Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale 8 giugno 2008
Ma insomma cos’è oggi questo cinema italiano? Le subiamo da cinquant’anni su tutti i giornali e in Tv, ma adesso le storie di Giulio Andreotti ce le ritroviamo anche sul grande schermo. E in tanti non ne sentivamo affatto il bisogno. Com’è noto ai giorni nostri il divo-Giulio ha la faccia di un truccatissimo Toni Servillo (bravo ma non straordinario), diretto ancora una volta dal trentottenne e pluripremiato Paolo Sorrentino. Roba da chiudersi in una fattoria e fare le scelte del Candido di Voltaire, non vi pare?
Quarant’anni e passa fa invece (e sembra trascorso un secolo), quando nelle sale c’erano i sedili di legno, mancava l’aria condizionata e la gente fumava come un battello a vapore, le facce da cinema erano quelle di Henry Fonda e di Gian Maria Volontè, ed i personaggi erano misteriosi pistoleri del selvaggio West, guidati come pedine in una scacchiera dall’italianissimo Sergio Leone. L’inventore dello spaghetti-western. Quarant’anni addietro si poteva fantasticare fra musiche da sogno e battute da baretto all’ora di punta. Erano geniali come quelle di Oscar Wilde o sciocche come quelle di Pierino? Mah, erano battute “borderline”, ma una sola di queste valeva l’intero prezzo del biglietto: “Quando un uomo con la pistola incontra un uomo con il fucile, quello con la pistola è un uomo morto”, sentenziava Clint Eastwood. E amen.
Non volevamo dirlo ma (anche) al cinema si stava meglio quando si stava peggio, dunque. Così nel 1968 quando fantasticare era un po’ un diritto un po’ un dovere, usciva quello che fino a quel momento sarebbe stato il film più impegnativo di Sergio Leone: C’era una volta il West del quale il regista romano sarebbe stato fra i produttori. Un film girato anche nella sua amatissima America.
Sergio Leone è un regista che non sai mai dove metterlo. Tu dici, d’accordo: i suoi western con tutti quei personaggi così villain sono più reali di quelli made in Usa (dove l’eroe di frontiera è sempre buono-e-bello e gli indiani crescono come i funghi); ma poi ti rendi conto che i suoi tempi (pazzi) sono più vicini a quelli di un maestro dell’immaginario che a quelli di un normalissimo John Ford. E nel tempo “variabile indipendente” è racchiuso il segreto di molti film del regista de Il buono, il brutto, il cattivo (1966). È per questo che le scene e le inquadrature di Leone sono così diverse, uniche; sono allegorie di un’epoca oramai immobile che con gli occhi di ghiaccio di Charles Bronson e il sigaro ora a destra ora a sinistra fra le labbra di un giovane Clint Eastwood, non torneranno più.
Che piacciano o meno, le sequenze dei film di questo artista morto a sessant’anni nel 1989 (quando stava per definire un progetto su un film sull’assedio di Leningrado) sono inconfondibilmente pop, perché fisse nella memoria dello spettatore, giù giù fino ad una profondità priva della luce della ragione ma colma di miti condivisi. I volti di Leone parlano e incantano anche quando le bocche tacciono. E ci narrano storie che hanno il gusto impenetrabile e un po’ ironico di mondi scomparsi.
Sergio Leone, non ci sarebbe bisogno di dirlo, era uno che cercava di fare le cose sul serio (e il suo “allievo” Clint Eastwood se lo ricorda bene), uno che, figlio d’arte, il cinema ce l’aveva nel sangue. Ma furono pochi i critici che lo compresero in fondo. Fin dal primissimo western, Leone (che si firmò Bob Robertson), parve un bizzarro Bounty killer di un genere (il western all’“americana”, appunto), ancora amato da pubblico e critici. Un tipaccio o poco meno insomma.
Quarant’anni e passa fa invece (e sembra trascorso un secolo), quando nelle sale c’erano i sedili di legno, mancava l’aria condizionata e la gente fumava come un battello a vapore, le facce da cinema erano quelle di Henry Fonda e di Gian Maria Volontè, ed i personaggi erano misteriosi pistoleri del selvaggio West, guidati come pedine in una scacchiera dall’italianissimo Sergio Leone. L’inventore dello spaghetti-western. Quarant’anni addietro si poteva fantasticare fra musiche da sogno e battute da baretto all’ora di punta. Erano geniali come quelle di Oscar Wilde o sciocche come quelle di Pierino? Mah, erano battute “borderline”, ma una sola di queste valeva l’intero prezzo del biglietto: “Quando un uomo con la pistola incontra un uomo con il fucile, quello con la pistola è un uomo morto”, sentenziava Clint Eastwood. E amen.
Non volevamo dirlo ma (anche) al cinema si stava meglio quando si stava peggio, dunque. Così nel 1968 quando fantasticare era un po’ un diritto un po’ un dovere, usciva quello che fino a quel momento sarebbe stato il film più impegnativo di Sergio Leone: C’era una volta il West del quale il regista romano sarebbe stato fra i produttori. Un film girato anche nella sua amatissima America.
