lunedì 19 maggio 2008

Torna Finardi e la musica ribelle vola alto (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 18 maggio 2008
Non c’è bisogno di nessuna preparazione specifica, di solito: leggiamo libri, ascoltiamo dischi, guardiamo film che parlano il nostro stesso linguaggio. Che fanno riferimento alla nostra stessa cultura. Che pescano nel nostro stesso immaginario.
Magari, anche in buona fede, crediamo che siano viaggi in terre lontane. Viaggi che ci arricchiranno e che, piacevolmente, senza nessuno sforzo, ci spalancheranno chissà quali orizzonti sconosciuti. Invece sono solo passeggiate: quando va bene in un parco naturale, sia pure troppo organizzato e sorvegliato per metterci davvero alla prova; quando va male in un parco dei divertimenti, dove di vero non c’è proprio nulla. La diversità autentica, le rare volte in cui la incontriamo, si riduce a esotismo: una digressione episodica, estemporanea, in un mondo che ci incuriosisce per qualche momento ma che in realtà non ci interessa. Un mondo che ci resta fatalmente, completamente, estraneo.
Meglio dirlo subito, allora. Questo nuovo album di Eugenio Finardi, che è interamente dedicato alle canzoni del russo Vladimir Vysotsky, attore teatrale di riconosciuto talento e cantautore semiclandestino, nato nel 1938 e morto di infarto già nel 1980, è un lavoro col quale ci si può misurare soltanto se si è disposti a viaggiare davvero. Solo se si è consapevoli di inoltrarsi in un territorio espressivo che assai difficilmente apparirà accogliente già al primo ascolto, chiedendoci invece di non avere fretta e di aggiungere, alla visita iniziale, una serie di ritorni successivi. Stimolati, prima ancora che dalla musica e dalle parole, dalla fortissima personalità del loro autore, che pur essendo stato sempre inviso al regime sovietico, e pur avendo avuto la possibilità di trasformare i viaggi in Europa in una fuga definitiva, non ha mai rinunciato a tornare nella propria patria. Conscio, come ebbe a dire egli stesso, di non poter vivere lontano dal suo Paese e dal suo popolo.
«Lui – ha sottolineato Finardi in una recente intervista – rimane un esempio di “maledetto” vero, come artista. Un uomo di un magnetismo incredibile: basta andare a vedere i suoi video che circolano su YouTube.»
Ma non è così, non è attraverso la Rete, che Eugenio Finardi ha conosciuto Vladimir Vysotsky. Già nel 1993, per restare all’attività discografica, aveva partecipato all’album Il volo di Volodja, omaggio postumo promosso dal Club Tenco e interpretato da artisti del calibro di Guccini e di Milva, di Vecchioni e di Capossela, di Branduardi e di Paolo Rossi. All’epoca, Finardi era ancora (o sembrava esserlo) un cantautore a tutti gli effetti: nonostante il suo interesse per il canto, inteso come dimensione espressiva disgiunta da quella di autore, si stesse facendo sempre più forte, l’evoluzione successiva era di là da venire. Che la sua immagine artistica gli andasse stretta lo si poteva capire da certi segnali che attraversavano i suoi dischi e le altre scelte professionali, con quel desiderio crescente di rimescolare le carte, di rielaborare il passato, di aprirsi a nuove collaborazioni e a nuove esperienze. Ma che si arrivasse a un cambiamento definitivo di direzione – anzi: di approccio – non era affatto prevedibile.
La svolta è arrivata nel 2001, con O fado. Un’ampia incursione nella musica portoghese, in un progetto fortissimamente voluto da Marco Poeta e realizzato con quello straordinario cantante che è Francesco Di Giacomo, l’indimenticabile voce del Banco. E’ lì che Finardi ha cominciato a capire che non era più indispensabile comporre da sé i brani che avrebbe cantato. A capire che, come afferma ora con estrema chiarezza, «le cose che avevo voglia di scrivere non stavano più in una canzone. Rispetto al cantautore Finardi, l’interprete è più in là, il pensiero è più in là. Le cose che ho da dire sono più in là».
A O fado sono seguiti via via Il silenzio dello spirito, nel 2003, e Anima Blues, nel 2005. Il primo improntato al sacro, nel segno di un’idea mistica della musica; il secondo, evidentemente, nel segno del blues, che è il suo amore di sempre.
Oggi, infine, ecco il tributo a Vysotsky. Impervio anche solo da immaginare, per la sua abissale distanza dal gusto corrente e, cosa ancora più importante, per le sue difficoltà intrinseche. La poesia degli originali da catturare attraverso una riscrittura che non è solo una traduzione letterale, già di per sé impegnativa e ad alto rischio di fallimento, ma una continua trasposizione di concetti e di immagini, sia per trovare le rime e le assonanze necessarie a farne un testo cantabile, sia per accorciare la distanza tra la cultura di provenienza e la nostra. La musica da reinventare, visto che Vysotsky ha composto moltissimi brani (circa un migliaio, dichiarava egli stesso nel luglio del 1979, anche se poi «penso di ricordarmene fino alla fine un trecento, non di più») ma ne ha incisi su disco appena una manciata, lasciando tutto il resto nella forma ancora più scarna delle registrazioni domestiche e delle esecuzioni dal vivo. Voce, chitarra, nient’altro.
Che cosa se ne doveva fare? Che cosa se ne poteva fare? Scartata l’ipotesi di attenersi pedissequamente alle versioni conosciute, si è intervenuti allo stesso tempo con libertà e con rigore. Sotto la direzione di Carlo Boccadoro, e con l’orchestrazione di Filippo Del Corno, gli undici pezzi di Il cantante al microfono sono stati ridisegnati da un sestetto di impostazione classica: flauto, clarinetto, vibrafono, pianoforte, violino e violoncello. Un tessuto insolito, e a suo modo spiazzante, su cui la voce di Finardi si innesta con stupefacente sicurezza, tendendosi ai limiti delle proprie possibilità.
Un tentativo, coraggioso e ammirevole, di trasformare le immagini in bianco e nero in dipinti. Provando a indovinare le tinte strumentali che erano implicite nelle stesure preesistenti. Facendo oggi, a quasi trent’anni dalla morte di Vysotsky, quello che lui, preso in mezzo tra la censura di stato e il suo carattere ingovernabile, non era riuscito a fare: aggiungere almeno un po’ di colore ai suoi disegni febbrili.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000. Prima su “Ideazione.com”, poi sui quotidiani “Linea”, di cui è stato caporedattore fino al maggio scorso, e “Secolo d’Italia”.

Nessun commento: