venerdì 6 giugno 2008

Icaro, quasi canzoni trasformate in racconti (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia di venerdì 6 giugno 2008
Guarda tu se bisognava aspettare così tanto, per avere questo libro. Questi sette racconti - Icaro (Mondadori, pp. 101, euro 12) - che sono stati scritti sull’arco di oltre quarant’anni e che, finora, erano rimasti pressoché sconosciuti. Guarda tu se bisognava aspettare il 2008, per avere un’immagine così nitida di ciò che sa fare Guccini quando si mette ad imbastire racconti di pura fantasia e scritti esclusivamente in italiano, abbandonando in un sol colpo gli scenari autobiografici e i richiami del dialetto. Se non fosse paradossale, vista la sua età e tutto il resto, verrebbe da spendere parole di incoraggiamento, come davanti a un esordiente di belle speranze. Verrebbe da sollecitare nuovi racconti, possibilmente più lunghi e in maggior numero, e persino da auspicare un romanzo, di quelli così ampi e corposi che ti ci puoi sprofondare fino a sentirteli vicini come la tua stessa vita. Questo nuovo scrittore, si direbbe nell’ipotetica recensione, mostra di prediligere la massima sintesi nello sviluppo delle storie e un’estrema sobrietà nell’uso del linguaggio; eppure, al di là delle apparenze, si avverte in lui un tale piacere nel narrare, e un tale interesse a scandagliare l’animo umano, da far presagire la possibilità di intrecci di ben altra ampiezza, con ritratti meno stringati e descrizioni (invenzioni) a briglia sciolta.
Stando così le cose, invece, bisogna accontentarsi di accogliere questi sette racconti come un regalo inaspettato, che potrebbe anche non avere nessun seguito. Guccini compirà 68 anni il 14 giugno prossimo. Ma non è questo il punto. Se lui fosse davvero uno scrittore esordiente, un talento tardivo come lo è stato il suo amico Camilleri, si potrebbe comunque sperare che la sorgente, ora che è finalmente affiorata, continui a sgorgare a lungo, per chissà quanto tempo. La vita già trascorsa come un immenso bacino sotterraneo da cui alimentarsi. L’esperienza accumulata che va a controbilanciare, per quanto possibile, la mancanza di un avvenire ancora più esteso.
Non è così, ovviamente. Guccini, lungo tutti questi anni, ha già scritto moltissimo, solo che lo ha fatto utilizzando altri mezzi espressivi. Innanzitutto le canzoni, disseminate nei sedici album, live e antologie esclusi, che si sono succeduti a partire da Folk Beat n°1 del 1968 fino all’ultimo Ritratti del 2004. Poi i libri: dalla trilogia spiccatamente autobiografica che comincia nel 1989 con Croniche epafàniche, si dipana nel 1993 con Vacca d’un cane e si conclude nel 2003 con Cittanòva Blues, ai cinque romanzi scritti insieme a Loriano Macchiavelli, tutti incentrati sulle indagini del maresciallo Benedetto Santovito.
E’ questo il problema. E’ che Guccini ha ormai riversato i suoi pensieri e le sue esperienze in altri ambiti, e lo ha fatto con un’assiduità e un acume che non può non aver ridotto enormemente, se non proprio azzerato, le sue riserve di osservazioni sul mondo reale e di fantasticherie su quelli immaginari. Vero: gran parte delle sue canzoni non si prestano a una trasposizione narrativa, ma ve ne sono svariate altre che sono dei veri e propri racconti adattati alla musica. Storie, e personaggi, che potrebbero persino avere qualcosa da guadagnare, una volta liberate dalle costrizioni della metrica – con tutti i vincoli di lunghezza e di accentazione dei versi – e messe in condizione di espandersi ulteriormente.
