Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 25 maggio 2008
Elliott Murphy? Mai sentito. La reazione più probabile è questa, a meno di non avere a che fare con appassionati così attenti da arrivare per conto loro, con determinazione da esploratori, e con entusiasmo da innamorati, là dove i grandi media non conducono mai. Elliott Murphy – che pure è nato nel 1949 a New York (1949: lo stesso anno di Springsteen...) e che in tutto questo tempo ha realizzato più di trenta album, costellati di belle cose che non di rado diventano ottime e, talvolta, addirittura eccellenti – non lo si trova accendendo semplicemente la radio e sintonizzandosi sui network principali.
Ovvio. Primo, non ha mai scalato le hit parade con un singolo di travolgente successo, di quelli che dilagano a macchia d’olio e si installano (si insinuano) stabilmente nell’immaginario collettivo. Secondo, già alla fine degli anni Settanta l’ha fatta finita con le major e si è messo in proprio: al diavolo la Polydor, con cui aveva esordito nel 1973 con Aquashow; al diavolo la RCA, pronta ad accoglierlo dopo che le prime canzoni gli avevano attirato l’etichetta, ricorrente e per lo più infausta, di “nuovo Dylan”, ma altrettanto pronta a scaricarlo dopo appena due long playing, a causa delle vendite limitate sia di Lost Generation che di Night Lights; e al diavolo anche, e soprattutto, la Columbia, che non fece nemmeno finta di mettere al primo posto la qualità artistica di Just A Story From America.
«Al tempo la Columbia non era ancora rientrata di tutte le spese per Dylan ed era bloccata per Springsteen. Su di me mette mezzo milione di fottuti dollari, mi circonda come una rock star e pretende un best seller. Niente di ciò che interessa a me, ovvero un buon album con un piccolo budget e una libertà di azione. No, niente di tutto ciò: a loro interessa solo il “number one”, come Hollywood.»
Via con l’avventura di un’etichetta tutta sua, allora. Via con la neonata Courtisane, difficile da promuovere e costretta a fare tutto da sola, costretta a inventarsi la propria sopravvivenza album dopo album, ma affrancata una volta per tutte dalle pressioni del management e dalle lusinghe a doppio taglio del marketing. Dal ricatto, anche solo implicito, dell’investimento (e della cordialità) salvo-buon-fine. “Ti abbiamo finanziato noi, grandeartista: vedi di non farcene pentire”.
Quattro anni di assenza, dopo Just A Story From America. Un percorso da ricominciare. L’occasione di rimettere le cose nella giusta prospettiva. Di fare ordine, e pulizia, nella scala delle priorità. Il successo che torna a essere, giustamente, non una ragione di vita ma un’eventualità fortunata da sognare solo di tanto in tanto. Contemplandola, per tutto il resto del tempo, con un filo di distacco.
Quando riprende a incidere, nel 1980, Murphy dà la sensazione che la pausa gli abbia fatto bene. E che, d’ora in avanti, non ci sarà più nulla ad allontanarlo dalla sua vera ispirazione: dalla sua musica che conosce altrettanto bene il respiro concitato del rock e quello profondo delle ballate, che sa come contrarsi in un ritmo incalzante che ti trascina e come distendersi in una melodia seducente, che ti avvolge per sempre. Dalle sue storie di uomini e donne in bilico tra lo slancio dei giovani e il cinismo degli adulti, tra l’amore che unisce e la passione, delusa, che divide. Che incattivisce. Che fa a pezzi le speranze e ribalta ogni singola aspettativa in un ulteriore addebito, a carico di quel maledetto partner che ha promesso così tanto e mantenuto così poco.
Da allora in poi, com’è del tutto naturale, si avvicenderanno prove memorabili e lavori meno riusciti, ma non si avrà mai l’impressione che si tratti solo di routine. E quando lui stesso tirerà le somme, molto tempo dopo, lo farà con un realismo che non ha nulla di amaro e che, al contrario, è illuminato dalla convinzione di aver agito per il meglio.
«Thirty Was A Long Time Ago (un brano contenuto in Rainy Season, uscito nel 2000 - NdR) è una canzone sul sogno del rock’n’roll che avevo quando ho iniziato e sulla consapevolezza che, a questo punto della mia vita, non potrò più diventare il nuovo Elvis Presley. Tutto ciò che sognavo, gloria, celebrità, ricchezza, è stato frustrato da quanto è successo in questi venticinque anni. Ma mi è rimasto l’amore e passione per la musica, e anche per lo stile di vita. Se non sono in auto a guidare per ore mi sento inutile, come se fossi morto. E ora è troppo tardi per tornare indietro.»
Ora, a poco meno di vent’anni dal trasferimento iniziale, Elliott vive in Francia. Sua moglie si chiama Françoise (!), suo figlio Gaspard, il suo principale collaboratore è il chitarrista Olivier Durand, e la band che lo accompagna oggi – anche nel nuovo album, questo straordinario Notes From The Underground – si fregia di un reboante, ironico, orgoglioso, The Normandy All Stars. Il resto viene di conseguenza. Il raggio d’azione, per la vendita dei dischi e per il centinaio di concerti che si succedono ogni anno, copre la stessa Francia e svariati altri Paesi europei, Italia compresa. Il seguito di pubblico è consolidato, nel suo piccolo, e gli estimatori ritornano volentieri, perché il talento continua a dare frutto e perché lui e i suoi, sul palco, sono di quelli che suonano più per passione che per contratto.
«Credo di avere l’anima dell’espatriato, che si sente più a casa quando non è a casa. Credo anche che gli europei siano più interessati alla cultura americana di quanto non lo siano gli stessi americani. Jazz, blues, cinema sono più amati e rispettati dagli europei. A Parigi puoi vedere un film di John Cassavetes ogni sera, a New York no. Mi sento bene, qui.»
Così, a 35 anni dall’ormai lontanissimo Aquashow, il bilancio va ben al di là dei numeri e autorizza, a piacere, un lungo sorriso o un rapido sguardo d’intesa. E’ restata la voglia di imbracciare la chitarra. La voglia di cercare una cascata di accordi, che a poco a poco si raccoglie in una canzone nella quale specchiarsi. E si è aggiunta la soddisfazione di sapere che, quando qualcuno dice «Elliott Murphy? Ma certo che lo conosco», ti conosce davvero.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000. Prima su “Ideazione.com”, poi sui quotidiani “Linea”, di cui è stato caporedattore fino al maggio scorso, e “Secolo d’Italia”.
2 commenti:
«Credo anche che gli europei siano più interessati alla cultura americana di quanto non lo siano gli stessi americani. Jazz, blues, cinema sono più amati e rispettati dagli europei. A Parigi puoi vedere un film di John Cassavetes ogni sera, a New York no.»
Parole sante! Negli States si sono soprattutto prodotti degli ottimi film, ad esempio, ma la stagione dei Coppola e dei Cassavetes è tramontata. Ora ci arriva solo della robaccia. Qualcosa di meglio c'è nei telefilm, ma anche in questo caso bisogna saper discriminare.
Anche musicalmente, in Italia ultimamente si fanno delle cose buone: non sempre mi piacciono, però non posso negare la qualità di un album come "i milanesi ammazzano il sabato" degli Afterhours. Il jazz italiano, poi, è ai vertici.
Da dylaniano sfegatato non dico di non conoscere Elliot Murphy, ma un suo album non l'ho mai sentito. Per rimediare a questo peccato, sono già andato su Amule (nessun errore, è il programma alternativo a Emule - per Mac) :-)
Io, invece, proprio non lo conoscevo. Grazie a Federico, colmerò l'ennesima lacuna. :)
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