Articolo di Ivo Germano
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 18 maggio 2008
Un’architetto - Fiorenzo Barindelli - e la sua missione: dare una casa a una fenomenale collezione di orologi di plastica Swatch. Con un’avvertenza: lo Swatch non s’indossa, perché - spiega Barindelli - trattasi di “oggetto d’arte e quindi non ha senso portarlo al polso”. Del resto, la brama di ogni collezionista di Swatch è reperire un modello intonso, ancora racchiuso nella piccola teca. Soprattutto adesso che gli Swatch compiono 25 anni.
A Cesano Maderno, provincia di Milano, esiste il primo, nonché unico museo di e sul mondo policromo, high-tech, divertente e sorridente di Swatch. E' il World Museum Swatch, questo il nome, che ha sede presso Palazzo Arese Jacini, (P.zza Arese 12, 20031, Cesano Maderno, provincia di Milano). Che è, ovviamente, raggiungibile anche via internet (www.worldmuseum2000.com/) e chiunque può visitarlo il sabato e la domenica (dalle 10.00 alle 12.30 e dalle 15.00 alle 19.00, oltrechè il giovedì previo appuntamento. Una vera e propria stanza delle meraviglie è dedicata a Roberto Villa, pittore e scultore scomparso nel 1981, quando ancora lo Swatch era in mente Dei. Dedica particolare a una stella polare del cambiamento di moda e costume, un anticipatore di quel decennio - gli anni Ottanta - in cui, appunto, swatch e walkman, skateboard e videogiochi, segnarono il transito da un’idea protocollare di cultura a una declinazione disinvolta e sbarazzina della nostra modernità.
A Cesano Maderno, provincia di Milano, esiste il primo, nonché unico museo di e sul mondo policromo, high-tech, divertente e sorridente di Swatch. E' il World Museum Swatch, questo il nome, che ha sede presso Palazzo Arese Jacini, (P.zza Arese 12, 20031, Cesano Maderno, provincia di Milano). Che è, ovviamente, raggiungibile anche via internet (www.worldmuseum2000.com/) e chiunque può visitarlo il sabato e la domenica (dalle 10.00 alle 12.30 e dalle 15.00 alle 19.00, oltrechè il giovedì previo appuntamento. Una vera e propria stanza delle meraviglie è dedicata a Roberto Villa, pittore e scultore scomparso nel 1981, quando ancora lo Swatch era in mente Dei. Dedica particolare a una stella polare del cambiamento di moda e costume, un anticipatore di quel decennio - gli anni Ottanta - in cui, appunto, swatch e walkman, skateboard e videogiochi, segnarono il transito da un’idea protocollare di cultura a una declinazione disinvolta e sbarazzina della nostra modernità.
E in effetti Swatch indica, ancora oggi, l’apice di un decennio sperimentale, quello in cui, per esempio, alla Rai, nel 1981, Mister Fantasy e il suo conduttore di bianco vestito trasformavano il modo di fare televisione. Veloce e seduttiva, come il testo di Pensiero stupendo di Patty Pravo. Ecco, in quegli anni di fermenti dalla Svizzera gli orologi anticipavano gusto e necessità. Coprendo il lato spettacolare della merce, facendo confluire estetica e bellezza, oltre ogni blocco mentale e filtro ideologico.
Visitando il museo o accedendo al sito si inseguono le lancette di un prodotto e di un logo, ideato a Zurigo, da Nicolas Hayek Sr. e Jr., presentato il 1° marzo del 1983. Che fu di scarso successo negli States, ma tre anni dopo fenomenologia perfetta dello spirito del tempo. Costava allora solo cinquantamila lire. Il quadrante era trasparente che consentiva la visione degli ingranaggi, le lancette rosse segnavano le ore, i minuti quelle blu, gialle i secondi. L’articolo specifico si chiamava “Original Jelly Fish”. In nome di un coup de foudre, Fiorenzo Barindelli ne ha raccolti negli anni 4000 di motivi per confermare l’amore per l’orologio di plastica e, forse, per tutta l’architettura di consumo cui allude il marchio Swatch.
