Articolo di Ivo Germano
Dal Secolo d'Italia di mercoledì 4 giugno 2008
«La mitologia contemporanea individua due soluzioni complementari a questo ineludibile dilemma eto-tecnologico: trasformare i comportamenti umani in comportamenti totalmente robotizzati o, al contrario, sostituire la realtà umana con la pseudo-vita interamente robotica». Metà Nietzsche, metà Philip K. Dick, Riccardo Notte, docente di Antropologia culturale presso l’Accademia di Brera, esattamente a pagina 173 del suo ultimo saggio – Machina ex Machina. Saggio sul mito del robot (Bulzoni Editore, Roma, 2008, pp. 189, euro 15) – illustra lo “spirito del tempo” macchinico e le sue possibili incognite.
È un libro che sa contestualizzare non tanto il “come” del robot, quanto il “perché” di una realtà che supera di gran lunga la fantascienza. Con la naturalezza dello studioso e una certa qual familiarità con la materia, Notte ci aiuta a comprendere, come da ordine di capitoli, perché nel futuro più prossimo i robot ci baceranno, ci guideranno, anche ci umilieranno, fino alla sintesi fra arte, spazio pubblico e possesso tecnologico delle nostre piccole e insignificanti membra. Prima landscape letterario e metaforico, sperimentato, ad esempio, dalle avanguardie artistiche del XX secolo, in relazione all’elettrificazione del mondo sociale e culturale. Ora, il robot interessa molto i “gabinetti” tecnoscientifici e la geopolitica, meno l’ucronia e la distopia fantascientifica, lontani i toni e tempi retroattivi di Asimov, Bradbury, Orwell, Huxley, vicine, anzi consuetudinarie le visioni di paura ad uso di chi ha paura in King e Ballard.
A ripensare al Yul Brinner “scarnificato” nei circuiti e fili della locandina del film Westworld, diretto nel 1976 da Michael Crichton, sembra davvero l’archeologia o l’etnografia di un senso primitivo. Si tratta, infatti, di qualcosa di estremamente diverso, rispetto al preciso stato d’animo, alla tensione che si miscela al millenarismo di certe sette, al conto alla rovescia, evocato a tutto spiano dall’ambientalismo, il più convinto e antagonista.
Chiariamoci: l’urgenza analitica di Notte è epistemologica. La novità è la somiglianza, cioè la mimesis di vita e pratica, per cui i robot apprendono a fare qualcosa in più, divertendosi, forse più di noi, a giocare a pallone, a scacchi, scodinzolando e arzigogolando tenerezze, fino a vere e proprie smancerie.
Un po’quel che va dicendo e riflettendo compiutamente uno dei più raffinati pensatori contemporanei, René Girard (nella foto a destra): il robot, come archetipo dell’individuazione di un’extraterritorialità che si è tramutata in stramba familiarità, in un certo senso, coeva alla familiarità e alla consuetudine. Non più l’“uomo robot” David Zed che cantava «Io sono un robot, un tipo un po’speciale», fungendo da “valletto” di “Pronto Raffaella”, alias David Kirk Traylor, mimo americano, vero e proprio divulgatore per i ragazzi degli ’80 che, ahinoi, generò tristi e implausibili epigoni nelle feste di terza media. Neppure, c’è una qualche attinenza con la voce robotica dei Rockets o l’alta ingegneria sonora dei Kraftwerk: due maniere e due stili d’interpretare l’evo informatico, digitale e robotico.
Al dunque: la possibile “memetica”, in un piano di similarità con la genetica, laddove al posto del gene s’indaga il “meme”, cioè che è alla base, culturalmente e simbolicamente, dell’universo robotizzante. Se, infatti, c’è una caratteristica assolutamente nuova del robot è il suo essere dotato di un telos, cioè di una finalità classica che noi abbiamo perso. Il “post-umano” e il codice biopolitico che caratterizzano le società contemporanee, con la loro deriva panottica di controllo dei dati e di una pseudotrasparenza, tutta telecamere e display, sono letti in controluce dall’ambiente non virtuale del robot. La perfezione stessa, quel mondo conchiuso e risolto vengono osservati da Notte, dal punto di vista della Ubris, come superamento o mancanza del limite, per cui il robot non si riduce a souvenir del domani, bensì diviene l’ermeneuta plausibile di una delle matrici assolute della rap presentazione, prima di tutto, di un sogno umano e troppo umano. Quando tutto è banca dati, codice biometrico, aggiunge puntuale Notte, l’autoreferenzialità arriva a segnare un punto decisivo a suo favore, quindi, a nostro sfavore. Si tratta, infatti, di una strana scossa tellurica ed eccitante, sotto la crosta anonima dei tempi sociali, propagata attraverso l’impalpabile pellicola virtuale che avvolge il calco umanoide. Oggetto proprio della cultura materiale estremo- occidentale, cioè delle cose e delle materie che ci suggestionano e che, grazie ad un mirabile intreccio di materiali e dettagli, forniscono l’ermeneutica corrente dell’implosione/ esplosione del gioco metamorfico del mito. Tutto questo, poi, non per un gioco, ma per puntuale convinzione del robot, l’unico in grado di concepire il futuro, come dimensione rapseria e trasformatrice di possibilità eventuali. Anche perché se ci siamo dimenticati come si fa a ricreare un ambito relazionale gentile e dimensionato, non è colpa sua, perché, come ben argomenta Riccardo Notte, l’immaginario da sempre mette in circolo attrazioni e situazioni che, solo dopo, molto dopo, si tramutano in effetti speciali. E il robot trionfa.
Ivo Germano (1966) Borghese di provincia all'Amicimiei, sociologo e giornalista, scientificamente si occupa di produzione culturale e strutture simboliche dell'immaginario contemporaneo. Incline a scrivere e interessarsi di cose inutili, curiosamente e felicemente borghesi.
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