lunedì 16 giugno 2008

La dilagante affabulazione di Palahniuk (di Francesco Boco)

Articolo di Francesco Boco
Dal Secolo d'Italia di sabato 14 giugno 2008
Se vi capitasse di guardare tra i vecchi libri e scartoffie delle vostre nonne è probabile che trovereste un diario di quand’erano giovani. Decenni fa era piuttosto diffusa l’abitudine di tenere un libricino che fosse una sorta di autoritratto dei momenti da ricordare. Oggi al diario in formato cartaceo si sono sostituiti i blog su internet, aggiungendo una fruibilità che li ha resi più che altro delle vetrine del narcisismo di numerosi perdigiorno. Non è comunque il caso di fare l’elogio e l’apologia dei “bei tempi” andati, cercando di invitare quanti più lettori possibile a scoprirsi scrittori o biografi di se stessi. Anche perché dopo aver letto Diary di Chuck Palahniuk, solo l’idea di iniziare a tenere un diario ci farebbe correre un brivido lungo la schiena. Ci ha pensato la Mondadori (Diary, pp. 287, euro 9), con una ristampa tascabile di questi giorni, a ricordarci che “the cult 2005”, come viene anche chiamato nel web, è vivo, vegeto e sempre dietro l’angolo, pronto a girare il coltello nella piaga dell’uomo moderno. Perché in tutti i romanzi dell’autore statunitensene ricorrono le ossessioni, paure e, soprattutto, il tema del dolore. Palahniuk parla della sofferenza, di come la gente preferisce rimanere in mezzo ai problemi per continuare a lamentarsi, a sentirsi misera, invece di capire che i problemi sono autoprodotti. I suoi racconti sono una sorta di mina, una meditazione choccante che dovrebbe spingere all’illuminazione: come l’acido sulla mano in Fight Club, come l’incendio della casa in Invisibile monsters, come la catastrofe travolgente e indescrivibile di Survivor. Un brusco ritorno alla realtà. «Questa è la tua vita, e sta finendo un minuto alla volta», dice Tyler Durden in Fight Club.
Se si è guadagnato lo status di autore “cult” significa che nel giro di qualche anno effettivamente ha lasciato il segno, e lo stile di Palahniuk ha mietuto consensi in gran parte del mondo giovanile. E girando nei forum non è difficile scovare discussioni sui suoi libri. Le sue opere sono come dei manuali di sopravvivenza, pieni di informazioni, di curiosità e di cose che sembrano non c’entrare nulla, ma che in un modo o nell’altro possono aiutarci a cavarcela nella vita di tutti i giorni. Molto stradaiolo.
Il testo appena ripubblicato è un’opera matura di Palahniuk, ed è costruita su un intreccio complesso e caotico, composito, forse più di quanto ci avesse abituati in passato. Molti suoi fan del sito chuckpalahniuk.it sembrano aver gradito il racconto in questione, ed è sicuramente impossibile rimanere indifferenti,una volta terminata la lettura. Come in ogni altro lavoro dello statunitense niente è come sembra, le cose, strada facendo, si riveleranno sempre più complesse e la realtà molto più incasinata di quanto potessimo pensare. Ogni suo libro ha poi, evidentemente, una diversa “risalita” dall’abisso, ma non si tratta mai di un lieto fine, quanto piuttosto di un placebo, di un contentino che lascia l’amaro in bocca, come se ora toccasse a noi proseguire quanto letto fin a quel momento. I testi di Chuck Palahniuk non lasciano indifferenti, possono respingere sin dalle prime pagine, ma non possono non indurre a pensare.
«Il tempo previsto per oggi è inquietudine crescente seguita da terrore conclamato»: Diary è il diario che Misty, “regina delle schiave”, decide di tenere nella speranza e nell’attesa che il marito Peter si risvegli dal coma vegetativo in cui è caduto dopo un apparente suicidio, compiuto chiuso in auto, in garage. Nel frattempo continua a ricevere chiamate di persone che vogliono parlare col marito, responsabile della scomparsa dalle loro case del soggiorno, dello stanzino, della cucina, della stanza per gli ospiti. E ogni volta la scena si ripete: stanze murate al cui interno si celano i graffiti deliranti della memoria di Peter. Diary è come un diario nel diario, un continuo e insistente proporre il motivo dell’autoritratto e del parlare di sé sotto diverse forme, siano queste deliranti graffiti anticipatori di una fine impensabile, siano i quadri che Misty riprenderà gradualmente a dipingere nel corso della vicenda.
