Articolo di Ippolito Edmondo Ferrario
Dal Secolo d'Italia di giovedì 17 aprile 2008
Per molti l’11 settembre del 2001 avrebbe segnato lo scoccare di un conflitto di civiltà insanabile tra mondo cristiano-occidentale e mondo musulmano, rimandando con la memoria a un passato lontano, quello delle crociate e delle grandi guerre condotto in nome di un presunto ideale comune di civilizzazione e di guerra all’infedele. Eppure molti storici e intellettuali da anni hanno smontato la superficialità e la faziosità dell’islamofobia.
Qualche anno fa sull’argomento il settimanale del Corriere della Sera interrogò sull’Islam sei personaggi molto diversi fra loro: da una parte, tre critici del mondo islamico, il cardinale Biffi, don Gianni Baget Bozzo e Umberto Bossi; dall’altra parte della barricata, a difendere l’Islam e la sua storia c’erano lo storico medievalista Franco Cardini, il cantautore Franco Battiato e lo scrittore-giornalista Pietrangelo Buttafuoco. Tutti e sei, non essendo di sinistra, dimostravano, dalle loro diverse posizioni, la necessità di rapportarsi comunque con il ritorno sulla scena politica mondiale del mondo islamico. Se da un lato Oriana Fallaci, fino alla fine dei suoi giorni, aveva denunciato la presunta incompatibilità dell’Islam con l’Occidente, dall’altro in molti non dimenticano la sua cultura millenaria, le tradizioni, la realtà che comunque rappresenta, a cominciare dal Mediterraneo.
In quest’ultima chiave è uscito da pochi giorni in libreria un libro che torna a raccontare le gesta forse del più grande condottiero dell’antico Islam, il solo che seppe unificare una moltitudine di popoli in una sola nazione e che ancora oggi viene ricordato come esempio di saggezza e di guida illuminata. Stiamo parlando del Saladino, il temibile guerriero, protagonista del romanzo storico Il libro di Saladino dello scrittore Tariq Ali, edito da Baldini Castoldi Dalai (pp. 480, euro 18,50). Si tratta dello stesso Saladino che il cattolicissimo Dante Alighieri inseriva nella sua Divina Commedia, precisamente nel Limbo, tra gli uomini valorosi, seppur non battezzati, esempio di virtù cavalleresca, definendolo «grande spirito non toccato da Dio».
Eppure dalle cronache giunteci il Saladino, ovvero Salah ai-Din, nato nel 1138, non passò certo per un guerriero all’acqua di rosa. Tutt’altro, anche se gli storici concordano sul fatto che si distinse sempre per un senso di giustizia che gli impedì di abbandonarsi alla pura crudeltà o all’efferatezza che scandiva quei tempi lontani, ma di grande attualità. Questo principio di ricorrere alla violenza solo in caso di estrema necessità, di considerare la guerra ultima ratio si evince dal racconto della sua giovinezza, che nel libro lo stesso condottiero racconta allo scrivano ebreo Ibn Yakub: «Ricordo una cavalcata che mio padre e io facemmo anni dopo fuori dalle mura di Damasco. L’orizzonte si fece rosso e color oro. Lui se ne accorse per primo; tirammo le redini e per un tempo che ci parve lungo rendemmo un silenzioso omaggio all’inimitabile bellezza della natura. Tacemmo anche mentre cavalcavamo verso casa, ancora presi dalla soggezione per quel cielo in cui erano comparse le prime stelle. Mentre raggiungevamo il Bab Shark, mio padre disse nel suo tono gentile: spesso dimentichiamo che anche le guerre necessarie sono una calamità per la maggior parte delle persone, che soffrono sempre molto più di noi. Non dimenticarlo mai, figlio mio. Entra in battaglia solo quando non c’è altra via».
E il Saladino certamente in battaglia non si risparmiò mai, considerate tutte le guerre che affrontò per liberare la sua terra dall’“invasore” cristiano. Nel 1174, a cavallo tra la seconda e la terza crociata, con il suo esercitò conquistò Damasco, seguita da Aleppo nel 1183 e da Mossul nel 1186. La battaglia risolutiva che sancì la sconfitta dei cristiani fu quella di Hattin, il 4 luglio del 1187. Memorabile l’episodio, raccontato da alcuni, del taglio della mano di Rinaldo di Chatillon proprio a opera del Saladino, gesto con cui mantenne il giuramento di vendicare il massacro di una carovana di musulmani diretti in preghiera alla Mecca e uccisi a tradimento dagli uomini di Rinaldo. Tutti gli altri, i cavalieri cristiani, Ospitalieri e Templari, furono passati per le armi, in quanto i loro ordini cavallereschi non prevedevano riscatti e nel caso di liberazione dalla prigionia sarebbero tornati subito a combattere. Ben diversa fu invece la sorte di Gerusalemme, la città santa, che Saladino pose sotto assedio. Grazie alle trattive intercorse tra Saladino e Baliano di ibelin, il condottiero musulmano si accontentò di poterla espugnare senza colpo ferire entrandovi il 2 ottobre 1187 e concedendo ai sedicimila abitanti cristiani di lasciarla incolumi e di imbarcarsi sulle navi per tornare in Europa.
