Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 20 luglio 2008
Edoardo Bennato è ironico, è spumeggiante, è poliedrico. A volte concreto, e persino brutale, come la realtà difficile di Napoli e del Mezzogiorno; altre volte accattivante, con la speranza ma senza la garanzia dell'happy end, come le suggestioni delle fiabe. Ed è a suo modo rigoroso, come lo sono in realtà – indipendentemente da ciò che mettono in mostra - quasi tutti i personaggi di punta del rock.
Bennato cerca il pubblico ma non lo insegue più di tanto. Ama il successo ma non a qualsiasi costo. Fa la cosa giusta, e ogni tanto quella sbagliata, con la stessa sincerità caparbia, e alla fine disarmante, degli adolescenti: fa, disfa, prova, vede cosa succede (che cosa succede agli altri, che cosa succede a lui stesso) e decide di volta in volta cosa tenere e cosa buttare. Cosa mettere da parte, magari solo per ora, e cosa rispolverare alla prima occasione.
Suona in gruppo, suona col quartetto d'archi, suona con l'orchestra. Suona da solo. Suona da solo nel mezzo di uno stadio stracolmo di gente, che è lì per lui e che lo osanna, e si sprofonda nella musica. E quando le dita corrono svelte sulla chitarra, e la bocca soffia sicura nell'armonica, e le parole vengono fuori con intensità ma senza sforzo (un po' come se le avessi sempre sapute, un po' come se le stessi inventando lì per lì), c'è da scommettere che non si sente poi troppo diverso da quando era ancora agli inizi e, non avendo né uno straccio di contratto né un buco di locale in cui esibirsi, si piazzava all'angolo di una strada e faceva tutto da solo. Chitarra, armonica, tamburello, voce. One Man Band, a Londra. Un tipo strambo, qui in Italia.
Edoardo Bennato, nato a Napoli il 23 luglio 1949, si avvicina ai sessanta e non c'è dubbio che ormai, a 35 anni dal primo album e con una discografia costellata di cambiamenti, si meriterebbe senz'altro una bella biografia. Un testo che ne ripercorresse la carriera e che la intrecciasse saldamente alla vita privata. I retroscena dell'arte e i chiaroscuri dell'esistenza. Le cose che non sono mai state rivelate, o che sono finite nell'ombra, ma che vale la pena di apprendere. I dettagli che completano il quadro. I particolari del viaggio: quando la nave è in alto mare e quello che accade lo può sapere soltanto chi è a bordo. Non il pubblico, che aspetta giù al porto e vede solo la nave che arriva, quando arriva; e nemmeno la critica, che quasi sempre non fa altro che aspettare a sua volta il momento buono per poi anticipare il pubblico di un niente: salendo sulla nave quando ormai si trova a un tiro di schioppo dalla banchina ed effettuando nulla di più che una blanda ricognizione, banalizzata dall'obbligo e impigrita dal liquore offerto dal capitano (o, più spesso, dall'armatore).
Edoardo Bennato si meriterebbe una bella biografia.
Ecco, invece, che spunta fuori questo libro. Che è edito da Baldini Castoldi Dalai. Che tutto compreso, testo-immagini-parole delle canzoni, occupa poco più di 200 pagine. Che costa 16,50 euro. Che offre in omaggio un cd con dodici brani, ivi inclusi i tre inediti del recentissimo Canzoni Tour 2008. Che si intitola Edoardo Bennato Così è se vi pare. E che, sbandierandolo in copertina, promette “tutta la verità, solo la verità, nient'altro che la verità raccontata da Aldo Foglia uno degli amici di infanzia del cortile di Bagnoli”.
Come si dice, partiamo male. Che Aldo Foglia sia “uno degli amici di infanzia del cortile di Bagnoli” lo renderà, forse, interessante come fonte di informazioni, ma non è che lo legittimi di per sé al ruolo di biografo. Una biografia, infatti, non è una testimonianza all'autorità giudiziaria, che deve essere resa obbligatoriamente da chi è stato presente ai fatti. Una biografia, una buona biografia, non ha nessun bisogno che vi sia stato un rapporto diretto tra l'autore e il personaggio di cui si scrive. Anzi, si potrebbe ben dire che l'amicizia, semmai, costituisce un handicap, o quanto meno un rischio: un biografo degno di tal nome è un investigatore acuto e spregiudicato, che scruta gli indizi e va in cerca di prove; un ricercatore ostinato che non deve nascondere nulla di ciò che trova e che non riconosce nessun altro vincolo che non sia l'attendibilità delle fonti e la sua stessa onestà intellettuale.