In fondo, le stanze murate dal marito, sono come una sorta di amnesie al di fuori del tempo, in cui Misty fa in conti con la follia del marito, con quei ricordi e pensieri che, ingigantiti, ha voluto lasciare in ogni casa; come usano fare con maggior garbo e moderazione gli operai che lasciano su una piastrella o su unmuro da dipingere una piccola data o un nome, come a ricordare che lì, una volta, è passata una persona. L’insistenza di tutto il libro martella sull’idea della memoria, del ricordo e sul perdurare di esso. Ritorna spesso l’idea che i grandi pittori e artisti sono state delle persone sofferenti, tubercolotici, sifilitici, pazzi e chi più ne ha più ne metta: la sofferenza, ripetono il marito Peter prima, e la suocera Grace, poi, è necessaria all’artista affinché crei la sua opera immortale. E allora dolore e arte, diario e autoritratto si intrecciano per condurre lungo una china irreversibile e irrecuperabile. Non si tratta soltanto di un diario scritto, perché nel momento in cui la protagonista riprende a dipingere diventa anche un diario per immagini.
Ma se fino a un certo punto la storia sembrerà sì grottesca, ma tutto sommato non così folle come ci viene prospettato nel risvolto di copertina, si giungerà poi al momento in cui tutto prenderà una piega differente, folle e sinistra: gli eventi si indirizzeranno verso una conclusione impensabile. Un colpo di scena da perdere il fiato, e alla fine, una pensiero andrà alle parole di Nietzsche sull’Eterno ritorno, cosa che pochi sarebbero in grado di sopportare. Idea confermata dalla scritta sulla portiera dell’auto: «Bonner & Mills – per quando non hai più voglia di ricominciare da capo».
Non è il caso di negare il piacere della lettura a chi si fosse incuriosito dilungandosi sulle parti conclusive del libro, seppure siano le più interessanti. È bene che ciascuno colga dalla lettura un’impressione personale. Come detto, Diary, così come gli altri testi di Palahniuk non lascia indifferenti, ma è capace di scuotere le nostre certezze, di farci riflettere anche con frasi brevi ma costruite in modo incisivo. L’autore suggerisce, ammicca, ma ciascuno deve poi trovare la sua uscita dal dedalo di inquietante follia assemblato dalla sua penna.
A Chuck Palahniuk è dedicato un sito americano intitolato molto chiaramente “the cult”, a indicare che i suoi libri non sono soltanto dei volumi ammassati nelle librerie di mezzo mondo, ma che il suo nome e la sua opera sono ormai un fenomeno sociale di un certo spessore. Ci sono magliette con grafica minimale dedicate ai suoi libri più belli e il dvd dal titolo “cartoline dal futuro”. Nei suoi racconti il nostro ha sempre assemblato e colorito fatti della vita quotidiana, ma è quanto meno curioso e segno di una particolare sensibilità, il fatto che i fight club, da pura invenzione narrativa dell’americano, siano poi divenuti una realtà assai diffusa. Una sorta di contrappasso.
Le imminenti novità riguardanti lo scrittore statunitense sono la prossima uscita del libro Snuff, il diario di tre porno attori impegnati nell’orgia più grande del cinema hard, e l’uscita ancor più vicina del film Choke, soffocare, di cui gira già il trailer; sarà poi la volta, pare, di Survivor, diretto da Francis Lawrence, già regista di Io sono leggenda, film in cui s’è preso più d’una “licenza artistica” rispetto al romanzo originale. I fans italiani del sito riportato poco sopra sembrano poco fiduciosi su questa sospetta iperattività non solo scrittoria “del Palah”, come lo chiamano amichevolmente.
Da parte nostra possiamo solo augurarci che Palahniuk continui a choccarci con le sue follie tascabili, così che possa ancora pungolarci e spronarci verso una “illuminazione” tutta personale che non ha nulla a che vedere con le “fughe dal mondo” contestate dallo Zarathustra nietzscheano, ma significa piuttosto il ritorno a una vita cosciente, consapevole e vissuta appieno. La riscoperta dell’esserci autentico, per dirla con Heidegger.
Francesco Boco. Nato nel 1984, è specializzando in Filosofia con una tesi su Oswald Spengler e Martin Heidegger. Ha tradotto e curato il saggio di Guillaume Faye su Heidegger, Per farla finita col nichilismo. Collabora a quotidiani e riviste, tra cui: Secolo d’Italia, Letteratura-Tradizione, Divenire e siti web come http://www.uomo-libero.com/ .

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