Articolo di Luciano Lanna
Dal Secolo d'Italia di mercoledì 21 maggio 2008
Finalmente un libro scritto da un giornalista che ricostruisce i primi sei anni della destra italiana postfascista meglio di tanti saggi politologici o di tanta memorialistica spesso autoreferenziale. A firmarlo è Antonio Carioti, redattore culturale del Corriere della Sera che aveva esordito alla Voce repubblicana ed è autore di diversi saggi di storia politica contemporanea. Quest’ultima sua fatica – Gli orfani di Salò. Il “Sessantotto nero” dei giovani neofascisti nel dopoguerra: 1945-1951 (Mursia, pp. 292, euro 17) – è il risultato di una ricerca che prende le mosse da una relazione sui giovani missini nell’immediato dopoguerra per un convegno del ’97 ma che coinvolge Carioti sin da quando – nella seconda metà degli anni ’70 – da adolescente si era spesso domandato: come si fa a essere ancora fascisti?
«Me lo sono chiesto spesso – annota nell’introduzione – nella mia adolescenza di ragazzo appassionato di politica e storia. Per quanto provenissi da una famiglia di sentimenti conservatori, in cui nel ramo paterno non mancavano gli elettori della Fiamma, e avessi subito per qualche tempo, intorno ai 10-12 anni, il fascino delle brillanti apparizioni televisive di Giorgio Almirante, già al ginnasio mi ero orientato verso la democrazia laica antifascista…».
Ma, nonostante questa scelta, Carioti è sempre stato refrattario agli stereotipi e all’immagine unilaterale del fascismo forniti dai suoi più fieri avversari e dal clima dell’antifascismo militante: «Le visioni metafisiche non mi hanno mai convinto e ho sempre pensato che il bene e il male si trovino ovunque, non siano monopolio di nessuno». Ci doveva essere, questa la sua intuizione, una spiegazione storica plausibile del fascismo e della sua sopravvivenza nell’Italia repubblicana. Ecco, allora, la scoperta degli studi di De Felice, Settembrini, Del Noce che riuscirono a dimostrargli addirittura le sorprendenti assonanze tra il fermento culturale in cui nacque il fascismo e le correnti culturali dell’azionismo, la corrente culturale di riferimento dello stesso Carioti.
Poi ci fu l’imbattersi nei primi anni ’80 in Marco Tarchi e negli altri animatori della Nuova destra, la scoperta della libreria Europa di Enzo Cipriano, l’approfondimento giornalistico del passaggio dal Msi ad An. «Mi accorsi allora – confessa Carioti – che la gioventù neofascista, tra la fine della guerra e gli anni Cinquanta, era stata una realtà importante. Sia all’interno del Msi, dove aveva costituito contemporaneamente l’avanguardia attivistica e la coscienza critica del partito. Sia all’esterno, dove aveva esercitato una vasta influenza sull’ambiente studentesco, nelle università e soprattutto nelle scuole, richiamando l’attenzione degli avversari irriducibili come dei potenziali alleati». In quegli anni, infatti, quando si parla del Msi l’interesse giornalistico era rivolto prioritariamente al “fattore giovani”, vero tratto specifico di tutto quel fermento. Un tratto che secondo Carioti è la chiave stessa dell’identità profonda di tutta la destra italiana postbellica: «Se il Msi ha potuto affermarsi e sopravvivere per tutto l’arco della Prima Repubblica, se non si è mai dissolto come le formazioni monarchiche, se non si è mai ridotto a un semplice serbatoio di “voti democristiani in libera uscita” (come disse Giulio Andreotti), è anche perché intorno ad esso si sono aggregate sin dall’inizio cospicue energie giovanili, capaci di battersi nelle piazze come di produrre e diffondere idee».
