Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 4 maggio 2008
Lo si poteva immaginare già a suo tempo: dalle ceneri dei Litfiba – gruppo mutevole nello stile e altalenante nei risultati, ma sorretto a lungo da una determinazione caparbia e a suo modo sincera – non sarebbe risorto nessuno. Né Piero Pelù, il cantante carismatico e spettacolare, né Ghigo Renzulli, il chitarrista decisivo nel plasmare il suono della band ma privo di qualsiasi appeal estetico: e perciò condannato, suo malgrado, a restarsene in secondo piano, completamente offuscato dall’impatto straripante del suo socio, d’arte, e rivale, d’immagine.
Messi insieme si integravano a vicenda, costringendosi l’un l’altro a uscire dal circuito chiuso delle preferenze individuali. Come nei cocktail alcolici, una bella dose di Pelù, o di Renzulli, era quello che ci voleva per aggiungere sapore e personalità alla mistura finale; da soli, invece, il cocktail smette di essere un cocktail: esclusivo fa rima con eccessivo; e a meno che non si voglia solo prendere una sbornia...
A nove anni di distanza dalla separazione, avvenuta in malo modo e sfociata in una vera e propria contesa sulla titolarità del nome della band (con vittoria legale di Renzulli), il bilancio è inequivocabile. E modesto. La tensione creativa che fu dei Litfiba è andata perduta, cedendo il posto ad album che in ogni caso restano troppo prevedibili per risultare davvero interessanti. Davvero coinvolgenti.
Specialmente Pelù, che da solista si è visto costretto a trovarsi da sé anche la musica, ha sbandato vistosamente, e fatalmente, verso l’intrattenimento fine a se stesso. Nel tentativo di produrre brani di forte impatto, ha confuso la seduzione immediata del grande rock con l’orecchiabilità ammiccante, e insinuante, del pop di più vasto consumo. Brani come Io ci sarò o, soprattutto, Amore immaginato, sono roba da Festivalbar, indegna di un artista che ci aveva abituati a ben altra intensità e che, ancora pochi anni fa, affermava di avere il proprio rocker di riferimento in Iggy Pop.
La differenza, ancora prima che negli esiti, risiede nell’approccio. E l’approccio peggiore, naturalmente, è quello di fare della musica un mestiere a oltranza, che deve andare avanti comunque e che antepone il successo di vendita a qualsiasi altro criterio. Mentre i migliori sono spietati innanzitutto con se stessi, e sanno sempre distinguere tra confezione e sostanza, gli altri si accontentano. Si concentrano sull’allestimento e, a forza di lavorarci, si scordano dell’abisso che separa l’ispirazione autentica dalla semplice abilità. Ascoltano i missaggi finali e constatano, soddisfatti, che suonano bene: ma è come osservare dell’ottone lucidato e, solo perché brilla, illudersi che sia oro.
Prendete il nuovo disco, in particolare. Pelù lo ha presentato annunciando un ritorno al rock. «Un album essenziale dal punto di vista degli arrangiamenti. Ho scoperto dopo tanti anni che la formula del trio chitarra-basso-batteria mi permette di interpretare le canzoni come voglio, senza essere costretto a fare vocalizzi virtuosistici. Con tutto il rispetto dovuto a una band-mito, gli Who facevano la stessa cosa.»
Okay: gli Who. Ma quali? Quelli di Can’t Explain e My Generation, c’è da supporre. Quelli che allora, a metà degli anni Sessanta, avevano vent’anni o giù di là: e che sprigionavano energia allo stato puro senza alcun bisogno di pensarci. Senza alcun bisogno di volerlo. Gli Who che non passavano in rassegna diversi tipi di sound e, dopo attenta ponderazione, decidevano di essere più o meno essenziali. Più o meno “rock”. Gli Who, in quell’iniziale e splendido momento del loro percorso, facevano quel che facevano perché erano quel che erano. Ed era appunto questo, assai prima delle chitarre elettriche o della scansione ritmica, a iscriverli di diritto nella migliore tradizione del rock. Aristocrazia selvaggia e sfrenata, e persino autodistruttiva, ma nobilitata dalla sua stessa urgenza. Dalla sua stessa rabbia.
Pelù sembra non rendersene conto (il che, paradossalmente, potrebbe andare a suo merito, attestando che lo sbaglio resta artistico e che l’uomo, al contrario, è in perfetta buona fede) ma il problema è proprio quello di pensare all’album «dal punto di vista degli arrangiamenti». E alla band in termini di «formula». Un conto è essere consapevoli che ogni tipo di espressione assume una particolare forma; ben altro è stabilire a priori che quella forma dovrà attenersi a un orientamento rigidamente prefissato.