Un amico, al contrario, è un osservatore di parte. Nella migliore delle ipotesi lo è in maniera consapevole, e allora può darsi che si sforzi di non lasciarsi condizionare troppo dall'affetto. Nella peggiore, non se ne rende nemmeno conto: scatta interi rullini e tiene solo le foto che gli piacciono (e che – pensa – piaceranno anche al suo amico), concedendosi tutt'al più qualche immagine curiosa, più buffa che imbarazzante, di cui sorridere spensierati.
Consapevole o inconsapevole, Aldo Foglia rientra pienamente in questa seconda categoria. Il peggio che riesce a dire di Bennato (anzi: di Edo, come lo chiama spesso con compiaciuta familiarità) è che è un tipo cocciuto che vuole fare di testa propria e che mal sopporta le interferenze. A parte questo, un profluvio di complimenti. Sia per il musicista che per la persona. E il tutto, come se non bastasse, con una vena polemica che si accentua man mano e che lo spinge a utilizzare a più riprese il succitato “così è se vi pare” come un intercalare sarcastico. Secondo Foglia, infatti, già dalla metà degli anni Ottanta Bennato è stato oggetto di una sorta di ostracismo da parte dei media, nonché vittima delle classiche ottusità dell'industria discografica. Risultato: svariate delle sue imprese artistiche sono state ignorate del tutto o comunque sottovalutate, negando agli ascoltatori l'opportunità di sapere ciò che egli andava realizzando e, a lui stesso, la possibilità di essere apprezzato di conseguenza.
«Quella sera (al Festival Jazz di Montreux del 1992 – NdR) suonò per primo Ligabue, poi salì sul palco il santone del blues Albert King, e infine Edo... pardon, Joe Sarnataro con i Blue Stuff. Albert, che stava seguendo dopo la sua esibizione le gesta di Edo, nei camerini, contagiato dal sound, non resistette e irruppe improvvisamente in scena come un pazzo, suonando insieme a loro È asciuto pazzo o' padrone con relativi bis e controbis. Napoletani che possano suscitare l'ammirazione e l'entusiasmo di un maestro nero del Mississippi suonando blues, credetemi è cosa più unica che rara. E così è se vi pare...»
Il tono generale del libro è questo. Roba che un tempo si trovava nelle fanzine più oltranziste e che oggi riempie i siti internet dedicati alle star da supporter tanto fervorosi quanto sprovveduti. Foglia, che oltre a essere cresciuto insieme a Bennato è anche un membro di vecchissima data del suo staff, è palesemente un biografo improvvisato, che non ha nessun altro scopo che incensare l'amico e che, a giudicare dal modo in cui scrive, non ha né talento né esperienza. Foglia confonde la biografia, che nei suoi esiti più alti sconfina nella letteratura ma che, come minimo, deve avere le qualità di un buon reportage, col memoriale. O addirittura col diario privato.
Che lui abbia maturato il desiderio di riversare la propria ammirazione in un intero volume è comprensibile; quello che non si spiega, e che non si può scusare, è che un editore del rilievo di Baldini Castoldi Dalai abbia avallato un progetto che poggiava su basi così inconsistenti. Anche senza andare al di fuori dei confini nazionali, e senza pretendere che tutti possiedano lo straordinario acume di un Greil Marcus o l'originalità stilistica di un Hunter S. Thompson, ci sono chissà quante persone in grado di fare meglio di così. Incomparabilmente meglio di così.
Messa nelle mani giuste, la vicenda umana e artistica di Bennato è una miniera di spunti che aspettano solo di essere sviluppati: il Meridione, e in particolare Napoli, tra eredità tradizionale e seduzioni moderne, a cominciare da quelle “made in Usa”; la ribellione giovanile dagli anni Sessanta in avanti; la musica presa in mezzo tra le due strumentalizzazioni opposte, ma altrettanto deteriori e ugualmente aggressive, della politicizzazione obbligatoria e della mercificazione consumistica; gli effetti della musica, e specialmente della “canzone d'autore”, sugli appassionati: ha prodotto qualche conseguenza profonda, ha lasciato un segno definitivo, ha modificato almeno un po' il modo di sentire e di pensare? Le fiabe che lo stesso Bennato ha riproposto, e reinventato, hanno continuato ad accompagnare negli anni coloro che le hanno amate a suo tempo? L'hanno capita davvero la metafora del burattino che diventa uomo e che, credendosi libero senza esserlo, è ancora più schiavo di quanto era prima?
