Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale 8 giugno 2008
Mai dimenticarlo: c’è intelligenza, nei Radiohead. Non solo talento artistico. Intelligenza. Non solo capacità di comporre brani affascinanti – e interessanti a prescindere dal fatto che siano, o che ci sembrino, piacevoli e attraenti – ma determinazione a non gloriarsi di nulla, ad andare avanti comunque, a cambiare prospettiva e a rimettersi continuamente in gioco.
La maggioranza è a caccia di risposte, impaziente di concludere la partita e precipitarsi sotto la doccia. Impaziente di tornare a casa. O, tutt’al più, di correre al party di festeggiamento, se c’è: là dove tutto sarà gratuito e il buffet, si spera, leggendario. Loro, quelli come loro, sono a caccia di conseguenze. Usano le domande, i dubbi, ogni forma di incertezza, e addirittura di malessere, come altrettanti catalizzatori di reazioni imprevedibili. I tecnici vogliono certezze, gli studiosi inseguono scoperte. Le puttane del pop si preoccupano delle vendite. I Radiohead si chiedono se la loro musica è abbastanza buona da meritare di essere ascoltata.
Oggi va tutto bene, per loro. Esaurito il rapporto con la Emi, che ebbe il merito di scoprirli per prima ma anche la fortuna di metterli sotto contratto nonostante altre etichette importanti si fossero fatte avanti nel frattempo, Thom Yorke e soci sono padroni assoluti di se stessi. Non che in precedenza fossero tipi da lasciarsi condizionare e da scendere a compromessi, ma ora, a partire dal 2005, non hanno nemmeno bisogno di porsi il problema e di dire di no, implicitamente o esplicitamente. Oggi, come hanno dimostrato gli ottimi riscontri di critica e di pubblico ottenuti dal loro ultimo album, il convincente In Rainbows, il gruppo gode di un credito tanto ampio da apparire quasi incondizionato. Soprattutto, ed è questo che li mette nella condizione ideale per proseguire a tempo indeterminato il proprio percorso creativo, l’apprezzamento nei loro confronti mostra chiaramente di andare ben al di là di qualsiasi suggestione transitoria: non tanto perché dall’exploit di Ok Computer sono ormai trascorsi più di dieci anni, quanto perché, da allora in poi, la loro musica si è rinnovata a più riprese, spazzando via anche solo l’ipotesi che il successo sia legato a una moda passeggera, tramontata la quale si offuscherebbe automaticamente anche la loro stella.
I Radiohead – cosa che si può dire, purtroppo, di ben pochi artisti, sia pure di talento – sono in perenne evoluzione. Lo sono stati all’inizio, quando ancora di chiamavano On A Friday e non avevano pubblicato un bel niente, e lo sono rimasti in seguito, anche quando i loro dischi hanno cominciato a vendere bene e, sai com’è, ci poteva essere la tentazione di trasformare ogni intuizione azzeccata in una stramaledetta formula. Prendi Creep, per esempio. Ignorata in Inghilterra, al momento dell’uscita, ma accolta assai bene negli Usa. Musica accattivante (e in apparenza assai semplice) e parole romantiche, a modo loro. La sofferenza di un giovanotto insicuro che non si sente per nulla all’altezza della ragazza di cui è innamorato. «Prima, quando eri qui, non riuscivo a guardarti negli occhi. Sei come un angelo, la tua pelle mi fa piangere, volteggi come una piuma in un mondo meraviglioso. Vorrei essere speciale; cazzo, tu sei così speciale. Ma io sono uno sfigato, sono strano. Che diavolo ci faccio qui?»
Chi si ferma alla superficie pensa di trovarsi di fronte a una tipica “One-hit wonder”, l’ennesima band di sconosciuti che indovina un solo pezzo e poi, nel giro di una stagione o due, torna ad affondare nell'anonimato. Loro, i Radiohead, oscillano tra la soddisfazione e la perplessità: «Non credo di riuscire a spiegare cos’è che piace agli americani di noi», dichiara un sorpreso Thom Yorke. E in seguito, quando Creep sarà ormai diventato il brano con cui tutti li identificano, il gruppo vivrà una vera e propria crisi di rigetto. Prima inizierà a riferirsi alla canzone chiamandola sbrigativamente, e un po’ spregiativamente, «quel pezzo»; poi assumerà una decisione tanto drastica quanto esemplare: smettere di eseguire il brano nei concerti. Bye bye, Creep. Bye bye, “One-hit wonder”.
Giù il cappello. Col senno di poi è solo un aneddoto gustoso, da accogliere più con un cenno di approvazione che con un applauso a scena aperta. Acquisito l’happy end, i rischi che si è accollato l’eroe di turno si sottoscrivono a cuor leggero: avremmo fatto altrettanto pure noi, come dubitarne?
