Era il 17 luglio di quarant’anni fa, nel mezzo del ’68, e al London’s Saville Theatre, alla presenza dei quattro Beatles, veniva proiettato un film a cartoni animati che, per molti versi, sarà il migliore specchio di un’intera epoca: Yellow Submarine (“Il sottomarino giallo”). «Puzzle inesausto di stili grafici e arabeschi musicali, prima crociera – ha annotato Mario Serenellini su Repubblica – del disegno animato fuori delle rotte Disney, il cartoon s’immerge nella vita subacquea prosciugandola da ogni credibilità biologica e facendone un permanente teatrino del gioco, infaticabile laboratorio dell’immaginario».
All’origine c’era una canzone dei Fab Four di soli due anni prima. Il singolo Yellow Submarine era infatti stato pubblicata dai Beatles (scritto da McCartney) prima nel loro settimo album Revolver e come singolo “Doppio Lato A”, assieme ad Eleanor Rigby, il 1 giugno del 1966. Un 45 giri che in Italia arrivò esattamente il 5 agosto dello stesso anno. È quello il periodo in cui l’Occidente riscopre il surrealismo, l’India, i Ching, l’astrologia, la “quarta via” gurdjieffiana, il Tantra, la bio-energetica, il Taoismo, la via psichedelica... È il periodo in cui i giovani occidentali riscoprono l’mmaginario, è il momento in California della grande fama di Timothy Leary e di Ken Kesey, e della Haight-Ashbury Street, la strada di San Francisco il cui nucleo era costituito da un ex negozio di elettrodomestici, in cui si accumulano oggetti: manifesti e poster, indumenti orientali, giornali e riviste underground, dischi e musicassette. Ma che tutto questo, malgrado facili riflessi condizionati, non potesse facilmente essere incluso nella cultura ideologica e negli schieramenti di sinistra, lo dimostrava proprio una canzone dei Beatles, Revolution: «Tu dici che cambierai la Costituzione / Noi vogliamo cambiare la testa / Tu dici che sono le istituzioni / Tu farai meglio a liberare prima il tuo spirito. / Ma se continui a portare su di te delle foto del presidente Mao / Nessuno ti seguirà, credimi».
La diffusione della “controcultura” nel quinquennio successivo al ’63 fu – come attesta lo storico Massimo Teodori – «il fenomeno che incise maggiormente nella società inglese degli anni ’60 e che caratterizzò i processi di trasformazione di quel paese tra le masse giovanili e, attraverso di esse, dell’intera società». E all’inizio fu proprio in Gran Bretagna che nascono, nell’area centrale di Londra, moltissimi coffee bar e altri luoghi di aggregazione in cui si davano appuntamento tutti coloro che si richiamavano alla cultura beat, che leggevano il poeta e romanziere Colin Wilson, che avevano accolto con entusiasmo John Osborne e i “giovani arrabbiati”, che si riallacciavano alle avanguardie europee d’inizio secolo: surrealismo, futurismo, dadaismo... E sarà la musica pop a costituire il nuovo cemento unificante nell’immaginario, giovanile prima con una miriade di band e gruppi sparsi ovunque nel paese, successivamente con i grandi complessi che diventarono i guru delle nuove generazioni, a cominciare proprio dai quattro Beatles. «Intorno al comune linguaggio della musica – precisa Teodori – prendeva corpo quello che venne definito l’underground, trattandosi di un mondo e di una società che vivevano al di sotto di quella. Un fenomeno che coinvolse migliaia di giovani i quali diedero vita a comportamenti, a modi e forme d’espressione, a una trama di rapporti interpersonali, a un inedito stile di vita».
Ecco, proprio Yellow submarine, incisa nel 1966, viene da molti considerata la “canzone-manifesto” di tutto quel fermento, e quel sottomarino appare come la metafora di un’utopia concreta, di libertà e comunità, alludendo neanche troppo indirettamente all’idea di un’alterità dei giovani dal mondo convenzionale degli anni ’60. Del resto, non è casuale l’analogia, come suggerisce Alessandro Carrera, tra l’utopia dei Beatles e il ritratto di una giovinezza assolutamente felice e indipendente come la troviamo nei primi capitoli del Signore degli Anelli di Tolkien. E infatti la diffusione di quel libro tra i giovani di tutto il mondo avviene proprio in quegli anni». Nella seconda metà degli anni ’60 la trilogia di Tolkien nei campus statunitensi era diventata, com’è noto, “la Bibbia degli hippies” e in tutte le università americane circolavano i distintivi con la scritta «Frodo lives!» (Frodo è vivo). «In questo mondo parallelo – continua l’analogia avanzata da Carrera – in cui tutto può accadere tutte le influenze e tutte le suggestioni sono ben accette, ed ecco che i Beatles cominciano a complicare le loro canzoni, a inserire strumenti a sorpresa, trucchi di registrazione, scale e modi indiani aprendo la porta a ogni possibile contaminazione». Ed eccoci al film del 68, che trae diretta ispirazione dall’omonima canzone che aveva rappresentato il cosciente passaggio del gruppo dalle arene stipate di ragazzine strepitanti alla esplorazione di una musica frutto dello scavo delle possibilità offerte dallo studio di registrazione, ricca di nuove influenze, di spunti filosofici e di suggestioni immaginarie. Nell’estate del ’68 la situazione dei Beatles era infatti molto cambiata. Morto Brian Epstein, il manager che fungeva da collante tra le varie anime e sensibilità del gruppo, metabolizzata la Summer of Love del ’67, di cui i Fab Four erano stati straordinari protagonisti col capolavoro psichedelico Sgt. Pepper, i Beatles avevano fondato la loro etichetta, la Apple, e stavano registrando The Beatles, più noto come White Album, enciclopedica summa dello scibile beatlesiano.
Il film utilizza esplicitamente – e per la prima volta – un tipo di animazione molto lontana dal realismo e dal moralismo didascalico dei vecchi cartoon americani, dipingendo paesaggi psichedelici in cui si mischiano surrealismo e pop art. Il produttore e regista George Dunning, che aveva già lavorato a una precedente serie di cartoni animati televisivi sui Beatles, fu il supervisore principale del film, sovrintendendo a oltre 200 artisti per 11 mesi. I Beatles contribuirono alla costruzione del film soprattutto attraverso la musica, scrivendo appositamente per il progetto tre canzoni: Only A Northern Song, All Together Now e Hey Bulldog. Ci sono, al centro della vicenda raccontata nella pellicola, evidenti echi della diffusione della controcultura e della ricerca di radici fiabesche. Due, in particolare, i riferimenti che si ricollegavano al patrimonio letterario: la saga degli hobbit di John Ronald Reuel Tolkien e l’Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll.
In molti passaggi di Yellow Submarine pare di essere direttamente precipitati tra il viaggio iniziatico di Alice e, come la protagonista di Wonderland, i Beatles si allungano e rimpiccioliscono in un continuo slittamento spaziale e temporale. D’altra parte, il paese immaginario da cui la vicenda prende le mosse assomiglia molto alla Contea tolkieniana animata dal popolo degli hobbit. Il film è ambientato a Pepperland, un’Utopia sottomarina che prende il nome dal suo protettore, il Sergeant Pepper (lo stesso della Lonely Hearts Club Band). E il paese di Pepelandia (Pepperland) è infatti una terra paradisiaca e meravigliosa che si trova in fondo all’oceano e dove regnano la musica, i colori, la natura, l’allegria, l’amicizia e, soprattutto, lo spirito di comunità. Si scatena però l’orda dei Biechi Blu che pietrificano tutti gli abitanti e opprimono Pepelandia rendendo il paese grigio, silenzioso e triste. E in questo c’è qualche analogia con la successiva Storia infinita dello scrittore tedesco Michael Ende e con la sua metafora di Fantasia. L’unico che si salva è il personaggio del Giovane Fred, il quale, sfuggito ai Biechi Blu, prende il suo sommergibile giallo e va a Liverpool dove incontra i Beatles e chiede loro aiuto perché liberino Pepelandia dalla tristezza. Dal porto di Liverpool incomincia per i Fab Four una incredibile avventura tra terre e isole lunari e psichedeliche e strane creature, attraversando ben sei mari (il Mare del Tempo, il Mare della Scienza, il Mare dei Mostri, il Mare del Niente, il Mare delle Teste e il Mare dei Buchi). Attraversato quest’ultimo, i Beatles e il Giovane Fred sbarcano a Pepelandia dove incomincia la sfida finale contro i Biechi Blu che vengono sconfitti anche con l’aiuto di un bizzarro individuo, saggio e surreale, l’Uomo Inesistente.
