martedì 6 maggio 2008

Se Caputo ricomincia da tre (di Luciano Lanna)

Articolo di Luciano Lanna
Dal Secolo d'Italia di martedì 6 maggio 2008

«Sono i clichè che mi mandano in bestia: sul sesso, sulla cucina, sull’arte, sui vini, sugli uomini, sulle donne…». Ma anche sulla politica, sui rapporti, sul futuro del mondo, sul globalismo, sulle cose che devono essere così o colà… mi fanno incazzare le… opinioni troppo categoriche, la mancanza di flessibilità, di possibilismo…». È evidente la vocazione non-conformista, sia del protagonista del libro che dell’autore. E cominciamo dal personaggio di fantasia. Max Paesani, ex pop star di successo degli anni Ottanta si è ritirato da anni in California, torna in Italia ogni anno per una piccola tounée, e solo in quei giorni ridiventa quello di una volta: in jeans, giubbotto di pelle, Ray-Ban e la chitarra in mano.
L’autore non è da meno: Sergio Caputo, in questo suo primo romanzo – Disperatamente (e in ritardo cane), Mondadori, pp. 286, euro 15,50 – mescola del resto verità autobiografica e guizzi di fantasia per raccontare l’epopea di un personaggio che – come si legge sul risvolto di copertina – «gli assomiglia molto». E con questa riuscitissima prova narrativa il cantautore romano inaugura una sua terza fase, dopo quella dei successi swing degli anni Ottanta – Sabato italiano, Bimba se sapessi, Italiani mambo, Spicchio di luna, L’astronave… – e gli anni californiani da affermato musicista jazz. «Il peggio sembra essere passato» cantava Caputo già nel 1983 fotografando una situazione in cui, dopo gli anni dell’impegno a tutti i costi e a tutte le ore, arrivavano finalmente sabati qualunque e notti che, come dirigibili, iniziavano a portarci via lontano. Erano quelli gli anni di un «adorato popolo della notte che come me – scrive adesso il cantautore nel suo romanzo – cominciava a strisciare fuori dai suoi recessi sepolcrali intorno alle 23, per farvi ritorno solo un’attimo prima dell’alba. Una generazione incompresa di vampiri romantici che si mordevano esclusivamente fra loro e s’innamoravano gli uni degli altri giurandosi di non cambiare mai, solo per ritrovarsi, quasi trent’anni dopo, dispersi e inariditi in chissà quale pianeta della galassia, prigionieri come me nella vita di qualcun altro…».
Ecco, prima di qualsiasi altra cosa, Disperatamente (e in ritardo cane) è un omaggio appassionato alla generazione di chi oggi ha pressappoco 50 anni. «Un ventenne nel cervello di un uomo di mezza età» si definisce il protagonista del romanzo, che ricorda con nostalgia la sua giovinezza: «… quando la mia esistenza era incredibilmente facile e nel futuro c’erano solo promesse. Erano gli anni Ottanta, nel bene e nel male. E tutto poteva ancora essere, tutto poteva ancora succedere. E, poi, semplicemente, tutto è successo». Erano gli anni in cui l’Italia trovava la sua «respirazione artificiale per resuscitare il vecchio buon umore». Una boccata d’aria in grado di far superare i legami, talvolta ingombranti, con il decennio precedente. Come all’epoca ammetteva lo stesso Caputo cantando con parole tutt’altro che casuali: «Io con questa faccia e il mio passato da dimenticare». Sergio, infatti, già allora parlava con cognizione di causa. Anche nel decennio precedente, giovanissimo, non era stato uno di quelli rimasti a guardare dal balcone: gli anni ’70 lo avevano visto partecipe, anche se dall’altra parte della strada, a scandire il suo impegno leggendo Allen Ginsberg, Gregory Corso, Hemingway, Bukowski e i Cantos di Ezra Pound. La sua era già allora una battaglia non-conformistica «contro – scriveva nella rivista studentesca L’Alternativa di cui lui era ideatore, grafico e vignettista – gli apriorismi delle filosofie e delle ideologie, contro la società dei consumi, contro la repressione psicologica operata dai persuasori occulti, contro l’inattuale staticità delle ripartizioni politiche, contro la reazione, contro il liberalismo, contro il livellamento, contro la massificazione…». E in suo articolo di quegli anni Sergio si schierava