È grazie a loro che la destra postfascista non è mai apparsa come un soggetto residuale «destinato a un riassorbimento più o meno rapido», ma un fenomeno durevole, «dotato di risorse politiche consistenti». E su questa constatazione l’autore definisce la sua interpretazione che, sostanzialmente, confuta la tesi di Giuseppe Parlato sulle origini del Msi, secondo cui il partito della Fiamma era «una forza dotata di grandi potenzialità per un’espansione in chiave anticomunista, conservatrice e atlantica, ma impossibilitata a sfruttarle per l’atteggiamento reducistico e ideologico della sua base militante». Secondo Carioti, invece, per il Msi «è stato fondamentale poter contare su risorse identitarie specifiche, legate al lascito fascista e non riducibili a un generico conservatorismo», In caso contrario, infatti, avrebbe seguito la stessa parabola discendente e lo scuotamento sistematico operato dalla Dc nei riguardi degli altri soggetti operanti alla propria destra. E se il Msi è apparso sin dall’origine come una realtà irriducibile sia alle estreme destre populiste che ai conservatorismi lo si deve proprio – è questa è la tesi che il libro dimostra documenti e testimonianze alla mano – alla sua capacità di rappresentanza delle giovani generazioni. Poco dopo la fine della guerra irruppe infatti nelle scuole italiane, nelle università e nelle piazze una presenza rumorosa e inaspettata, paragonabile al giovanilismo degli anni dell’interventismo: migliaia e migliaia di giovani che riprendono alcune intuizioni del fascismo e ne cantano gli inni, guidando alle più affollate manifestazioni studentesche dell’epoca. Molti sono giovanissimni reduci della Rsi, altri non hanno fatto in tempo a parteciparvi, ma tutti vivono quell’epopea come un mito generazionale. Rifiutano l’Italia in mano a una vecchia classe dirigente, ma spesso rifiutano lo stesso nostalgismo dei dirigenti del Msi per la loro linea attaticistica e compromissoria. Non si limitano a lottare nelle piazze, ma studiano, discutono, pubblicano e animano interessanti riviste, trovano maestri come i pensatori spiritualisti Massimo Scaligero e Julius Evola, si confrontano con i loro coetani che hanno scelto il Psi e il Pci.
Carioti parla di un vero e proprio “Sessantotto nero”, una sorta di contestazione anticipata, che lascerà il segno in tutta la vicenda della successiva destra italiana: «Le prime grandi manifestazioni studentesche, nell’Italia posbellica, sono egemonizzate dai ragazzi del Msi e anche le occupazioni delle sedi universitarie, per protestare contro i pochi appelli d’esame e le troppe tasse, li vedono quasi sempre protagonisti». Un Sessantotto anticipato con i suoi miti, le sue intemperanze, i suoi strappi, le sue eresie, i suoi libri sacri. E non si tratta, si legge ne Gli orfani di Salò, di «un ribellismo cieco e fine a se stesso: al contrario, esso si nutre di un’elaborazione intellettuale intensa». Un’elaborazione rappresentata da tanti filoni, tra cui la riflessione evoliana: «Basti pensare – sottolinea Carioti – al pensiero di Julius Evola, che perfino Almirante, pure da lui molto distante, definì “il nostro Marcuse”. Solo che Evola era già un faro, per i giovani del Msi quando Herbert Marcuse doveva ancora scrivere Eros e civiltà. A conferma del fatto che il “Sessantotto nero” è venuto prima». Di quella ribellione di adolescenti e giovanissimi Carioti racconta tutto e le pagine scorrono piene zeppe di episodi, nomi, sorprese. E di testimonianze di alcuni di quei giovani di allora. L’autore ha infatti fatto parlare delle proprie esperienze giovanili tanti di quei protagonisti: da Giano Accame e Fausto Gianfranceschi a Gino Agnese e Giulio Caradonna, da Fabio De Felice e Gianfranco Finaldi a Pino Rauti e Giampaolo Martelli, da Piero Vivarelli e Roberto Melchionda a Piero Palumbo e Bruno Delisi, Sino a Massimo Anderson, Sergio Gozzoli, Piero Palumbo, Gaetano Rasi, Gigi Speroni, Piero Vassallo, Nando Ventra, Primo Siena…
Il pensiero più riconoscente Carioti lo riserva a Enzo Erra, «non solo – scrive – per la cortesia che ha usato ma anche per avermi mostrato concretamente, con il suo coraggio di fronte alla malattia, che lo spirito è più forte della materia». E nelle sue 292 dense pagine l’autore racconta di una contestazione giovanile che sinora nessuno aveva tolto dalle memorie private. Una contestazione che inizia già prima della fondazione dello stesso Msi: «Poco dopo le 11 di sera del 30 aprile 1946 – riferisce Carioti – nelle orecchie degli ascoltatori radiofonici di Roma risuonano le note inconfondibili di Giovinezza. Hanno messo in onda il disco alcuni giovani dalla stazione radio di Monte Mario, di cui hanno preso possesso armi alla mano, dopo aver legato e imbavagliato i due tecnici presenti…».