E il fenomeno di massa sembra, all'inizio, una storia da Pupi Avati, tipo Il regalo di Natale. Nel 1989 la scelta del dono natalizio per i collaboratori cade proprio su 13 orologi Swatch: belli, dinamici, innovativi. Poi, un catalogo per rivenditori compì il lavoro, per certi versi, assecondandone vocazione e incantamento. Gli anni si prestavano alla fiaba di una cultura materiale che nella “S” che significava second e “watch” non si riferiva alla Svizzera, come erroneamente si credeva, ma alla ribellione giocosa alla “dittatura del tempo” ideologico e polveroso. Rari, preziosi, raggiunsero la maturità industriale e performativa negli anni Novanta con la serie Chrono e Scuba, di cui circolava un succedaneo, regalato in omaggi dai fustini di detersivo Dash. Celebrati alle Olimpiadi di Atlanta’96, oppure, nelle serie, dedicate a Via Della Spiga e Place Vendome. Recentissimo il duplice modello dedicato all’anniversario di Corto Maltese e al suo disegnatore Hugo Pratt. Arrivarono, poi, quelli firmati da artisti come uno dei Kiki Picasso, pseudonimo di Christian Chapiron, il diavoletto di Mimmo Palladino e i graffiti di Keith Hering che, per esempio, stipularono una relazione creativa non tanto con un oggetto, ma con una mentalità e attitudine al bello.
Non è la logica del puro puro possesso - o quella del collezionismo - la chiave del Museo, comunque, né tantomeno replicare in provincia le traiettorie del consumo globale che da Dubai a New York innervano i sentieri della società contemporanea. Il museo colma una lacuna, iconografica e storiografica, sul repertorio visivo e stilistico sull’onda inarrestabile di quella fase particolare: inimitabile più che irripetibile. In quegli anni Ottanta (e Novanta) i più ligi e zelanti ne indossavano due per polso: working class, due sul sinistro; ceti affluenti e yuppie in scalata, su quello destro. Prudenti, avveduti e sparagnini s’avvalevano degli elastici l’uno incrociato all’altro, in funzione “antigraffio” e “urto”, si sa mai che si rovinasse. Tutto cambiava, al pari delle passerelle di moda, ma garantendo spessore e qualità concorrenziali alle fabbriche giapponesi: quarzo+produzione di massa, ma con tanta creatività, al tempo stesso, facendo slittare la pubblicità commerciale nel marketing. Del resto l'ex leader new romantic degli “UltraVox” Midge Ure cadenzava la domanda semplice, quanto incontrovertibile: “Quanto è lungo un minuto Swatch?”
Adesso è facile lordare e stigmatizzare moralisticamente queste fenomenologie, come passate o vacue, perché di “plastica”. Noi siamo invece certi che le tipologie sociali dinamicamente più innovative, creative, sinceramente postideologiche e convintamente indirizzate all’esercizio raffinato dell’idiocrazia degli Ottanta, in tutta probabilità, in qualche cassetto conservano uno di quei modelli. Non tanto a futura memoria, nemmeno per mania di collezione, ma perchè mettendolo al polso ricorderebbero a se stessi che grazie al polymethilmetacrylene al posto del vetro, per spaccare il secondo e scandire le ore e i minuti le loro cronache postmoderne sono diventate storia. Meglio: hanno fatto storia.
Visitando il museo o accedendo al sito si inseguono le lancette di un prodotto e di un logo, ideato a Zurigo, da Nicolas Hayek Sr. e Jr., presentato il 1° marzo del 1983. Che fu di scarso successo negli States, ma tre anni dopo fenomenologia perfetta dello spirito del tempo. Costava allora solo cinquantamila lire. Il quadrante era trasparente che consentiva la visione degli ingranaggi, le lancette rosse segnavano le ore, i minuti quelle blu, gialle i secondi. L’articolo specifico si chiamava “Original Jelly Fish”. In nome di un coup de foudre, Fiorenzo Barindelli ne ha raccolti negli anni 4000 di motivi per confermare l’amore per l’orologio di plastica e, forse, per tutta l’architettura di consumo cui allude il marchio Swatch.