senza esitazione dalla parte della contestazione del ’68 che, a suo dire, «aveva evidenziato i problemi delle nuove generazioni, insofferenti e stanche di una società nella quale non si riconoscevano, incapaci di affrontare e soddisfare le loro esigenze sociali e culturali». Dopo di che fissava un preciso riferimento esistenziale e letterario nel «vasto e valido fermento giovanile degli anni ’50, di cui si erafatto portatore lo scrittore americano Jack Kerouac». Numerose le tracce lasciate dal Caputo degli anni studenteschi: poster, manifesti, adesivi, fumetti… E, ovviamente, la musica. Il suo stesso primo singolo, Libertà dove sei, nasceva in qualche modo da quei fermenti e da quelle passioni.
Qualche eco di tutto questo affiora adesso nel romanzo. «Io lavoravo come copyrighter free lance e me la cavavo bene… passavamo lunghe serate a ipotizzare nuovi stili musicali, disquisire di futuri mezzi di comunicazione, dell’interazione fra diverse forme d’arte d’arte», spiega di quegli anni Max Paisani, aggiungendo che lui in quel fermento era capace di riuscire a far convivere parallelamente – e simultaneamente – anche situazioni apparentemente contrapposte «che in qualche modo condividevano la stessa zona spazio-temporale, ma che secondo me non sarebbero state compatibili tra loro, e io riuscivo a passare disinvoltamente dall’una all’altra senza subire grossi danni a livello cerebrale». Innegabile il riferimento autobiografico all’avvio della stagione freak dello stesso Caputo, quando cominciò a suonare e cantare prima al Convento Occupato, poi al Murales, infine al Folk Studio. E qui – vera e propria palestra della cosiddetta scuola romana dei cantautori – incontrerà il suo “scopritore”, il musicista- giornalista Ernesto Bassignano (detto Bassinger) e la vocazione musicale prende il sopravvento.
«C’era musica dappertutto, e non solo – racconta ancora il protagonista del romanzo – nei locali, anche per la strada. La musica era il collante sociale di quegli anni controversi e difficili, pieni di conflitti ed equivoci culturali. Il più grosso dei quali era il modo in cui i miti della musica e della cultura americana riuscissero a convivere con un viscerale antiamericanismo, tendenza che per quanto mi riguarda era incomprensibile: tutti i miei idoli, da Charlie Parker a Jimi Hendrix, dai poeti beat a Andy Warhol, erano americani… Così come consideravo idiota farsi chiamare hippy e andare alle dimostrazioni antiamericane. Ma quelli erano anni strani…». Anni in cui, comunque, «i più svariati e curiosi elementi si mescolarono e si fusero insieme, dal jazz alla poesia sudamericana, dall’hippie al radical chic, dal femminismo militante al sesso libero e spensierato, dall’anticonformismo a un conformismo di segno diverso e non per questo meno fastidioso…».
Alla luce anche di questo, in una sorta di «pellegrinaggio retroattivo», il romanzo si dipana in una storia che si legge tutta d’un fiato, scritta con un linguaggio davvero swing e che ricorda le atmosfere e le situazioni delle canzoni più famose di Caputo. È un viaggio in dieci giornate del protagonista tra miti letterari, colonne sonore, derive esistenziali, scritto con il più divertito e scanzonato sdoppiamento di un sogno possibile. «La storia, la nostra storia – spiega Max Paisani – si materializza sulle pagine solo man mano che la viviamo, un giorno dopo l’altro». Il giorno prima di tornare negli Stati Uniti, Max la combina grossa: perde senza motivo il suo passaporto. È quindi costretto a un periodo imprevisto di vacanza forzata a Roma – la sua città natale, da cui manca da 25 anni – mentre aspetta i documenti dall’ambasciata americana. Afflitto da una specie di crisi della mezza età e dalle sue manie croniche – le allucinazioni psicofoniche che si porta indietro dall’infanzia, la fobia per Le Muse Inquietanti di De Chirico, il tormento di un intervistatore fantasma – sta davvero vivendo un momento difficile della sua vita. C’è poi la crisi del suo matrimonio, il senso di sradicamento che prova negli Usa («io come un