lunedì 16 giugno 2008

In salotto con Joe Strummer per rivivere l'incendio del punk (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 15 giugno 2008
Che bel film, questo film di Julian Temple che si intitola Il futuro non è scritto e che ripercorre la vita di Joe Strummer, morto d’infarto il 22 dicembre 2002 a soli cinquant’anni. Uscito nelle sale cinematografiche appena tre mesi fa, viene ora riproposto in dvd: ovverosia, visto che si tratta di un documentario il cui fine non è certo la spettacolarità da grande schermo, nel formato ideale per incontrarlo. Per fermarsi dove si vuole e per tornare indietro a riascoltare una certa frase. A osservare una determinata scena. Una particolare espressione.
«Intendo celebrare Joe come amico – sottolinea il regista – ma voglio anche diffondere le sue idee. Dopo la sua morte molti di noi sono rimasti sconvolti e ci sono voluti anni per riprendersi da questa perdita che ha significato anche privarsi della sua energia vitale. Il film è stato per noi una sorta di veglia per accompagnarlo alla sua dimora eterna.»
La vita di Joe Strummer. E quindi, innanzitutto, la sua esperienza coi Clash, massimi esponenti, insieme ai Sex Pistols, sull’onda dei Sex Pistols, della rivolta punk esplosa in Inghilterra a metà degli anni Settanta. I Clash che presero il fuoco del punk, acceso da Johnny Rotten, e lo irrobustirono più di chiunque altro. A che servivano, dei focolai isolati? Servivano, invece, bracieri che non si spegnessero mai, così da permettere ai poveri, e ai delusi, di scaldarsi ogni volta che ne avevano bisogno; servivano fornaci in cui temprare tutto il ferro che si poteva trovare in giro: questo qui può diventare un buon utensile, quest’altro potrebbe diventare un’arma. Appicca un incendio ogni tanto e sei solo un teppista; fallo sistematicamente – dando fuoco ai simboli del potere, bruciandoli in pubblico e spiegando il perchè – e ti avvicini a essere un rivoluzionario.
«Rivolta bianca… voglio ribellarmi. Rivolta bianca… una rivolta che sia mia. Tutto il potere nelle mani di gente abbastanza ricca per comprarselo, mentre noi camminiamo per strada, troppo polli anche solo per provarci. Prendi il controllo o prendi ordini? Vai indietro o vai avanti?»
White Riot esce nel marzo 1977 e dice già tutto. Primo singolo e manifesto definitivo. Non è un’insofferenza soggettiva. Non è una rivendicazione locale da affidare al deputato del collegio o ai rappresentanti del sindacato. È un rifiuto a tutto campo, istintivo ma per nulla epidermico. Un’incompatibilità che rimbomba nel cuore ma che, se necessario, può rivestirsi di tutti i concetti che vuoi. «La cupidigia non porta a niente», ribadirà Joe Strummer molti anni dopo. «Dovrebbero scriverlo su un cartellone a Times Square».
I Clash partono forte, prendono subito velocità e scalano le classifiche. All’inizio solo in Inghilterra, in attesa che la Cbs si convinca a pubblicarli anche in America. A fine 1979 arriva il doppio, trascinante, magistrale London Calling, e si innesca la classica reazione a catena del successo che si alimenta da sé. Più gente lo compra, più altra gente decide (decide?!) di fare lo stesso. Meraviglioso, se pensi solo alla musica e ti illudi che l’acquisto equivalga alla comprensione. Allarmante, invece, se ti metti a riflettere su quello che si muove sotto la superficie, determinando non solo ciò che accade ora ma ciò che ne resterà in seguito. E che, una volta passata l’ubriacatura collettiva, ne stabilirà il vero significato. L’effettiva persistenza. Il vero valore.
Joe Strummer è il primo, a sentire puzza di bruciato. Stava cercando un popolo da risvegliare e si ritrova un pubblico da compiacere. Voleva un palcoscenico su cui salire per farsi capire meglio, e dal quale scendere non appena finito, e si ritrova inchiodato su un piedistallo. Che razza di stronzata è, questo apprezzamento che degenera in esaltazione? Siamo qui per liberarci dei feticci che ci hanno imposto e non facciamo altro che sostituirli con altri idoli? Abbiamo rifiutato le vecchie rock-star solo per inchinarci a qualche nuova punk-star?
All’inizio sono solo dubbi, suscitati più dai comportamenti altrui che da divergenze interne. Alla lunga diventeranno la causa dello scioglimento del gruppo. L’ipotesi di coinvolgere i fan in una vera e propria battaglia politica, per di più a tempo indeterminato, si dimostrerà impraticabile. «Quando si vuole distruggere un sistema bisogna avere una soluzione di ricambio che funzioni. È forse a causa di questa confusione, di questa impasse ideologica che i Clash hanno finito per esplodere. Avevamo detto tutto. Avevamo sputato il nostro disgusto verso quello che non andava nella nostra società, ma non potevamo andare oltre, non avevamo una soluzione costruttiva da proporre. A meno di non ripetersi in eterno nel vuoto, era meglio fermarsi. È forse un giudizio severo su di me e sul gruppo, ma credo che sia lucido.»
Gli anni successivi saranno anni difficili, per lui. Anni di ripensamento e di ricostruzione. Di ritorno nell’ombra di una vita ordinaria, a capire che cosa si può fare, che cosa vale la pena di fare, dopo che si è chiusa un’esperienza irripetibile come quella dei Clash. Il sogno di cambiare il mondo si era rivelato troppo grande e obiettivamente irrealistico, ma quanto era difficile rinunciarvi. Quanto era difficile sostituirlo con qualcos’altro che scaldasse a sua volta il cuore, ma che non ubriacasse la mente.
La soluzione è affiorata a poco a poco. A poco a poco, è tornato il piacere della musica, del suonare volentieri per chi sa ancora distinguere tra un applauso entusiasta e un osanna isterico. Prima un tour coi Pogues, nella veste meno impegnativa, e a suo modo rassicurante, di secondo chitarrista; poi, nel 1995, la creazione di un nuovo gruppo tutto suo, i Mescaleros.
C’è anche questo, nel film di Julian Temple. C’è questa bella sequenza in cui Joe Strummer, ormai rimosso dalle copertine delle riviste e perciò irriconoscibile da parte dei più, si mette per strada a distribuire volantini per pubblicizzare il concerto che farà quella sera. Modesto, sobrio, sereno. Adulto. «Essere adulti – ha detto egli stesso – significa trattare bene i tuoi simili».
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000. Prima su “Ideazione.com”, poi sui quotidiani “Linea”, di cui è stato caporedattore fino al maggio scorso, e “Secolo d’Italia”.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Mi ha commosso, Federico, questo tuo articolo. Perchè Strummer è uno di quei geni che hanno pure fatto delle scelte sbagliate, però non si è mai tirato indietro, non è ha preso la scorciatoia di permettersi qualunque imbecillità per poi giustificarsi in quanto star.

