Articolo di Maurizio Bruni
Dal Secolo d'Italia di martedì 3 giugno 2008
I quattro decenni trascorsi sono riusciti a storicizzarlo e, stavolta, le commemorazioni in libreria e sui giornali hanno segnato una nuova linea interpretativa. Niente amarcord e nessuna apologia di taglio ideologico, sul ’68. Basti pensare che se negli Stati Uniti l’epopea della contestazione è diventata addirittura un cartoon – Chicago 10 di Brett Morgen – in questi giorni in uscita nei grandi schermi, la stampa italiana ha sottolineato più il quarantennale del primo grande festival rock europeo a Roma che le barricate al Quartiere latino o le occupazioni delle facoltà in Italia. Era infatti il maggio del ’68 e mentre le strade di Parigi bruciavano e quelle di Berkeley erano invase da universitari in marcia, dal 4 al 7 dello stesso mese nella Capitale ci furono quattro giorni di concerti al teatro Brancaccio e al Piper: arrivarono e si esibirono i Pink Floyd, i Byrds, Captain Beefheart, Donovan e, venti giorni dopo, Jimi Hendrix. «Erano tutti felici – ha rievocato a La Stampa Maurizio Vandelli dell’Equipe 84 che, in quei giorni, ospitò Hendrix nella propria casa – e sorridevamo tutti, c’era grande disponibilità e una grande amicizia, finché non è cominciato il secondo tempo, con le pallottole che volavano...».
Ecco, finalmente l’attenzione mediatica ha presentato il Sessantotto per quello che come era stato percepito all’epoca. E non a caso quest’anno hanno fatto lezione le affermazioni prima di Gianfranco Fini («la destra sbagliò a schierarsi con i parrucconi e ad allontanarsi dai giovani») e poi di Gianni Alemanno («È stata l’ideologia marxista a uccidere il ’68»). D’altronde il miglior libro su tutto quell’anno – ’68. L’anno che ha fatto saltare il mondo (Mondadori, 2004) di Mark Kurlansky – è stato riproposto per la sua visione internazionale e per l’interpretazione espressamente postideologica di tutta quella stagione. Un saggio che non solo iniziava con una citazione di Ezra Pound ma che spiega come la rivolta generazionale di quell’anno possa essere spiegata solo da una doppia matrice: giovanilistica e avversa all’autoritarismo. Un’analisi che è stata bene sottolineata nei fascicolo monografico di gennaio della rivista Charta minuta (con interventi, tra gli altri, di Franco Cardini, Giampiero Mughini e Gianni Pennacchi) e in quello del mensile Area (con scritti di Giano Accame, Annalisa Terranova e Marcello de Angelis e una testimonianza del sessantottino Lamberto Roch).
Un analogo approccio trasversale muove anche un recente saggio di Giuseppe Giaccio che appare sull’ultimo numero del mensile Diorama letterario: «Etologia del Sessantotto ». E qui l’autore spiega come «in quel fatidico Maggio, e negli anni successivi, vi fu dunque contrapposizione, ma anche reciproco interscambio, giacché le parti in conflitto si collocavano, in definitiva, sul medesimo terreno». Si tratta di un nodo che viene anche affrontato – anche alla sua della sua esperienza di ex leader romano del movimento studentesco – da Franco Piperno nel sul libro ’68. L’anno che ritorna (Rizzoli, 178, euro 16,50), in cui l’autore ricorda come quella stagione fu «molteplice» e che accanto a coloro «che per darsi autorevolezza sfoggiano, oltre a folte capigliature e lunghe barbe, improbabili propositi di palingenesi sociale» c’era «anche giovani neofascisti e qualche universitario colto di destra». Un riconoscimento postumo che Piperno fonda teoricamente distinguendo, all’interno del movimento studentesco italiano, due anime fondamentali: una prima, di matrice cattolica e neomarxista, situata prevalentemente al Nord e legata al progetto progressista, e una seconda, radicata fortemente a Roma e nel centrosud, in cui il cattolicesimo si è fortemente coniugato col paganesimo e al pensiero nietzscheano, meno sensibile ai domani che cantano e più interessata al “qui” e “ora”. E Piperno esprime un giudizio sferzante sulla deriva antifascista della contestazione: «Una sorta di matrimonio fra la furbizia levantina dei politici della sinistra istituzionale e l’attitudine semplificatrice e occultante di molti giovani del movimento». E quando, invece, deve sottolineare gli aspetti che restano attuali del ’68, l’ex leader sottolinea il tasso di creatività che riuscì a rompere con gli schemi del passato a livello musicale, cinematografico, teatrale, letterario e poetico. In questo senso cita il Fabrizio De André di Carlo Martello – «una canzone che rompeva con tutti gli schemi melodici consolidati» – ma anche i testi di Adriano Celentano: «Stava nel nostro pantheon musicale, malgrado fossimo perfettamente a conoscenza delle sue inclinazioni reazionarie...». E poi, naturalmente, è indubbio l’apporto dei Beatles, di Bob Dylan, di Jacques Brel, di Georges Brassens, di Joan Baez...
In questa direzione, altri due libri da poco usciti aiutano a una comprensione globale dell’anno della contestazione: Cantavamo Dio è morto. Il ’68 dei cattolici (Piemme, pp. 220, eur013) di Roberto Beretta e 1968. Le origini della contestazione globale (Edizioni Solfanelli, pp. 160, euro 10) di Marco Iacona. E se il primo osserva il fenomeno dall’angolo visuale del mondo cattolico – che è, come racconta l’autore, l’area da cui si origina tutta la contestazione – il secondo esamina la fase iniziale di tutto quel fermento dal punto di vista della stampa apertamente di destra. «Durante il Sessantotto – esordisce Iacona – all’interno della destra si consumerà una rivolta nella rivolta e ciò avrà conseguenze di non poco conto. Nel breve, medio e lungo periodo, la destra italiana, che aveva assistito ai cambiamenti sociali e culturali dei Sessanta da una posizione di retroguardia, uscirà in parte trasformata, al pari di quella sinistra che, nelle sue componenti giovanili (non tutte e non subito, però), si andava rinnovando grazie ai mutamenti politici in corso».
Il saggio – che si avvale di una introduzione partecipe di Gianfranco de Turris – segue gli avvenimenti di quell’anno attraverso la rilettura della stampa periodica e quotidiana collocata a destra, compiendo un’operazione per alcuni versi analoga a quella compiuta un paio d’anni fa da Alessandro Gasperetti con La destra e il ’68 (edito dal Settimo Sigillo). Ma Iacona aggiunge, di suo, l’accompagnamento interpretativo di due diverse letture del Sessantotto: l’una, quella del “Sessantotto di lungo periodo”, che considera (certo in breve) le principali novità di costume e culturali degli anni ’60, e l’altra che guarda – nello specifico studentesco – ai problemi del mondo universitario italiano come cause dirette delle rivolte e delle occupazioni studentesche. In conclusione, nella postfazione, il revisionismo della destra di oggi. E Iacona riporta le parole di Fini: «C’era allora un magma – ha detto l’attuale presidente della Camera al convegno “cambio di stagione” dello scorso febbraio – e c’era tra i giovani il desiderio di una società migliore. Una rivolta esistenziale. Un bisogno di senso, come dimostra la mobilitazione di due anni prima per l’alluvione di Firenze. In un primo momento i contestatori non erano solo marxisti. Cultura liberale e cultura cattolica non furono in grado di capire che si contestava anche il comunismo con la sua megazione della libertà e dei diritti dell’uomo. Così, il ’68 non nacque a sinistra, ma finì a sinistra».
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