Come ha giustamente scritto Marinella Venegoni su La Stampa «l'urgenza comunicativa del buon Pelù, qui per lo più autore di testi e musiche, finisce per avere la meglio sulle ragioni artistiche. I testi si accavallano di concetti: e anche in concerto si respira quando viene fuori il vecchio Spirito libero, e bastano poche parole a lasciar immaginare un mondo che invece le nuove cose, infarcite di suoni, ti buttano addosso. Alla fine è nelle ballad, come Viaggio e Amor diablo, che l'artista riesce a dare il meglio».
La verità è tutta qui, in fondo. Pelù è un ottimo cantante, e un eccellente performer, ma come compositore non regge il confronto. Le sue intenzioni sono di gran lunga superiori alle sue capacità. E la parte migliore, infatti, sono i testi. E, prima ancora, il desiderio di esprimere concetti condivisibili. «Non c'è la volontà di approfondire le cose. Siamo arrivati al consumismo sfrenato. Come dico in Tutti fenomeni, il mio singolo, siamo tutti "passati dalla lotta alla lotteria". Non solo gli adolescenti ma anche molti adulti sono entrati nelle logiche perverse della televisione».
Insomma: Pelù ha ancora gli occhi buoni. E la maturità, anzi, lo rende più lucido di un tempo, quando l’ebbrezza della sua stessa gioventù lo risucchiava in un mondo di sensazioni fortissime ma di riflessioni ancora frammentarie. Oggi, a 46 anni compiuti, osserva la realtà e vede dove bisogna, dove bisognerebbe, colpire. Ma l’arco si tende a fatica, nonostante l’impegno. E il bersaglio, proprio perché è ambizioso, rimane troppo lontano. Rimane irraggiungibile.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000. Prima su “Ideazione.com”, poi sui quotidiani “Linea”, di cui è stato caporedattore fino al maggio scorso, e “Secolo d’Italia”.
5 commenti:
Io di musica capisco poco, e quindi non mi permetto di disquisire. Devo solo dire una cosa: lo scioglimento dei Litfiba fu il mio trauma adolescenziale. Comincia ad ascoltarli in quarta elementare, e la maestra mi diceva di non disegnare il cuore con le corna, perchè erano un simbolo satanico. Mia sorella in quinta elementare non volle portarmi al "Mondi sommersi TOUR" scatenando le mie più feroci polemiche. Riuscì due anni dopo a vedere l'ultimo tour dei Litifiba, quello di "Infinito" ma ormai erano deceduti. Arrivo sempre troppo tardi :)
Comunque grazie Piero e Ghigo di avermi fatto sognare :)
SIMONE
Piacevano molto anche a me. Come sempre ottimo pezzo di Federico! :)
Ottimo il pezzo di Federico, però a me i Litfiba non hanno mai convinto molto. Ascoltavo e apprezzavo le primissime cose, tipo 17 RE, tuttavia senza andarne matto.
Probabilmente è qualcosa che va al di là del loro indiscutibile talento. Il modo di cantare di Pelù, certe sue pose, l'esibita gorillaggine mi hanno sempre un po' infastidito.
Di certo è una di quelle band che ha dato molto al rock italiano, esplorandone le molteplici varianti.
Tempo fa io e un mio amico avevamo composto una parodia di "Il mio corpo che cambia", cantata dal famoso rapper "Tony Peloso" - famoso per gli album Epilady e Il Pelo nell'Uovo, inviso dalle femministe per il brano "Se hai mal di testa non è un problema mio".
Faceva più o meno:
E' IL MIO PORCO CHE CAMBIA
cos'è cos'è
questa sensazione
un pelo spunta mentre canto 'sta canzone
spunta la fuori
la luna piena
devo scappare se no vado in quarantena
è il mio porco che cambia
nella forma e nel colore
ma non nella
sostanzaaaa
e non cambia
e non cambia
e non cambia
e non cambiaaaa
Fear Of The Dark
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Traduzione di Fear Of The Dark
I am a man who walks alone
And when I'm walking a dark road
At night or strolling through the park
When the light begins to change
I sometimes feel a little strange
A little anxious when it's dark
Fear of the dark, fear of the dark
I have constant fear that something's
always near
Fear of the dark, fear of the dark
I have a phobia that someone's
always there
Have you run your fingers down
the wall
And have you felt your neck skin crawl
When you're searching for the light?
Sometimes when you're scared
to take a look
At the corner of the room
You've sensed that something's
watching you
Have you ever been alone at night
Thought you heard footsteps behind
And turned around and no one's there?
And as you quicken up your pace
You find it hard to look again
Because you're sure there's
someone there
Watching horror films the night before
Debating witches and folklores
The unknown troubles on your mind
Maybe your mind is playing tricks
You sense, and suddenly eyes fix
On dancing shadows from behind
Fear of the dark, fear of the dark
I have constant fear that something's
always near
Fear of the dark, fear of the dark
I have a phobia that someone's
always there
When I'm walking a dark road
I am a man who walks alone
Iron Maiden
http://testimania.leonardo.it/testi/testi_iron_maiden_155/testi_fear_of_the_dark_795/testo_fear_of_the_dark_8969.html
Giovanni
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