Pensiamo, per citare soltanto tre brani, peraltro sopravvenuti a distanza di parecchio tempo l’uno dall’altro, a Il frate (L’isola non trovata – 1971), ad Autogrill (Guccini – 1983) e a Cencio (Quello che non – 1990). Il primo e il terzo ruotano intorno a figure che aspettano solo di essere poste al centro di un racconto; il secondo è una situazione narrativa bell’e pronta. Vien da sé: se Guccini non ne avesse fatto delle canzoni, del resto assai ben riuscite, il loro potenziale non sarebbe andato perso. Si sarebbe incanalato altrove. Simmetricamente, almeno quattro dei sette racconti di Icaro potrebbero essere trasformati con relativa facilità in altrettante canzoni. Togliamo Buona domenica, Miguel, che ruota intorno al contrasto tra culture diverse e che, perciò, sembra impossibile da ricondurre nella struttura delle canzoni, che fondamentalmente è quella del monologo; e togliamo anche L’anana e La scimmia: il primo perché è sì drammatico ma ha implicazioni esistenziali troppo vaghe; il secondo perchè è sì grottesco, ma non così efficace, e sorprendente, da reggere il confronto, per restare allo stesso Guccini, coi pezzi di Opera buffa. Gli altri quattro, al contrario, hanno le carte in regola. Abbastanza circoscritti da poter essere sintetizzati in un pugno di strofe. Abbastanza carichi di significati metaforici, al di là della loro solidità narrativa, da giustificare il passaggio dalla prosa alla poesia. A quella poesia allargata che sono le canzoni di miglior fattura, con il loro indissolubile amalgama di versi e di melodie. Chissà. Forse, o presto o tardi, succederà davvero che qualcun altro (non Guccini, certamente) si cimenti nel tentativo di prendere uno di questi racconti, per esempio Icaro o Josè Pasculli, e di riscriverlo in forma di canzone. Di tradurlo, in forma di canzone.
Icaro: l’incontro tra un ragazzino che è già intriso di razionalità e un adulto che crede ai suoi sogni ed è convinto, assolutamente convinto, che volare come gli uccelli non sia affatto impossibile. «Bisogna solo trovare il sistema giusto. Poi bisogna anche crederci, credere di poter volare. Nessuno è mai riuscito perché nessuno è mai stato veramente convinto di riuscire.»
Josè Pasculli: un pensionato argentino di 74 anni, reduce da un leggero infarto, che il 16 giugno 1985 si ritrova a disposizione due biglietti per la partita tra Argentina e Colombia. E allora, infarto o non infarto, sforzo o non sforzo, vecchiaia o non vecchiaia, decide di andarci insieme a un suo vicino, di nome Pedro Iguaràn. «Abbiamo tutto il tempo – dice Josè – e poi un po’ di moto ci farà bene.» «Farci bene? – chiede Pedro – Come farci bene?» Lo stadio è il Monumental, dove gioca di solito il River Plate. Il match vale per le qualificazioni ai mondiali dell’86. In campo, curiosamente, ci sono due giocatori che portano gli stessi cognomi di Josè e di Pedro. Pasculli nelle file dell’Argentina; Iguaràn in quelle della Colombia.
Canzoni che potevano diventare racconti, racconti che potrebbero diventare canzoni. A Roberto Vecchioni è già accaduto non troppo tempo fa, con Il libraio di Selinunte. Bella canzone, magnifico racconto. Gli stessi vitigni possono dare uve diverse; le stesse uve possono diventare vini differenti. O magari grappe, se si ha la pazienza – e la sapienza – di cui c’è bisogno per aspettare una distillazione più lenta.
D’ora in poi, c’è da credere, Guccini si troverà assai più spesso a dover scegliere tra racconto e canzone. A valutare con maggiore attenzione se un determinato spunto è meglio indirizzarlo in una direzione o in un’altra. Quelli di Icaro, dice lui stesso, «dovevano essere i primi di una serie di racconti pensati dentro luoghi che conosco solo da turista: volevo inventare personaggi che non scaturissero da un luogo preciso della mia memoria, come nella trilogia di Croniche epafàniche, Vacca d'un cane e Cittanòva blues. Ora non scriverei più un romanzo come quei tre, che erano un gioco sulla lingua parlata, un impasto di dialetti diversi e di italiano familiare che sicuramente deve molto al mio amore per Meneghello. Ora mi interessa mettere alla prova la mia capacità di raccontare oltre la rielaborazione dell'esperienza e della memoria.»
Promettente. Resta solo il timore di cui si è detto: che la maggior parte delle cose che aveva da dire le abbia già dette. Resta la sensazione che la sua creatività, dopo le tante parole disseminate nelle canzoni e nei libri, stenti a innamorarsi di nuovo, faticando a trovare – nella realtà o nella fantasia – storie e personaggi che conquistino appieno la sua attenzione e che, strappandolo a ogni altro interesse, lo costringano alla dura disciplina dello scrivere. Anche quando non ne ha voglia. Soprattutto, quando non ne ha voglia.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000. Prima su “Ideazione.com”, poi sui quotidiani “Linea”, di cui è stato caporedattore fino al maggio scorso, e “Secolo d’Italia”.

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