Magari, però, non è stata nemmeno questione di coraggio. Magari, e sarebbe anche meglio, è dipeso tutto da una sana insofferenza per ogni genere di gabbia. Per ogni genere di pressione illegittima, ivi incluso il sottile, subdolo ricatto che si cela nell’ammirazione altrui. Quello che per te era solo un gesto, un discorso, un comportamento tra i tanti che potevi avere in quelle particolari circostanze, viene percepito come una rivelazione definitiva. Viene assunto come l’anteprima di innumerevoli altri gesti-discorsi-comportamenti della stessa identica natura.
«Un disco – dice Thom Yorke – non deve essere la conferma di qualcosa. Grazie al download mi piacerebbe far uscire dei singoli, magari prima di andare in tour. Forse in futuro lavoreremo in due o tre alla volta. Non abbiamo firmato un patto col sangue.»
Ma intanto gli anni passano. E loro cinque sono ancora insieme. Ancora gli stessi cinque ragazzi di Oxford che si conobbero, e si scelsero, negli anni Ottanta, quando studiavano all’Abingdon College. La musica come passione, come curiosità, come libertà di fare qualcosa che non ha bisogno di nessuno scopo aggiuntivo, per indurti ad insistere. «Nel 1989-1990 – ha ricordato il chitarrista Ed O’Brien – cominciammo a riordinare le idee e per la prima volta prendemmo seriamente in considerazione la possibilità di fare un disco, una volta finita la scuola. I REM e i Pixies erano i gruppi di cui parlavamo dopo le prove, seduti al pub a berci una birra. “Loro ce l’hanno fatta, dobbiamo provarci anche noi”. Loro avevano un’etica, qualcosa che andava ben al di là della musica.»
La maggioranza è a caccia di risposte, impaziente di concludere la partita e precipitarsi sotto la doccia. Impaziente di tornare a casa. O, tutt’al più, di correre al party di festeggiamento, se c’è: là dove tutto sarà gratuito e il buffet, si spera, leggendario. Loro, quelli come loro, sono a caccia di conseguenze. Usano le domande, i dubbi, ogni forma di incertezza, e addirittura di malessere, come altrettanti catalizzatori di reazioni imprevedibili. I tecnici vogliono certezze, gli studiosi inseguono scoperte. Le puttane del pop si preoccupano delle vendite. I Radiohead si chiedono se la loro musica è abbastanza buona da meritare di essere ascoltata.
Oggi va tutto bene, per loro. Esaurito il rapporto con la Emi, che ebbe il merito di scoprirli per prima ma anche la fortuna di metterli sotto contratto nonostante altre etichette importanti si fossero fatte avanti nel frattempo, Thom Yorke e soci sono padroni assoluti di se stessi. Non che in precedenza fossero tipi da lasciarsi condizionare e da scendere a compromessi, ma ora, a partire dal 2005, non hanno nemmeno bisogno di porsi il problema e di dire di no, implicitamente o esplicitamente. Oggi, come hanno dimostrato gli ottimi riscontri di critica e di pubblico ottenuti dal loro ultimo album, il convincente In Rainbows, il gruppo gode di un credito tanto ampio da apparire quasi incondizionato. Soprattutto, ed è questo che li mette nella condizione ideale per proseguire a tempo indeterminato il proprio percorso creativo, l’apprezzamento nei loro confronti mostra chiaramente di andare ben al di là di qualsiasi suggestione transitoria: non tanto perché dall’exploit di Ok Computer sono ormai trascorsi più di dieci anni, quanto perché, da allora in poi, la loro musica si è rinnovata a più riprese, spazzando via anche solo l’ipotesi che il successo sia legato a una moda passeggera, tramontata la quale si offuscherebbe automaticamente anche la loro stella.
I Radiohead – cosa che si può dire, purtroppo, di ben pochi artisti, sia pure di talento – sono in perenne evoluzione. Lo sono stati all’inizio, quando ancora di chiamavano On A Friday e non avevano pubblicato un bel niente, e lo sono rimasti in seguito, anche quando i loro dischi hanno cominciato a vendere bene e, sai com’è, ci poteva essere la tentazione di trasformare ogni intuizione azzeccata in una stramaledetta formula. Prendi Creep, per esempio. Ignorata in Inghilterra, al momento dell’uscita, ma accolta assai bene negli Usa. Musica accattivante (e in apparenza assai semplice) e parole romantiche, a modo loro. La sofferenza di un giovanotto insicuro che non si sente per nulla all’altezza della ragazza di cui è innamorato. «Prima, quando eri qui, non riuscivo a guardarti negli occhi. Sei come un angelo, la tua pelle mi fa piangere, volteggi come una piuma in un mondo meraviglioso. Vorrei essere speciale; cazzo, tu sei così speciale. Ma io sono uno sfigato, sono strano. Che diavolo ci faccio qui?»