Un blitz goliardico che verrà ripetuto anche in altre città. Il 10 ottobre 1947, invece, il leader missino Giorgio Almirante realizza un capolavoro che dimostra come lui avesse capito «meglio e prima» di tutti i suoi camerati – lo ammetterà Pino Romualdi l’altro leader di tutto quel fermento – «che modernamente la politica è soprattutto spettacolo». Si tratta di una grande manifestazione a piazza Colonna, nei pressi di Montecitorio, per il comizio di chiusura della campagna elettorale per le amministrative. I deputati comunisti Giorgio Amendola e Giancarlo Pajetta cercano di far sciogliere il comizio, si precipitano nell’aula della Costituente che lì davanti i fascisti inneggiano a Mussolini. Viene poi dato l’ordine di sgombare e iniziano tafferugli con la polizia che ricorano molto la successiva battaglia di Valle Giulia del ’68.
Nell’aprile del ’49 c’è anche il primo caduto di questa stagione: viene trovato a Roma colpito alla nuca Achille Billi, militante dei giovani missini. Al suo funerale, l’8 aprile, quando la bara esce dalla chiesa migliaia di ragazzi alzano il braccio nel saluto romano: «la scena viene immortalata dai fotografi presenti e una delle istantanee scattate al Verano finisce un mese dopo sulla prestigiosa rivista americana Life, come “immagine della settimana”».
Qualche mese dopo, il 29 ottobre, cade anche il primo militante missino ucciso dalla polizia: è il giovane bracciante Francesco Nigro, colpito a morte durante un moto di occupazione delle terre incolte a Melissa, in Calabria. E poi i grandi successi nelle università: nel ’50 a Perugia il gruppo D’Annunzio si aggiudica il primo posto alle elezioni d’ateneo con 24 seggi su 64. A Napoli, nel ’49, gli universitari missini conducono addirittura un’agitazione congiunta insieme ai colleghi di sinistra che porta a tre giorni consecutivi di scontri con la Celere. E qui due parlamentari, il missino Roberto Mieville e il comunista Silvano Montanari dovranno intervenire a favore degli studenti malmenati.
Nello stesso anno, in un congresso giovanile al Foro Italico, «tra i ragazzi della Fiamma circola l’idea di compiere a Trieste una nuova impresa di Fiume, magari con il comandante della Decima Mas al posto di Gabriele D’Annunzio». E c’è chi come Egidio Sterpa, allora giovanissimo dirigente missino poi approdato al giornalismo su posizioni liberali, arriva a sfidare a duello Giuseppe Saragat, reo di aver diffamato la memoria di Ettore Muti. Sono sei anni vissuti davvero intensamente e peri colosamente per i giovani missini quelli raccontati da Carioti, «un capitolo rilevante della nostra vicenda nazionale». E si colloca al loro interno – è la tesi dell’autore – il cuore della “questione” postfascista: «Un pieno allineamento sulle posizioni della destra atlantica, clericale e conservatrice, con l’anticomunismo come unico criterio di orientamento essenziale, ridurrebbe il Msi a subalterno portatore d’acqua di un composito schieramento d’ordine diluendone l’identità fino ad annullarla». Non a caso, annota Carioti, quei giovani si sono impegnati fino allo stremo «a distaccare la Fiamma dalle posizioni puramente nostalgiche». E nel conflitto tra questa esigenza e le necessità di politica si individuano sin d’allora «i germi di un conflitto che andrà manifestandosi in modo crescente, fino ad avere conseguenze traumatiche a metà degli anni Cinquanta». Allora le ragioni di un certo realismo prenderanno il sopravvento su quelle della vocazione alla rottura e una parte di quella generazione si avvierà per una diaspora giornalistica e culturale. Ma quel conflitto, quell’identità irrisolta, lacererà il Msi fino alla fine senza mai sparire. «Continuerà a covare sotterraneamente – conclude Carioti – e a tornare di volta in volta alla luce, come un fiume carsico, per tutto l’arco della vicenda storica di quel partito. Fino alla metamorfosi di Fiuggi. E forse anche oltre».
Luciano Lanna, laureato in filosofia, giornalista professionista dal 1992 e scrittore (autore, con Filippo Rossi, del saggio dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra, Vallecchi 2004), oltre ad aver lavorato in quotidiani e riviste, si è occupato di comunicazione politica e ha collaborato con trasmissioni radiofoniche e televisive della Rai. Già caporedattore del bimestrale di cultura politica Ideazione e vice direttore del quotidiano L'Indipendente, è direttore responsabile del Secolo d'Italia.
Luciano Lanna, laureato in filosofia, giornalista professionista dal 1992 e scrittore (autore, con Filippo Rossi, del saggio dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra, Vallecchi 2004), oltre ad aver lavorato in quotidiani e riviste, si è occupato di comunicazione politica e ha collaborato con trasmissioni radiofoniche e televisive della Rai. Già caporedattore del bimestrale di cultura politica Ideazione e vice direttore del quotidiano L'Indipendente, è direttore responsabile del Secolo d'Italia.
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