E il fenomeno di massa sembra, all'inizio, una storia da Pupi Avati, tipo Il regalo di Natale. Nel 1989 la scelta del dono natalizio per i collaboratori cade proprio su 13 orologi Swatch: belli, dinamici, innovativi. Poi, un catalogo per rivenditori compì il lavoro, per certi versi, assecondandone vocazione e incantamento. Gli anni si prestavano alla fiaba di una cultura materiale che nella “S” che significava second e “watch” non si riferiva alla Svizzera, come erroneamente si credeva, ma alla ribellione giocosa alla “dittatura del tempo” ideologico e polveroso. Rari, preziosi, raggiunsero la maturità industriale e performativa negli anni Novanta con la serie Chrono e Scuba, di cui circolava un succedaneo, regalato in omaggi dai fustini di detersivo Dash. Celebrati alle Olimpiadi di Atlanta’96, oppure, nelle serie, dedicate a Via Della Spiga e Place Vendome. Recentissimo il duplice modello dedicato all’anniversario di Corto Maltese e al suo disegnatore Hugo Pratt. Arrivarono, poi, quelli firmati da artisti come uno dei Kiki Picasso, pseudonimo di Christian Chapiron, il diavoletto di Mimmo Palladino e i graffiti di Keith Hering che, per esempio, stipularono una relazione creativa non tanto con un oggetto, ma con una mentalità e attitudine al bello.
Non è la logica del puro puro possesso - o quella del collezionismo - la chiave del Museo, comunque, né tantomeno replicare in provincia le traiettorie del consumo globale che da Dubai a New York innervano i sentieri della società contemporanea. Il museo colma una lacuna, iconografica e storiografica, sul repertorio visivo e stilistico sull’onda inarrestabile di quella fase particolare: inimitabile più che irripetibile. In quegli anni Ottanta (e Novanta) i più ligi e zelanti ne indossavano due per polso: working class, due sul sinistro; ceti affluenti e yuppie in scalata, su quello destro. Prudenti, avveduti e sparagnini s’avvalevano degli elastici l’uno incrociato all’altro, in funzione “antigraffio” e “urto”, si sa mai che si rovinasse. Tutto cambiava, al pari delle passerelle di moda, ma garantendo spessore e qualità concorrenziali alle fabbriche giapponesi: quarzo+produzione di massa, ma con tanta creatività, al tempo stesso, facendo slittare la pubblicità commerciale nel marketing. Del resto l'ex leader new romantic degli “UltraVox” Midge Ure cadenzava la domanda semplice, quanto incontrovertibile: “Quanto è lungo un minuto Swatch?”
Adesso è facile lordare e stigmatizzare moralisticamente queste fenomenologie, come passate o vacue, perché di “plastica”. Noi siamo invece certi che le tipologie sociali dinamicamente più innovative, creative, sinceramente postideologiche e convintamente indirizzate all’esercizio raffinato dell’idiocrazia degli Ottanta, in tutta probabilità, in qualche cassetto conservano uno di quei modelli. Non tanto a futura memoria, nemmeno per mania di collezione, ma perchè mettendolo al polso ricorderebbero a se stessi che grazie al polymethilmetacrylene al posto del vetro, per spaccare il secondo e scandire le ore e i minuti le loro cronache postmoderne sono diventate storia. Meglio: hanno fatto storia.
Ivo Germano (1966) Borghese di provincia all'Amicimiei, sociologo e giornalista, scientificamente si occupa di produzione culturale e strutture simboliche dell'immaginario contemporaneo. Incline a scrivere e interessarsi di cose inutili, curiosamente e felicemente borghesi.
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