Wood ci danno dentro con le loro chitarre come surfisti che si godono ogni singola onda (in attesa di quella perfetta, si capisce), Charlie Watts picchia instancabile sui suoi tamburi, e sui suoi piatti, come un fuochista che spala carbone a tutt’andare e, ben contento di lasciare ad altri la gloria, nonché gli impicci, del timone, ha occhi solo per la fiamma poderosa della caldaia e orecchie soltanto per il rombo inesausto dei motori.
Lo scenario, tutto intorno, è il migliore che si potesse desiderare. Invece dello spazio enorme della tappa di Rio de Janeiro, come aveva chiesto inizialmente Mick Jagger, quello raccolto del Beacon Theatre di New York. La distanza minima tra artisti e pubblico, l’atmosfera densa di un pub affollatissimo ma ancora accogliente (saturo di gente, di aspettative, di voglia di esserci, di piacere di se stessi e degli altri), un’enclave di umanità vecchio stampo nel cuore della metropoli contemporanea per antonomasia.
Non è solo un omaggio ai Rolling Stones: è una celebrazione, costellata di brindisi doverosamente alcolici, e via via più inebrianti, della musica dal vivo. Ovverosia – senza nulla togliere agli irrinunciabili vantaggi dei dischi e di ogni altra forma di riproduzione artificiale – della musica allo stato puro. Ricondotta nel suo habitat naturale. Restituita al suo calore, alla sua completezza di esperienza condivisa.
Arrivato al terzo film di ambito prettamente musicale, dopo il coinvolgente The Last Waltz del 1978, incentrato sul concerto di addio di The Band, e dopo il fin troppo analitico No Direction Home del 2005, dedicato alla formazione e all’ascesa di Bob Dylan fino al 1966, Scorsese si concentra sullo show e limita all’essenziale ogni altra aggiunta. Sia le immagini di repertorio, sia quelle realizzate appositamente per Shine A Light, non mirano affatto a ricostruire la biografia degli Stones. Vogliono solo fornire dei piccoli, illuminanti contrappunti a quello che accade sul palco.
Per esempio: viene chiesto a Keith Richards e a Ron Wood chi sia, tra loro due, il più bravo con la chitarra. «Sono io», dice Ron, «anche se lui non vuole ammetterlo». «In realtà – replica Keith – siamo tutti e due abbastanza scarsi. Ma messi insieme facciamo per dieci».
Lavoro di squadra, man. Il migliore, quanto meno in ambito rock.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000. Prima su “Ideazione.com”, poi sui quotidiani “Linea”, di cui è stato caporedattore fino al maggio scorso, e “Secolo d’Italia”.
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