E poi i Clash rimangono la mia band preferita. Non tanto quelli punk, seppure trascinanti, ma quelli che il punk lo hanno travalicato per un suono che ha rivisto con ribellione e anticonformismo l'intera storia della musica giovanile. Quelli di due capolavori che ci saranno ancora tra 100 anni: "London Calling" (c'è il punk, il pop, il reagghe, il rock'a billy, lo ska e quant'altro, eppure tutto marchiato Clash, personalissimo) e "Sandinista" (che s'inventa crossower, anticipa la world, riesce dove gli U2 poi falliranno cn "Rattle and hum").
Grandi Clash. L'ultima band prima della musica di plastica!

Anonimo ha detto...

Grazie. Mi sarebbe piaciuto scriverne più a fondo (in realtà lo avevo fatto, prima che la lunghezza diventasse eccessiva e mi imponesse un drastico ridimensionamento) e mi rendo conto che l'articolo, per chi i Clash non li conosce già, sia fin troppo sommario. Che diamine: appena un accenno su “London Calling” e nemmeno una parola su “Sandinista”... Ma la scommessa è sempre quella: scegliere poche cose, tra le moltissime a disposizione, e sperare che siano sufficienti a definire un quadro d’insieme. O, quanto meno, a rendere gli artisti di cui si parla abbastanza interessanti da spingere i lettori a volerne sapere di più.
PS Per chi ha visto il film di Julian Temple: che peccato, non aver scritto nulla di nulla sulla (sacrosanta) passione di Strummer per le riunioni di amici davanti ai falò.