D’un tratto Yellow Submarine cambiò il modo di fare cinema d’animazione, e lo stesso avvenne anche per la pubblicità. La regia di George Dunning e il lavoro di Heinz Edelmann, artista grafico di lingua tedesca influenzarono da lì in poi il look dei commercials, tanto è vero che da allora grandi compagnie come la 7 Up e la General Electric cominciarono a reclamizzarsi con spot a base di cartoons e campagne ispirate dal film. Dunning aveva deciso che la grafica sarebbe stata costruita attorno ai 12 brani dei Beatles, tre dei quali inediti.Tra le curiosità, c’è poi il fatto che negli Usa la canzone Hey Bulldog, riguardante un cane a tre teste, fu censurata (la versione americana del film dura infatti 85 minuti anziché gli 89 di quella europea e anche il finale è più soft, con la “conversione” dei Blue Meanies). Uno dei momenti visivamente più intriganti dell’intera pellicola è la donna che cavalca nel cielo in Lucy in the Sky with Diamonds: qui i disegni furono colorati con libere pennellate piuttosto che – com’era invece nella tecnica disneyana, ma anche della Warner e della Hanna & Barbera – con il solito inserimento delle tinte entro i bordi esatti della figura. La vernice cambiava così continuamente forma e colore e l’espressività visiva della canzone acquistava il suo bizzarro fascino onirico. In parte ci si ispirò alla Pop Art, più spesso si sfidò ogni tentativo di classificazione con uno sperimentalismo davvero innovativo per il cinema a cartoni animati.
Ovviamente i fan dei vecchi cartoon si trovarono davvero in difficoltà essendo abituati a solidi plot narrativi con personaggi ben sviluppati e ben disegnati. Difficile per loro accettare l’approccio estetico di Yellow Submarine, che si concentrava sulla fantasia creativa e permetteva
alle immagini di cambiare costantemente. Ma proprio per questo Yellow Submarine è ancora un film fresco, arricchito da brillanti e innovative intuizioni: animali surreali, l’uso di parole e numeri “viventi” e altre divertente invenzioni.
Il successo e l’entusiasmo furono tali che il 13 gennaio del 1969 i Beatles misero in circolazione anche un album onomimo, l’undicesimo disco della band. E quel “sottomarino” diventava la metafora migliore della condizione giovanile postsessantottina. C’è in essa, d’altronde, lo stesso spirito del “manifesto del beat italiano” in quattordici punti stilato, quasi contemporaneamente in Italia, da un giovane cantante esordiente, Lucio Dalla, dal paroliere Sergio Bardotti e dall’eretico-pop Piero Vivarelli. In quel manifesto, tra l’altro, si leggeva: «Una tradizione è valida solo in quanto si evolve. Altrimenti interessa i musei». E ancora: «Siamo, senza alcuna riserva, decisamente contro tutti quelli che non la pensano come noi. Prima che qualcun altro ce lo dica, riconosciamo subito da soli la necessità di aderire a quella “tendenza” che, partendo da Ray Charles, passa attraverso i Beatles e Bob Dylan». E infine: «Il nostro modo di pensare alla musica è anche il nostro modo di vivere. Noi crediamo nei giovani e lavoriamo per loro. Si può essere vecchi anche a 18 anni... Noi cerchiamo il disprezzo di tutti quelli che non pensano come noi... il resto è abbondantemente contraccambiato». Tutti, insomma, anche in Italia finirono dentro quel “sottomarino”.
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