giovedì 10 luglio 2008

Piero Ciampi, il bardo insofferente che cantò lo spleen dei Settanta (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 6 luglio 2008

Verrebbe voglia di averlo ancora qui, Piero Ciampi, e di prenderlo di petto. Cosa cazzo ti ubriachi, Piero? Cosa cazzo ti credi che tutto ti sia dovuto perché hai cuore, e parole, di vero poeta? Ma poi, dopo averlo rimbrottato, verrebbe anche voglia di rovesciare la durezza in comprensione: non in solidarietà incondizionata, di quelle che tutto scusano e tutto avallano, ma nella comprensione amichevole, addirittura fraterna, che è disposta sì a fronteggiare ogni crisi, ma che non smette mai di guardare più in là. Di coltivare un miglioramento. Di spingere affinché la sensibilità – persino la sensibilità lancinante e ingovernabile di un poeta – non si trasformi in una condanna alla sofferenza e all’isolamento, diventando invece una risorsa interiore per comprendere più a fondo se stessi, gli altri, l’umanità intera. Per capire un po’ meglio questa nostra vita oscillante (traballante) di uomini confusi, smisurati nel chiedere ma non nel dare, affrettati nel cercare di soddisfare i nostri desideri, ancora più affrettati nel ritenerci delusi. Delusi e, pertanto, in diritto di non garantire più nulla a nessuno. Nemmeno a noi stessi. Piero Ciampi è nato nel 1934 ed è morto nel 1980. Bevitore accanito, per non dire alcolista a tutti gli effetti, si aspettava di morire di cirrosi epatica e se n’è andato per un tumore alla gola. A 45 anni – mentre tutto intorno la musica, anche quella italiana, aveva preso strade completamente diverse da quelle su cui lui si era formato, Brel e Montand in testa – era ancora in attesa di una consacrazione che non c’era mai stata e che, con l’andare del tempo, si faceva sempre più improbabile. Le prime incisioni risalivano all’inizio degli anni Sessanta; l’ultimo album, appena il quinto di una discografia in cui diversi pezzi ricompaiono a più riprese, era uscito nel 1975.


Il bilancio era men che mediocre, in termini di successo. Ciampi era stimato da una parte degli addetti ai lavori, ma restava ignorato dal grande pubblico. La sua insofferenza per ogni genere di vincolo lo aveva travolto, risucchiandolo in un atteggiamento sprezzante e indiscriminato; e in fin dei conti immaturo: invece di rifiutare soltanto gli aspetti deteriori dello show-business, schivando baracconate e melensaggini, si sottraeva a qualsiasi impegno prefissato. Ivi inclusi i concerti. Se avesse accettato di essere solo un poeta, che scrive nel chiuso della propria solitudine e non ha bisogno di nient’altro che una penna e qualche foglio di carta, avrebbe potuto sperare che le sue capacità, alla lunga, venissero comunque riconosciute. Avendo deciso di fare canzoni, e addirittura di cantarle egli stesso, quella stessa distanza, orgogliosa e incolmabile, diventava un handicap senza scampo. Defilarsi ancora prima di essere diventati celebri significa consegnarsi fatalmente all’anonimato. Peggio: all’emarginazione. Piero Ciampi, raccontano i biografi, si portava dentro le ferite di un’infanzia problematica. La madre, ebrea del Montenegro, era bella e instabile: a un certo punto, quando Piero e i suoi due fratelli erano ancora piccoli, se n’era andata di casa. Il marito, persona rigida ma temprata, ne aveva preso atto e si era trovato una nuova compagna. I figli ne avevano sofferto molto. Moltissimo. Preso in mezzo tra la durezza del padre e l’assenza della madre, Piero aveva reagito alla maniera dei caratteri ribelli, ma fragili: tutto a modo suo, e al diavolo chi non lo accettava. Aveva talento, lui. E sapeva di averlo. Aveva fascino. E sapeva di averlo. Esercitare quel fascino, e compiacersene, lo attirava nelle trappole della vanità, ma restava più dannoso per gli altri che per lui stesso. Il crollo personale cominciò quando scoprì che la sua capacità di sedurre non era sufficiente ad assicurargli tutto l’affetto che avrebbe voluto. La prima moglie, l’irlandese Moira, lo lasciò nel giro di sei mesi, ancora prima che loro figlio Stefano nascesse. L’altro grande amore della sua vita, Gabriella Fanali, resistette assai più a lungo ma alla fine lo abbandonò anche lei. Parallelamente, le sue canzoni non raccoglievano che qualche apprezzamento sporadico, lontanissimo dall’apoteosi che, nonostante tutto, gli sarebbe piaciuto ottenere. Che aveva bisogno di ottenere. Col cuore offuscato dalla frustrazione, e col cervello minato dall’alcol, Ciampi scivolò progressivamente, e definitivamente, in una vita senza più direzione. «Certe sere – ricorda Ezio Vendrame nel bel libro Piero Ciampi una vita a precipizio, curato da Gisela Scerman e pubblicato nel 2005 da Coniglio Editore (pagg, 190, € 14,50) – Pino Pavone e Marcello Micci lo andavano a cercare, perché magari era qualche giorno che non tornava. Lo cercavano nei luoghi più assurdi, tra le vie sperdute, o in chissà quali posti: in una notte fonda lo trovarono seduto su di un marciapiede che beveva dell’alcol denaturato, circondato dai topi». Oggi, a 28 anni dalla morte, la memoria di Ciampi è tenuta in vita da un ristretto numero di estimatori, che si sforzano di perpetuarne il ricordo con iniziative diverse. Qualcuno cura il Premio Ciampi, giunto alla XIV edizione; qualcun altro pubblica libri su di lui; altri ancora curano il sito (pierociampi.altervista.org) coi testi delle sue canzoni. Ed è notizia recente, infine, che è prossimo all’uscita il film-documentario Adius del regista e produttore Ezio Alovisi. Ma è inutile farsi illusioni: Piero Ciampi non è destinato ad avere, da morto, maggiore popolarità (maggiore comprensione) di quella che ebbe da vivo. Tranne qualche rara eccezione, come Andare camminare lavorare, anche le più belle sono totalmente inattuali: se le lasci così come sono suonano distanti, se non proprio estranee; se ti azzardi ad aggiornarle, nel tentativo di avvicinarle al gusto corrente, le privi della loro vera natura. Meglio non forzare la mano, allora. L’esaltazione postuma, magari sotto forma di fiction televisiva, sarebbe incomparabilmente peggiore della disattenzione che c’è stata a suo tempo. Meglio essere capiti da pochi, che fraintesi da tanti.

Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000. Prima su “Ideazione.com”, poi sui quotidiani “Linea”, di cui è stato caporedattore fino al maggio scorso, e “Secolo d’Italia”.

2 commenti:

Simone Migliorato ha detto...

Bell'articolo Federico.
Mi sconvolge la tua vastissima conoscenza musicale :)

Anonimo ha detto...

Molte grazie, ma è meno vasta di quanto sembri. In realtà si tratta quasi sempre di documentarsi accuratamente in funzione dell'articolo che si scrive. Se si hanno le coordinate generali, si entra e si esce con relativa facilità da qualsiasi "territorio" specifico. Poi, come diceva De André, "per stupire mezz'ora basta un libro di storia"...