Chi si ferma alla superficie pensa di trovarsi di fronte a una tipica “One-hit wonder”, l’ennesima band di sconosciuti che indovina un solo pezzo e poi, nel giro di una stagione o due, torna ad affondare nell'anonimato. Loro, i Radiohead, oscillano tra la soddisfazione e la perplessità: «Non credo di riuscire a spiegare cos’è che piace agli americani di noi», dichiara un sorpreso Thom Yorke. E in seguito, quando Creep sarà ormai diventato il brano con cui tutti li identificano, il gruppo vivrà una vera e propria crisi di rigetto. Prima inizierà a riferirsi alla canzone chiamandola sbrigativamente, e un po’ spregiativamente, «quel pezzo»; poi assumerà una decisione tanto drastica quanto esemplare: smettere di eseguire il brano nei concerti. Bye bye, Creep. Bye bye, “One-hit wonder”.
Giù il cappello. Col senno di poi è solo un aneddoto gustoso, da accogliere più con un cenno di approvazione che con un applauso a scena aperta. Acquisito l’happy end, i rischi che si è accollato l’eroe di turno si sottoscrivono a cuor leggero: avremmo fatto altrettanto pure noi, come dubitarne?
Magari, però, non è stata nemmeno questione di coraggio. Magari, e sarebbe anche meglio, è dipeso tutto da una sana insofferenza per ogni genere di gabbia. Per ogni genere di pressione illegittima, ivi incluso il sottile, subdolo ricatto che si cela nell’ammirazione altrui. Quello che per te era solo un gesto, un discorso, un comportamento tra i tanti che potevi avere in quelle particolari circostanze, viene percepito come una rivelazione definitiva. Viene assunto come l’anteprima di innumerevoli altri gesti-discorsi-comportamenti della stessa identica natura.
«Un disco – dice Thom Yorke – non deve essere la conferma di qualcosa. Grazie al download mi piacerebbe far uscire dei singoli, magari prima di andare in tour. Forse in futuro lavoreremo in due o tre alla volta. Non abbiamo firmato un patto col sangue.»
Ma intanto gli anni passano. E loro cinque sono ancora insieme. Ancora gli stessi cinque ragazzi di Oxford che si conobbero, e si scelsero, negli anni Ottanta, quando studiavano all’Abingdon College. La musica come passione, come curiosità, come libertà di fare qualcosa che non ha bisogno di nessuno scopo aggiuntivo, per indurti ad insistere. «Nel 1989-1990 – ha ricordato il chitarrista Ed O’Brien – cominciammo a riordinare le idee e per la prima volta prendemmo seriamente in considerazione la possibilità di fare un disco, una volta finita la scuola. I REM e i Pixies erano i gruppi di cui parlavamo dopo le prove, seduti al pub a berci una birra. “Loro ce l’hanno fatta, dobbiamo provarci anche noi”. Loro avevano un’etica, qualcosa che andava ben al di là della musica.»
Non c’è solo intelligenza, nei Radiohead.
6 commenti:
Bellissimo articolo, caro Federico:
da anni, musicalmente, sono fermo a certa musica alternativa degli anni 80 (Cure, Talking Heads ecc), e per il resto mi rimane qualche grande disco di Prince. Per il resto sono monotematico: Miles Davis e Coltrane. Il jazz italiano non è male, anche se delle volte il rischio midcult è all'angolo...
Bé... questo per dire che i Radiohead per me sono un'eccezione: li ho scoperti con Kid A e l'acquisto di OK Computer è stato conseguente. E' vero: belle o brutte che siano, le loro canzoni sono lontane (quasi sempre) da ogni manierismo e retorica). L'altra band (?) che apprezzo, sebbene a stralci, sono i Nine Inch Nails: Reznor non si ferma mai, ha deciso di prendere il suo tempo alla gola come nessun altro. Ma devo anche riconoscere che dopo The Fragile la sua creatività si è un po' affievolita, pur dandoci degli album discreti. Ghosts è molto bello, però non sarà epocale dal punto di vista del "messaggio".
La mia ignoranza in campo musicale è manifesta. Gli articoli di Federico mi aiutano a colmare le mie disastrose lacune. L'unico concerto della mia vita risale al 1986 a Roma, gli U2. Ricordo che quando tutti iniziarono a zompettare come forsennati la mia unica preoccupazione fu rimanere in vita e uscire con le mie gambe dallo stadio (Olimpico, mi sembra). Persi lo zaino ma, considerando che a mezzanotte ero a casa, non la ritenni una grave perdita. Ho sempre ascoltato di tutto, senza problemi e grandi preferenze. Dai soft Merillion ai Police, dai cantautori italiani ai Joy Division :) E, tanto per non farmi mancare niente, ho avuto un breve periodo heavy metal (ACDC a palla!) e qualche mese dark (passati ad ascoltare i Cure). Per il resto mi sono affidato all'evergreen - pace all'anima sua - Jim Morrison. This is the end, my only friend, the end.