Sergio Leone è un regista che non sai mai dove metterlo. Tu dici, d’accordo: i suoi western con tutti quei personaggi così villain sono più reali di quelli made in Usa (dove l’eroe di frontiera è sempre buono-e-bello e gli indiani crescono come i funghi); ma poi ti rendi conto che i suoi tempi (pazzi) sono più vicini a quelli di un maestro dell’immaginario che a quelli di un normalissimo John Ford. E nel tempo “variabile indipendente” è racchiuso il segreto di molti film del regista de Il buono, il brutto, il cattivo (1966). È per questo che le scene e le inquadrature di Leone sono così diverse, uniche; sono allegorie di un’epoca oramai immobile che con gli occhi di ghiaccio di Charles Bronson e il sigaro ora a destra ora a sinistra fra le labbra di un giovane Clint Eastwood, non torneranno più.
Che piacciano o meno, le sequenze dei film di questo artista morto a sessant’anni nel 1989 (quando stava per definire un progetto su un film sull’assedio di Leningrado) sono inconfondibilmente pop, perché fisse nella memoria dello spettatore, giù giù fino ad una profondità priva della luce della ragione ma colma di miti condivisi. I volti di Leone parlano e incantano anche quando le bocche tacciono. E ci narrano storie che hanno il gusto impenetrabile e un po’ ironico di mondi scomparsi.
Sergio Leone, non ci sarebbe bisogno di dirlo, era uno che cercava di fare le cose sul serio (e il suo “allievo” Clint Eastwood se lo ricorda bene), uno che, figlio d’arte, il cinema ce l’aveva nel sangue. Ma furono pochi i critici che lo compresero in fondo. Fin dal primissimo western, Leone (che si firmò Bob Robertson), parve un bizzarro Bounty killer di un genere (il western all’“americana”, appunto), ancora amato da pubblico e critici. Un tipaccio o poco meno insomma.
Parliamoci chiaro però: uno cresciuto a pane e kolossal, il cui obiettivo era girare pochi film ma di buona fattura (anche se all’inizio a basso costo) e che si “sforzava” di vivere da pascià nella sua villa romana, di simpatia ne regalava ben poca. Peraltro, i suoi miti erano nientemeno che Omero, Kurosawa, dal quale “copiò” Per un pugno di dollari, il suo western d’esordio del 1964, primo della famosa trilogia “del dollaro”, ed il Céline di Viaggio al termine della notte (proprio come quel “ragazzaccio” di Sam Peckinpah). Era scorretto Leone? No, di più, era scorrettissimo, uno da premio Oscar per le antipatie... Vedere per credere: fra i cento film italiani da salvare, con iniziativa partita dalle Giornate degli Autori veneziane gestite da Fabio Ferzetti, ci sono 7 Fellini, 4 De Sica, perfino il Salce di Fantozzi, ma il nostro caro Leone non c’è.
Con la filosofia del “pochi ma giusti” Sergio Leone riuscì a girare soltanto sette film completi (dal 1961 de Il colosso di Rodi al 1984 di C’era una volta in America). Ma come chioserebbe Carlo Verdone, suo illustre figlioccio, si trattò di una manciata di film “troppo forti”, pellicole che hanno fatto la storia del nostro cinema, checché se ne dica. A maggior ragione C’era una volta il West che aprirebbe una seconda trilogia leonina (quella del “tempo”), e che ha l’apparenza e la sostanza di un film-epico, di una vicenda raccontata per un finale indimenticabile al di là del quale un ciclo storico finisce.
Il soggetto del film, del quale tuttavia non rimarrà granché è a sei mai: è di Leone, Bernardo Bertolucci e Dario Argento (al tempo giovane critico di Paese Sera); la sceneggiatura ancora di Leone, Sergio Donati e Luciano Vincenzoni. I protagonisti sono invece Claudia Cardinale (per la prima volta una donna ha un ruolo di primo piano in un western di Leone), Henry Fonda, Charles Bronson, Jason Robards e Gabriele Ferzetti. Attori mica da ridere. Oggi C’era una volta il West è una pellicola-culto, ma il successo del film, in America, venne ritardato di molto a causa di una discutibile scelta della Paramount.
In questo suo terzultimo lavoro, che anticipa di tre anni Giù la testa (1971), il suo film “politico” nel quale dati i tempi Leone riflette sulla rivoluzione, il grande regista porta in scena la fine di un’America che aveva anticipato il progresso e preceduto la civiltà dei mercanti: la leggendaria America della Frontiera. Con l’arrivo della ferrovia nell’Ovest il regno dell’avventura è al suo epilogo. Siamo al tramonto di un’epoca e la fine degli attori in scena si traduce nella scomparsa dei “personaggi tipo” del lontano West. Si consumano in tal modo gli ultimi giorni di un vecchio e glorioso Mondo. Vi sembra poco?
