martedì 20 maggio 2008

«Ma quali barbari... chi vince governa». E De Gregori manda Croce in soffitta (di Luciano Lanna)

Articolo di Luciano Lanna
Dal Secolo d'Italia di martedì 20 maggio 2008
È davvero caduto l’ultimo muro. Il combinato disposto del risultato elettorale del 13 aprile e del “cambio” al Campidoglio hanno rappresentato l’atto finale della transizione italiana. Per rendersene conto appieno basta saper leggere e interpretare la piena accettazione dei nuovi equilibri politici da parte di quel ceto medio creativo- intellettuale che, sino a poco tempo fa, registrava lo stato d’animo di guerra civile morbida che perdurava nella società e nell’immaginario profondo dell’Italia. Ricordate, solo quattordici anni fa, chi parlava di nuovi barbari, chi minacciava di voler fare le valigie e andare all’estero, chi disprezzava i nuovi arrivati come “impresentabili”? Il cliché era sempre lo stesso, modulato sul disprezzo per l’Italia alle vongole espresso negli anni Cinquanta dagli azionisti e sul paragone formulato da Benedetto Croce negli anni Venti tra i vincitori di allora e l’invasione dell’antico Egitto da parte degli Hyksos. E, a lungo, alla metafora della “parentesi storica” ha sempre fatto riferimento la tradizione interpretativa crociana. Ecco, invece, che adesso il ceto intellettuale ha definitivamente mandato in archivio i riflessi condizionati di derivazione azionista e crociana.
«Non temo l’arrivo dei barbari», ha ad esempio dichiarato a Repubblica il cantautore Francesco De Gregori. «Non possiamo pensare – ha aggiunto – che ci governino sempre quelli che ci sono simpatici... Mi piace l’idea del dialogo sulle riforme. Spero nella condivisione... Non ho mai amato l’antiberlusconismo “a prescindere” della sinistra, un atteggiamento che chiudeva così la porta a qualsiasi altra analisi». E bocciando questa pregiudiziale, frutto di una visione della politica basata sulla demonizzazione dell’avversario, il cantautore romano aggiunge di ritenere del resto superate le stesse categorie di destra e sinistra – «è una contrapposizione ormai vecchia» – e invita a guardare alle emergenze reali: «Siamo un paese triste, arretrato e incattivito che ha bisogno di essere modernizzato in fretta. Dandosi allegria, rigore, giustizia sociale...». Un invito, appunto, al dialogo fondato sulle premesse di un’Italia normale e condivisa: «Non mi sono mai fatto una canna, né l’ho mai cantata. Sono stato e resto contrario alle droghe. è ciò che ho cercato di insegnare ai miei figli...».
È la presa d’atto di un nuovo clima, quella di De Gregori, che gli fa esplicitamente ammettere: «Ho apprezzato il discorso di Berlusconi per il 25 aprile e il discorso di Fini il giorno dell’insediamento alla Camera». La stessa sensazione viene confessata, lo stesso giorno, sul Corriere della Sera anche da Adriano Celentano: «Il discorso e i toni di Silvio in Parlamento mi sono piaciuti... Era bello vedere il nuovo modo di Berlusconi e il silenzio attento di una sinistra pronta a captare ogni minima innovazione da qualunque parte provenisse». E, ammettendo che «il buongiorno si vede dal mattino», Celentano confessa anche la sua invidia per «la simpatica dialettica di Fini», del quale ammette di non avere dubbi che guiderà Montecitorio «nel migliore dei modi».
A lui si affianca la regista Liliana Cavani, ex consigliere Rai in quota centrosinistra e che mai ha votato a destra. «Sto con Celentano», dice. E aggiunge: «Non si può perdere il tempo solo a litigare. Bisogna superare i sospetti. Loro li devono superare nei nostri confronti. E noi verso di loro». Anche per la regista di Al di là del bene e del male e de Il portiere di notte il dialogo sulla base di un tessuto comune è ormai «un dovere». E recupera un esempio precedente alla deriva conflittuale degli anni ’70. Nel novembre ’66 quando a Firenze ci fu l’alluvione arrivarono infatti giovani da tutta Italia, i primi beats, i freaks e tanti altri a sostituirsi all’inerzia dei pubblici poteri: grande fu il loro contributo sia nell’aiuto alla cittadinanza sia nel salvataggio di libri e di opere d’arte. Fu l’epopea dei cosiddetti “angeli del fango”, una vera prova del nove della possibilità di dialogo generazionale tra giovani. C’erano tutti, arrivati a Firenze in pullman o in autostop: beat e “fascisti”, goliardi e capelloni, cattolici del dissenso e laici libertari, iscritti al Pci o alla Giovane Italia... «Partirono tutti, senza distintivi», dice la Cavani: «Di fronte all’emergenza si va tutti insieme... ». La metafora e il precedente sono efficaci, si ricomincia da lì oltre quarant’anni dopo?
A vedere tante altre prese di posizione di questi giorni si potrebbe senz’altro avanzare qualche apertura di credito. Quasi nessuno si trincera nell’ultima ridotta dei “migliori” contrapposti agli “impresentabili” al governo. Anzi. L’archeologo Andrea Carandini, che ha collaborato con Francesco Rutelli e che si colloca nell’area del Pd, ha dichiarato al Foglio di essere pronto a collaborare con la giunta Alemanno. E al Messaggero ha rilanciato: «Mi metto a disposizione, per il bene della città... Anche durante l’assedio gallico a Roma tutti indistintamente si faceva fronte alle necessità primarie. Nel nostro caso, però, non vedo nessun assedio...».
Nessun assedio dei barbari, insomma, né al governo né nella Capitale. È così anche per lo scrittore Marco Lodoli, che lo scorso anno si era candidato nelle primarie del Partito democratico. E che così parla, nella sua rubrica “Isole” su Repubblica, del neosindaco Alemanno: «Se riuscirà a liberare la Salaria dal triste mercato delle prostitute-adolescenti, se renderà le nostre case più sicure, se arginerà quella manovalanza del crimine che spesso sale da Napoli per strappare i Rolex dai polsi degli automobilisti, se saprà contenere il disperato accattonaggio dei bambini zingari ai semafori e lo spaventoso spaccio di cocaina, credo che tutta la cittadinanza gli sarà grata». Per il resto, Lodoli si limita a invitare la nuova giunta capitolina a non demonizzare i centri sociali e a considerarne il ruolo di animazione in alcune periferie. Un suggerimento personale ma tutto nel senso dell’apertura e della disponibilità al dialogo. Cantautori, musicisti, registi, archeologi, scrittori. Si tratta di quel ceto medio creativo che era stato sempre ostile “a prescindere” alla destra o che, per vederla da un altro punto di vista, solo la sinistra era riuscita ad attrarre e convincere. È stata anche questa, per decenni, l’annosa questione dell’egemonia, l’antica anomalia italiana che nasceva dalla scelta della Dc di puntare all’occupazione delle istituzioni, delle banche e dell’industria e di lasciare alle sinistra la rappresentanza dei ceti legati alla cultura e all’immaginario. Adesso tutto questo è saltato, definitivamente. E solo adesso siamo entrando nel clima di un vero paese normale. Dove non ci sono pregiudiziali antropologiche sulla presentabilità sociale o meno di una parte o dell’altra. Chi vince le elezioni è democraticamente legittimato a governare o amministrare.
Certo, gli irriducibili ci sono ancora, ma sono ormai minoranza. Come Michele Serra che disprezza, ad esempio, la categoria dei tassisti, considerando il loro servizio «un megafono dei più turpi malumori». Tanto che confessa a un lettore del Venerdì di Repubblica: «Tra quello che vorrebbe sparare agli zingari e quello che vorrebbe che le donne non guidassero e stessero a casa a cucinare, ho accumulato abbastanza malinconia...». È la stessa sensazione, animata da sterotipi e generalizzazioni ideologiche, che esprime l’ultimo degli irriducibili, Nanni Moretti. Per il quale «le differenze tra le due coalizioni restano». E, lascia intendere, sono di natura antropologica: «Parlando – dice – di questa destra italiana, dal punto di vista politico, culturale, morale, parole da scrivere tra molte virgolette, è difficile che possa cambiare qualcosa». Serra, Moretti e qualcun altro: gli ultimi irriducibili nostalgici di un azionismo ormai sconfitto dagli eventi. Del resto, è stato proprio Moretti a rivendicare la sua vocazione minoritaria. «Io anche in una società più decente di questa mi troverà sempre con una minoranza di persone», affermò in Caro diario. L’Italia maggioritaria gli sta definitivamente voltando le spalle.
Luciano Lanna, laureato in filosofia, giornalista professionista dal 1992 e scrittore (autore, con Filippo Rossi, del saggio dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra, Vallecchi 2004), oltre ad aver lavorato in quotidiani e riviste, si è occupato di comunicazione politica e ha collaborato con trasmissioni radiofoniche e televisive della Rai. Già caporedattore del bimestrale di cultura politica Ideazione e vice direttore del quotidiano L'Indipendente, è direttore responsabile del Secolo d'Italia.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Io non sono certo un azionista, ma devo dire che i leghisti al governo non mi piacciono un granché. E neppure gradisco l'inserimento del reato di "clandestinità".