Il romanzo di Tariq Ali (foto a destra) inizia da quando lo stesso Saladino decide di chiamare a sé uno scriba per dargli le proprie memorie, lasciando così ai posteri un ritratto di se stesso che sia il più possibile veritiero. Giorno dopo giorno dunque il Saladino inizia a raccontare la propia vita facendo sì che lo scriba Ibn Yakub diventi il suo più intimo referente come lui stesso affarma: «Da quella notte, e fino al giorno in cui il sovrano partì per Gerusalemme, andai a palazzo tutti i giorni; a volte ci restavosino a notte fonda, tanto che mi venne assegnata una camera. Per otto mesi la mia vita fu nelle mani del sultano Yusuf Salh al-Din bin Ayyub». E in questo lungo periodo Saladino racconterà il suo lato privato unitamente a quello pubblico: giorno dopo giorno descriverà un pezzo della sua vita, a cominciare dall’infanzia vissuta all’ombra del padre di cui il Saladino così ricorda le doti di politico alla corte di Damasco: «Mio padre sapeva indossare una maschera, quando lo riteneva necessario. Era un grande cortigiano, nle senso che ascoltava sempre attentamente e parlava molto poco… Le azioni di mio padre non erano motivate solo dai bisogni della sua famiglia, e le guerre fra credenti gli ripugnavano veramente».
Il racconto prosegue tra vicende pubbliche e private, tra l’iniziazione ai piaceri della carne, ai doveri di guerriero, anche se Saladino dimostrò sempre di avere una propensione per lo studio e la filosofia piuttosto che per l’arte della guerra. Naturalmente erano tempi bellicosi che non lasciavano spazio eccessivo alla diplomazia e alle scelte poco chiare. Le vicende personali del Saladino si mischiano a quelle pubbliche in un vortice inesorabile che lo porteranno a vivere drammi personali quali il massacro dei propri familiari ad opera dei franchi che si prepareranno a riprendere Gerusalemme: «Mi sedetti sul pavimento a fissare il muro e per un’ora almeno non mi riuscì di piangere... Non cercai neanche di dormire. Andai a camminare sugli spalti dalle mura guardando l’incessante movimento delle stelle e versando lacrime silenziose. Provavo rabbia e rancore, volevo vendetta. Avrei voluto bruciare i cavalieri franchi a fuoco lento e guardare ridendo la loro agonia».
La vicenda del Saladino si conclude con l’arrivo di Riccardo Cuor di leone, il plantageneto, con il quale tra l’altro, nonostante la sconfitta subita, intercorse sempre un rapporto di stima e di rispetto reciproci. Il Saladino morì due anni dopo la partenza del plantageneto dalla Terra Santa, esattamente nel 1193 dopo aver governato un territorio che andava dall’Eufrate, alla Terra Santa e toccando il Sudan. Il regno andò così diviso fra i figli perdendo la sua unitarietà, ma non l’eredità spirituale lasciata dal Saladino soprattutto nelle sue parole pronunciate durante le trattative con Riccardo Cuor di Leone che sembrano quanto mai d’attualità: «Io sono nel mio paese, con la mia gente, la mia famiglia, qui ci passeremo l’inverno e poi l’estate, poi un altro inverno, poi un’altra estate. Non ho la tua fretta di tornare in mezzo ai piaceri e soffri perché ti mancano; questa è la debolezza degli occidentali, se tutti gli invasori si comporteranno come te, Saladino e la sua gente possono stare tranquilli, prima o poi, il paese che a te e ai tuoi amici sembra inospitale, ma che io e la mia gente amiamo, si sbarazzerà di gente come te, perché combatteremo sempre».
Ippolito Edmondo Ferrario, classe 1976, vive e sopravvive a Milano, dove si diletta a fare il mercante d'arte. Giornalista e scrittore, ha pubblicato numerosi libri dedicati a Triora, il famoso paese delle streghe, di cui è cittadino onorario, i noir Il pietrificatore di Triora col quale ha dato vita al detective Leonardo Fiorentini, suo alter ego, e Il collezionista di Apricale... e le stelle grondano sangue (rispettivamente Fratelli Frilli Editori, 2006 e 2007). Di recente uscita, per Mursia, Milano sotterranea e segreta con Gianluca Padovan.
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