Non è così difficile. E potrebbe bastare persino una serie di interviste, se non ci si vuole far carico di una ricostruzione più impegnativa. Tutto quello che si richiede (che non è poco, ma che è doveroso, e indispensabile) è la capacità di porre domande intelligenti e la pazienza di aspettare che anche le risposte più frammentarie si ricompongano in un quadro esauriente. Il regno degli artisti è l'intuizione; l'analisi resta a carico dei critici. La sfida è trasformare i loro lampi di luce in un'illuminazione costante, che permetta di osservare i dettagli e di capire che cosa li ha originati.
Ma a volte, per fortuna, diventa tutto più facile. Gli artisti non si limitano a creare le loro opere ma forniscono essi stessi delle spiegazioni precise. Fissano degli obiettivi. Tracciano le rotte necessarie a raggiungerli.
«Un artista – ha detto Bennato - ha il compito di scagliarsi contro l'omologazione perché vive una situazione di privilegio rispetto a chi, costretto dai doveri, dalle difficoltà o dall'interesse speculativo vi rimane dentro. Io penso che una categoria di persone che hanno la possibilità ed il dovere di muovere un po' le acque siano gli studenti universitari. Gli artisti e gli universitari hanno in comune il vantaggio di essere in un certo modo, anche se temporaneamente, al di fuori del meccanismo produttivo. E da qui la possibilità di andare contro, di provocare, di organizzare forme intelligenti di boicottaggio.»
Un artista ha il compito di scagliarsi contro l'omologazione.
Edoardo Bennato, in realtà, ha tenuto fede all'impegno per la maggior parte della sua lunghissima attività, ma non proprio sempre. Non in maniera così lucida, rigorosa, granitica, come ci si potrebbe aspettare alla luce di queste sue parole. A volte, come nel caso dell'inno dei Mondiali 1990, si è lasciato travolgere dalla tentazione di muoversi, e di esprimersi, e di avvincere il pubblico, su un piano puramente emozionale: l'appassionato di calcio che è in lui si è alleato col musicista istintivo che se la spassa nel vedere la gente che si abbandona all'onda di un ritmo scandito e di una melodia immediata, e dandosi manforte l'un con l'altro hanno messo fuori gioco l'artista smaliziato e l'uomo consapevole.
C'è forse qualcosa di più omologato del calcio, qui in Italia? Certo che no. Ma “scagliarsi contro l'omologazione” non è mica un programma sanitario che si propone, e si persegue, a esclusivo vantaggio degli altri: è innanzitutto un desiderio di cura per noi stessi, che amiamo da morire lo show ma non sopportiamo gli imbonitori.
Bennato cerca il pubblico ma non lo insegue più di tanto. Ama il successo ma non a qualsiasi costo. Fa la cosa giusta, e ogni tanto quella sbagliata, con la stessa sincerità caparbia, e alla fine disarmante, degli adolescenti: fa, disfa, prova, vede cosa succede (che cosa succede agli altri, che cosa succede a lui stesso) e decide di volta in volta cosa tenere e cosa buttare. Cosa mettere da parte, magari solo per ora, e cosa rispolverare alla prima occasione.
Suona in gruppo, suona col quartetto d'archi, suona con l'orchestra. Suona da solo. Suona da solo nel mezzo di uno stadio stracolmo di gente, che è lì per lui e che lo osanna, e si sprofonda nella musica. E quando le dita corrono svelte sulla chitarra, e la bocca soffia sicura nell'armonica, e le parole vengono fuori con intensità ma senza sforzo (un po' come se le avessi sempre sapute, un po' come se le stessi inventando lì per lì), c'è da scommettere che non si sente poi troppo diverso da quando era ancora agli inizi e, non avendo né uno straccio di contratto né un buco di locale in cui esibirsi, si piazzava all'angolo di una strada e faceva tutto da solo. Chitarra, armonica, tamburello, voce. One Man Band, a Londra. Un tipo strambo, qui in Italia.
Edoardo Bennato, nato a Napoli il 23 luglio 1949, si avvicina ai sessanta e non c'è dubbio che ormai, a 35 anni dal primo album e con una discografia costellata di cambiamenti, si meriterebbe senz'altro una bella biografia. Un testo che ne ripercorresse la carriera e che la intrecciasse saldamente alla vita privata. I retroscena dell'arte e i chiaroscuri dell'esistenza. Le cose che non sono mai state rivelate, o che sono finite nell'ombra, ma che vale la pena di apprendere. I dettagli che completano il quadro. I particolari del viaggio: quando la nave è in alto mare e quello che accade lo può sapere soltanto chi è a bordo. Non il pubblico, che aspetta giù al porto e vede solo la nave che arriva, quando arriva; e nemmeno la critica, che quasi sempre non fa altro che aspettare a sua volta il momento buono per poi anticipare il pubblico di un niente: salendo sulla nave quando ormai si trova a un tiro di schioppo dalla banchina ed effettuando nulla di più che una blanda ricognizione, banalizzata dall'obbligo e impigrita dal liquore offerto dal capitano (o, più spesso, dall'armatore).