completo sconosciuto, una nullità in un mondo competitivo e spietato»), la sensazione di aver sciupato la sua carriera. Ma improvvisamente avviene quello che Gurdjieff chiamava lo “shock addizionale”: «Subito cominciano a succedere “cose”. Incontriamo persone. Imbocchiamo strade che ci portano lontano, in luoghi che non avremo mai immaginato di raggiungere». Tutto sembrava bloccato lì, da anni, la propria storia, l’amore, i sogni, tutto girava a vuoto: «Poi è successa una cosa che non doveva succedere: ho perso il passaporto. E senza saperlo con la mia sbadataggine ho cambiato le carte in tavola, ho scritto qualcosa sulla pagina bianca. Tutto ha già iniziato a cambiare. Alla grande».
E in effetti una serie a catena di incontri – il suo agente The Rain, lo scoopologo Nick Di Lazzaro, la studiosa di letteratura inglese Angela Griffith, il funzionario dell’ambasciata americana Hector Gonzales e altri singolari personaggi – lo coinvolgono in una cena di gala dedicata a John Keats e in un finto scoop da rivendere ai giornali. Max si lascia guidare da queste figure e viene travolto dagli eventi accumulando un fardello di problemi che dovrà affrontare di corsa così come ha affrontato tutta la sua vita: disperatamente, e in ritardo cane. Ne esce fuori una vicenda raccontata a più dimensioni – la narrazione in tempo reale, i flash back nella Roma degli anni ’70 e ’80, i sogni del protagonista, le sue chiacchiere in chat room, gli incontri di coscienza col fantomatico intervistatore fantasma, i monologhi interiori, i colpi di scena. L’ironia scorre a fiumi e il lettore non può fare a meno di leggere e ridere contemporaneamente. Straordinari poi gli squarci di una Roma che va dal ricordo dei caseggiati neorealisti dell sua infanzia al cosiddetto Trinkangolo delle Bermude («il distretto immaginario i cui confini invisibili racchiudono piazza Navona, Campo de’ Fiori, Trastevere e Testaccio»), da Piazza di Spagna a Via Veneto sino al Cimitero a-cattolico e al chioschetto del Café du Parc… E non mancano pagine toccanti come quando il protagonista rievoca la morte del padre: «Mi avvento contro quella porta a calci e a pugni, preso da una rabbia inutile e impotente come tutte le parole che non sono riuscito a dirgli, come il nostro addio mancato… La sera stessa ero già più di mille chilometri lontano, su un palcoscenico a guadagnarmi da vivere, come lui stesso mi avrebbe detto di fare. Quella sera dal palco gli feci una dedica, e mio padre prese l’unico vero applauso della sua vita».
Il messaggio finale è esplicito: «Ricordati, finché ci resta tempo da vivere la partita rimane aperta». Perché c’è sempre un’altra possibilità: «Il nostro destino è una cosa, la direzione che la nostra vita prenderà è un’altra». Una lezione che il protagonista ha imparato incontrando una volta Keith Richard: «Mi ha insegnato molto, per esempio che non bisogna mai pensare di essere rimasti senza cose da dire. Che non bisogna mai arrendersi alla tentazione di auto-omologarsi...».
Luciano Lanna, laureato in filosofia, giornalista professionista dal 1992 e scrittore (autore, con Filippo Rossi, del saggio dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra, Vallecchi 2004), oltre ad aver lavorato in quotidiani e riviste, si è occupato di comunicazione politica e ha collaborato con trasmissioni radiofoniche e televisive della Rai. Già caporedattore del bimestrale di cultura politica Ideazione e vice direttore del quotidiano L'Indipendente, è direttore responsabile del Secolo d'Italia.

5 commenti:

Anonimo ha detto...

E' tanto che non sento parlare di Caputo, la prima volta che ebbi occasione di sentirlo cantava la canzone Garibaldi.

Giovanni

Anonimo ha detto...

Evviva, il Secolo d'Italia elogia il traditore Sergio Caputo.

Anonimo ha detto...

Ma questo non è un giornale dichiaratamente di dx?

Roberto Alfatti Appetiti ha detto...

Se ti riferisci al Secolo d'Italia, è il quotidiano di Alleanza Nazionale.

Traditore? Ancora con queste storie...

Anonimo ha detto...

Non capisco perché traditore.