Il film, come abbiamo detto uscì nel febbrile 1968, quando più o meno di “Americhe” ne esistevano due: quella brutta e cattiva che era andata in Vietnam e quella protestataria con le Università in rivolta e i contro-corsi, dove si proclamava la libertà di tutto e da tutto; la benedett’America libertaria insomma che tanto piaceva e piace ai giorni nostri. Difficile dire se si trattò di una coincidenza: alla fine degli anni Sessanta anche in Italia (ma non solo in Italia, ovviamente), un mondo stava per finire (il “vecchio” e per molti versi paludato Dopoguerra), e un “altro” più giovane stava per cominciare. Per Sergio Leone nulla forse era casuale. Il Sessantotto di lungo periodo era per lui una “nuova” frontiera ideale della modernità, e il passato Dopoguerra un cinico, ma in fondo poetico (e anarchico), Far-West ? O magari chissà si augurava fosse tutto al contrario? Mah, che dire... Certamente bisognerebbe (continuare a) segnare i costi e precisare i benefici degli anni Sessanta, anni della “fantasia”, per capire bene. Indagare vizi e moralità di ciò che accadde in quei giorni, quando il cupo Charles Bronson, star leonina e futuro Giustiziere della notte, era uno straniero senza nome, o più semplicemente “Armonica”, per tutti (C’era una volta il West).
La solitudine dell’uomo di Frontiera… Bei tempi, signori, bei tempi.
Con la filosofia del “pochi ma giusti” Sergio Leone riuscì a girare soltanto sette film completi (dal 1961 de Il colosso di Rodi al 1984 di C’era una volta in America). Ma come chioserebbe Carlo Verdone, suo illustre figlioccio, si trattò di una manciata di film “troppo forti”, pellicole che hanno fatto la storia del nostro cinema, checché se ne dica. A maggior ragione C’era una volta il West che aprirebbe una seconda trilogia leonina (quella del “tempo”), e che ha l’apparenza e la sostanza di un film-epico, di una vicenda raccontata per un finale indimenticabile al di là del quale un ciclo storico finisce.
Il soggetto del film, del quale tuttavia non rimarrà granché è a sei mai: è di Leone, Bernardo Bertolucci e Dario Argento (al tempo giovane critico di Paese Sera); la sceneggiatura ancora di Leone, Sergio Donati e Luciano Vincenzoni. I protagonisti sono invece Claudia Cardinale (per la prima volta una donna ha un ruolo di primo piano in un western di Leone), Henry Fonda, Charles Bronson, Jason Robards e Gabriele Ferzetti. Attori mica da ridere. Oggi C’era una volta il West è una pellicola-culto, ma il successo del film, in America, venne ritardato di molto a causa di una discutibile scelta della Paramount.
In questo suo terzultimo lavoro, che anticipa di tre anni Giù la testa (1971), il suo film “politico” nel quale dati i tempi Leone riflette sulla rivoluzione, il grande regista porta in scena la fine di un’America che aveva anticipato il progresso e preceduto la civiltà dei mercanti: la leggendaria America della Frontiera. Con l’arrivo della ferrovia nell’Ovest il regno dell’avventura è al suo epilogo. Siamo al tramonto di un’epoca e la fine degli attori in scena si traduce nella scomparsa dei “personaggi tipo” del lontano West. Si consumano in tal modo gli ultimi giorni di un vecchio e glorioso Mondo. Vi sembra poco?
Il film, come abbiamo detto uscì nel febbrile 1968, quando più o meno di “Americhe” ne esistevano due: quella brutta e cattiva che era andata in Vietnam e quella protestataria con le Università in rivolta e i contro-corsi, dove si proclamava la libertà di tutto e da tutto; la benedett’America libertaria insomma che tanto piaceva e piace ai giorni nostri. Difficile dire se si trattò di una coincidenza: alla fine degli anni Sessanta anche in Italia (ma non solo in Italia, ovviamente), un mondo stava per finire (il “vecchio” e per molti versi paludato Dopoguerra), e un “altro” più giovane stava per cominciare. Per Sergio Leone nulla forse era casuale. Il Sessantotto di lungo periodo era per lui una “nuova” frontiera ideale della modernità, e il passato Dopoguerra un cinico, ma in fondo poetico (e anarchico), Far-West ? O magari chissà si augurava fosse tutto al contrario? Mah, che dire... Certamente bisognerebbe (continuare a) segnare i costi e precisare i benefici degli anni Sessanta, anni della “fantasia”, per capire bene. Indagare vizi e moralità di ciò che accadde in quei giorni, quando il cupo Charles Bronson, star leonina e futuro Giustiziere della notte, era uno straniero senza nome, o più semplicemente “Armonica”, per tutti (C’era una volta il West).
La solitudine dell’uomo di Frontiera… Bei tempi, signori, bei tempi.
Marco Iacona è dottore di ricerca in "Pensiero politico e istituzioni nelle società mediterranee". Si occupa di storia del Novecento. Scrive tra l'altro per il bimestrale "Nuova storia contemporanea", il quotidiano "Secolo d'Italia" e il trimestrale "la Destra delle libertà". Per il quotidiano di An nel 2006 ha pubblicato una storia del Msi in 12 puntate. Ha curato saggi per Ar e Controcorrente edizioni. Nel 2008 ha pubblicato: "1968. Le origini della contestazione globale (Solfanelli).
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