Edoardo Bennato si meriterebbe una bella biografia.
Ecco, invece, che spunta fuori questo libro. Che è edito da Baldini Castoldi Dalai. Che tutto compreso, testo-immagini-parole delle canzoni, occupa poco più di 200 pagine. Che costa 16,50 euro. Che offre in omaggio un cd con dodici brani, ivi inclusi i tre inediti del recentissimo Canzoni Tour 2008. Che si intitola Edoardo Bennato Così è se vi pare. E che, sbandierandolo in copertina, promette “tutta la verità, solo la verità, nient'altro che la verità raccontata da Aldo Foglia uno degli amici di infanzia del cortile di Bagnoli”.
Come si dice, partiamo male. Che Aldo Foglia sia “uno degli amici di infanzia del cortile di Bagnoli” lo renderà, forse, interessante come fonte di informazioni, ma non è che lo legittimi di per sé al ruolo di biografo. Una biografia, infatti, non è una testimonianza all'autorità giudiziaria, che deve essere resa obbligatoriamente da chi è stato presente ai fatti. Una biografia, una buona biografia, non ha nessun bisogno che vi sia stato un rapporto diretto tra l'autore e il personaggio di cui si scrive. Anzi, si potrebbe ben dire che l'amicizia, semmai, costituisce un handicap, o quanto meno un rischio: un biografo degno di tal nome è un investigatore acuto e spregiudicato, che scruta gli indizi e va in cerca di prove; un ricercatore ostinato che non deve nascondere nulla di ciò che trova e che non riconosce nessun altro vincolo che non sia l'attendibilità delle fonti e la sua stessa onestà intellettuale.
Un amico, al contrario, è un osservatore di parte. Nella migliore delle ipotesi lo è in maniera consapevole, e allora può darsi che si sforzi di non lasciarsi condizionare troppo dall'affetto. Nella peggiore, non se ne rende nemmeno conto: scatta interi rullini e tiene solo le foto che gli piacciono (e che – pensa – piaceranno anche al suo amico), concedendosi tutt'al più qualche immagine curiosa, più buffa che imbarazzante, di cui sorridere spensierati.
Consapevole o inconsapevole, Aldo Foglia rientra pienamente in questa seconda categoria. Il peggio che riesce a dire di Bennato (anzi: di Edo, come lo chiama spesso con compiaciuta familiarità) è che è un tipo cocciuto che vuole fare di testa propria e che mal sopporta le interferenze. A parte questo, un profluvio di complimenti. Sia per il musicista che per la persona. E il tutto, come se non bastasse, con una vena polemica che si accentua man mano e che lo spinge a utilizzare a più riprese il succitato “così è se vi pare” come un intercalare sarcastico. Secondo Foglia, infatti, già dalla metà degli anni Ottanta Bennato è stato oggetto di una sorta di ostracismo da parte dei media, nonché vittima delle classiche ottusità dell'industria discografica. Risultato: svariate delle sue imprese artistiche sono state ignorate del tutto o comunque sottovalutate, negando agli ascoltatori l'opportunità di sapere ciò che egli andava realizzando e, a lui stesso, la possibilità di essere apprezzato di conseguenza.
«Quella sera (al Festival Jazz di Montreux del 1992 – NdR) suonò per primo Ligabue, poi salì sul palco il santone del blues Albert King, e infine Edo... pardon, Joe Sarnataro con i Blue Stuff. Albert, che stava seguendo dopo la sua esibizione le gesta di Edo, nei camerini, contagiato dal sound, non resistette e irruppe improvvisamente in scena come un pazzo, suonando insieme a loro È asciuto pazzo o' padrone con relativi bis e controbis. Napoletani che possano suscitare l'ammirazione e l'entusiasmo di un maestro nero del Mississippi suonando blues, credetemi è cosa più unica che rara. E così è se vi pare...»
Il tono generale del libro è questo. Roba che un tempo si trovava nelle fanzine più oltranziste e che oggi riempie i siti internet dedicati alle star da supporter tanto fervorosi quanto sprovveduti. Foglia, che oltre a essere cresciuto insieme a Bennato è anche un membro di vecchissima data del suo staff, è palesemente un biografo improvvisato, che non ha nessun altro scopo che incensare l'amico e che, a giudicare dal modo in cui scrive, non ha né talento né esperienza. Foglia confonde la biografia, che nei suoi esiti più alti sconfina nella letteratura ma che, come minimo, deve avere le qualità di un buon reportage, col memoriale. O addirittura col diario privato.