Quasi dimenticavo: non ho mai ascoltato i Radiohead, ma mi fido di voi.
:)
Fidati.
Se vuoi prenderli al loro culmine, naturalmente ti consiglio OK Computer: rocheggiato e straniante, con quel capolavoro in tre tempi che è "Paranoid android". Ma dentro ci sono innumerevoli perle, da "Exit Music" (da rivoltarti i sensi) a "Karma police". Ci sono poi episodi gradevoli come "Electioneering", esplicito invito al non voto.
Se invece vuoi i Radiohead più elettronici e stranianti, ti consiglio Kid A, pieno di sintetizzatori e azzardate miscele stilistiche, come la splendida "The national anthem", in cui una sorta di jazz sabbatico coniuga con ritmiche elettroniche; oppure la melanconica "How to disappear completely", impossibile da sentire senza essere investiti dai brividi; o ancora "Idioteque", cupa e accattivante.
In ogni caso, comincia a scaricarti l'ultimo In rainbows. Non te ne pentirai.
L'unico rischio è che possano sembrarti un po' deprimenti. Non farci caso. Thom Yorke è proprio depresso. Di una derpessione coerente e sublime.
Ringraziamenti a parte (niente di meglio che essere apprezzati da chi conosce, e comprende, gli artisti di cui si è scritto) lancio pubblicamente una proposta: affiancare agli articoli ripresi dal blog - sempre che Roberto sia d'accordo... - degli scritti che in un modo o nell'altro li vadano a integrare. Ad esempio, per restare ai Radiohead, le parole scritte da Claudio su di loro mi fanno pensare che lui sarebbe perfettamente in grado di espanderle in qualcosa di più ampio. Una recensione del solo Ok Computer? Una discografia ragionata? In ogni caso, qualcosa che potrebbe costituire, insieme al mio pezzo, il nucleo iniziale di un focus permanente sul gruppo di Thom Yorke. Da utente mi interesserebbe (molto) di più di un singolo articolo.
Certo che sono d'accordo. Gli articoli - per come la vedo io - dovrebbero offrire lo spunto per ulteriori interpretazioni o approfondimenti...
E i contributi di Claudio sono sempre pertinenti, oltre che ben accetti!
Rob
Bé... sapere che mi dai tutta questa competenza mi onora, Federico.
Sui Radiohead, effettivamente, sono abbastanza informato, e quando ascolto un album, di qualsiasi autore o gruppo, mi piace anche sviscerarlo tecnicamente. Non ho grosse competenze a livello musicale (conoscenza delle note...), ma grazie ad amici musicisti ho un po' i,parato a distinguere i ritmi e i tempi, influenze ecc. A volte è condizionante, perché è facile accorgersi che un artista si basa quasi esclusivamente sulla melodia per salvarsi dal plagio, mentre i ritmi e i giri sono più o meno sempre quelli. Dai Beatles e Dylan non si è più inventato nulla, e già loro giravano su eterni echi popolari...
Digressione a parte, l'idea mi piace. Sui Radiohead potrei provare a scrivere qualcosa: su "Ok computer" esiste addirittura un saggio, che analizza quest'album epocale dalla genesi alla struttura di ogni brano, quindi non direi niente di nuovo. Discografia ragionata: potrei fare un escursus su ogni album, ma il mio giudizio è molto soggettivo: considero "Kid A" il loro capolavoro insieme a "Ok computer", però molti fans non sono d'accordo, perché considerano "Kid A" un album senza capo né coda, troppo fuori dalla forma canzone. Molti prediligono "Amnesiac", nato nella stessa session di "Kid A", più strutturato, ma a mio avviso più monotono e ripetitivo (sebbene notevole anch'esso, e grande fonte per i Tiromancino). "Hail to the thief" mi piace, ma secondo me aveva qualche caduta, mentre "In rainbows" è quasi un capolavoro, in perfetto equilibrio tra forma canzone e pura digitalità. L'album del futuro, nato per l'Ipod.
Non mi sono pronunciato sui primi due lavori, perché secondo me me sono trascurabili. Se i Radiohead fossero rimasti lì, ben presto li avremmo relegati a mediocri epigoni degli U2 e dei Rem. Solo "Plastic trees" su "The bends" è puro stile Radiohead, quasi la cellula staminale che porterà a gioielli come "Exit music"e altri, quei crescendo da brivido, con la voce lamentosa di Thom Yorke.
Comunque, riguardo all'articolo, in questo periodo ho parecchie difficoltà personali che non mi consentono di concentrarmi. Ci posso provare, ma dovete avere un po' di pazienza.
Ciao.
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