Sentire Calderoli che elogia le badanti perché "svolgono un ruolo sociale" si equipara a Bettin che esaltava l'immigrazione perché agli imprenditori del Nord Est servono dei lavoratori. Almeno finché non decidevano di spostarsi all'Est estremo, gli imprenditori (l'Unione Europea a questi signori qualche problema l'ha generato, adesso che anche la Romania e nell'abbraccio).
Alla fine è sempre l'ideolgia del profitto a prevalere, sia per la retorica immigrazionista che per quella antiimmigrazionista.

Ci sono dei principi su cui non transigo, che vengano da destra o da sinistra. Personalmente continuerò ad oppormi, democraticamente: dalla retorica sulle Grandi Opere (sono un NO TAV convinto), alla demagogia sugli onesti e sui disonesti. Alla fine Olindo e Rosa, per le loro convinzioni, potrebbero passare pure per onesti, con la loro casetta e l'ordine ossessivo. Ma sono pur sempre degli assassini.

Anonimo ha detto...

E aggiungo: stasera, al Tg3, Borghezio si è pure inventato l'Internazionale Socialista per criticare le critiche europee alla politica anti ROM dei veltrusconisti.
Mi sa che i fantasmi non si placano, da una parte come dall'altra.

Se in Italia ci fossero una sinistra normale e una destra normali, persino liberali, potrei anche pensarla come De Gregori e semmai tenermi le idee neosintetiche.
Ma credo che il percorso sia ancora lungo, e il mio desiderio di emigrare è sempre più forte.