Che lui abbia maturato il desiderio di riversare la propria ammirazione in un intero volume è comprensibile; quello che non si spiega, e che non si può scusare, è che un editore del rilievo di Baldini Castoldi Dalai abbia avallato un progetto che poggiava su basi così inconsistenti. Anche senza andare al di fuori dei confini nazionali, e senza pretendere che tutti possiedano lo straordinario acume di un Greil Marcus o l'originalità stilistica di un Hunter S. Thompson, ci sono chissà quante persone in grado di fare meglio di così. Incomparabilmente meglio di così.
Messa nelle mani giuste, la vicenda umana e artistica di Bennato è una miniera di spunti che aspettano solo di essere sviluppati: il Meridione, e in particolare Napoli, tra eredità tradizionale e seduzioni moderne, a cominciare da quelle “made in Usa”; la ribellione giovanile dagli anni Sessanta in avanti; la musica presa in mezzo tra le due strumentalizzazioni opposte, ma altrettanto deteriori e ugualmente aggressive, della politicizzazione obbligatoria e della mercificazione consumistica; gli effetti della musica, e specialmente della “canzone d'autore”, sugli appassionati: ha prodotto qualche conseguenza profonda, ha lasciato un segno definitivo, ha modificato almeno un po' il modo di sentire e di pensare? Le fiabe che lo stesso Bennato ha riproposto, e reinventato, hanno continuato ad accompagnare negli anni coloro che le hanno amate a suo tempo? L'hanno capita davvero la metafora del burattino che diventa uomo e che, credendosi libero senza esserlo, è ancora più schiavo di quanto era prima?
Non è così difficile. E potrebbe bastare persino una serie di interviste, se non ci si vuole far carico di una ricostruzione più impegnativa. Tutto quello che si richiede (che non è poco, ma che è doveroso, e indispensabile) è la capacità di porre domande intelligenti e la pazienza di aspettare che anche le risposte più frammentarie si ricompongano in un quadro esauriente. Il regno degli artisti è l'intuizione; l'analisi resta a carico dei critici. La sfida è trasformare i loro lampi di luce in un'illuminazione costante, che permetta di osservare i dettagli e di capire che cosa li ha originati.
Ma a volte, per fortuna, diventa tutto più facile. Gli artisti non si limitano a creare le loro opere ma forniscono essi stessi delle spiegazioni precise. Fissano degli obiettivi. Tracciano le rotte necessarie a raggiungerli.
«Un artista – ha detto Bennato - ha il compito di scagliarsi contro l'omologazione perché vive una situazione di privilegio rispetto a chi, costretto dai doveri, dalle difficoltà o dall'interesse speculativo vi rimane dentro. Io penso che una categoria di persone che hanno la possibilità ed il dovere di muovere un po' le acque siano gli studenti universitari. Gli artisti e gli universitari hanno in comune il vantaggio di essere in un certo modo, anche se temporaneamente, al di fuori del meccanismo produttivo. E da qui la possibilità di andare contro, di provocare, di organizzare forme intelligenti di boicottaggio.»
Un artista ha il compito di scagliarsi contro l'omologazione.
Edoardo Bennato, in realtà, ha tenuto fede all'impegno per la maggior parte della sua lunghissima attività, ma non proprio sempre. Non in maniera così lucida, rigorosa, granitica, come ci si potrebbe aspettare alla luce di queste sue parole. A volte, come nel caso dell'inno dei Mondiali 1990, si è lasciato travolgere dalla tentazione di muoversi, e di esprimersi, e di avvincere il pubblico, su un piano puramente emozionale: l'appassionato di calcio che è in lui si è alleato col musicista istintivo che se la spassa nel vedere la gente che si abbandona all'onda di un ritmo scandito e di una melodia immediata, e dandosi manforte l'un con l'altro hanno messo fuori gioco l'artista smaliziato e l'uomo consapevole.
C'è forse qualcosa di più omologato del calcio, qui in Italia? Certo che no. Ma “scagliarsi contro l'omologazione” non è mica un programma sanitario che si propone, e si persegue, a esclusivo vantaggio degli altri: è innanzitutto un desiderio di cura per noi stessi, che amiamo da morire lo show ma non sopportiamo gli imbonitori.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000. Prima su “Ideazione.com”, poi sui quotidiani “Linea”, di cui è stato caporedattore fino al maggio scorso, e “Secolo d’Italia”.
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