domenica 7 settembre 2008

Lucio Battisti, biografia di un mago (di Marco Iacona)


Articolo di Marco Iacona
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 7 settembre 2008
Vediamo un po’… da dove cominciare a scrivere un pezzo su Lucio Battisti a dieci anni dalla morte? Quel Battisti simbolo, dove c’è un simbolo c’è anche la magia, di un modo di interpretare la canzone che, quello sì, non morirà mai? Potrei cominciare dalla televisione. Anzi come si dice oggi, nell’era del nostalgismo zuccheroso e no, dalla bella-Tv.
Lei: Mina, lui appunto Battisti: neanche trent’anni. L’anno, il 1972, la trasmissione, Teatro 10. L’occasione è uno storico duetto fra i due big della canzone italiana. Battisti spalla a spalla con la padrona di casa: la Tigre di Cremona.
Lucio è timidissimo, e attacca Insieme con un filo di voce. A rivederlo sembra un adulto non ancora cresciuto, un tipetto issato in scena quattro lustri dopo aver trionfato allo “Zecchino d’oro”. Un folletto. Non l’interprete di Pensieri e parole, ma quello del Valzer del moscerino. Colpisce il foulard al collo che sa di Rebel without a cause. Il vestito scuro intorno a un corpo impacciato.
Lucio Battisti non è un cantante “vero”, di quelli col vocione che finiscono la prova con l’acuto, una mano sul cuore e l’altra verso il pubblico. E i petali rossi che gli piovono sul capo. Privo di quel microfono che sembra pesargli troppo la voce non andrebbe al di là della prima fila, in platea. Poi Mina con Mi ritorni in mente. Brava, e bella, uno splendore, un animale da palcoscenico. Mo’ se lo mangia, verrebbe da dire.
Ma la magia è la magia ci ha spiegato chi se ne intende, e in quegli anni (anni in cui musica e stile di vita sono più o meno le due parti di una mela, l’ha capito bene Avvenire), quel giovanotto che timido lo è veramente e che parla poco e con l’accento di chi di scuole non ne ha fatte troppe, è forma e sostanza di una poesia che si fa canzone, nell’attimo in cui (la poesia) vuol mostrare a chi ascolta quanto confusa sia l’architettura del mondo.
È impossibile rivivere il passato ed è faticoso confidare nel futuro. È più semplice - mi dice al telefono Marco Rossi, autore di Battisti-Mogol. Tradizione spirituale ed esoterismo (Ibiskos editrice, 116 pagine, 12 euro), giunto in questo 2008 alla quarta edizione - mescolarli insieme in una sorta di rivoluzione conservatrice, quello che avrebbe voluto fare Lucio peraltro, quello che solo in parte gli è riuscito. Già, solo in parte: perché nei Settanta, uno come lui «scevro dalla politica, né comunista o socialista, né altro, forse non era troppo amato» (il «forse» mi sa un po’ di presa in giro, l’equivalente da “destra” dell’umorismo yiddish…). Ci ha provato però ed è andata come è andata.
Non è più tempo per i vecchi motivi né ancora lo è per i nuovi, ma di splendide e innocenti evasioni (qualunque esse siano), di fiori rosa, di giardini di marzo e di angeli che cadono in volo. Per quelli che ci credono è tempo di disimpegno o di qualcosa che gli somiglia. Battisti è un romantico in terra straniera, è il simbolo (che piaccia o meno) dell’amore intimo e dei sentimenti quotidiani, di quelle pure emozioni che nei Settanta erano come il terzo portiere di una squadra di calcio, c’erano ma non si vedevano mai. E se qualcuno si coltivava la lacrimuccia in casa, ad un tempo antica e moderna, vuol dire che qualcosa non andava come doveva (malinconiche sdolcinatezze, roba da borghesi…). Cose da pazzi!
Battisti tanto per cominciare è stato questo: ha mostrato all’Italia intera che le rivoluzioni passano (o magari no), ma le canzoni restano di sicuro. Alla faccia di chi voleva cambiare il mondo lui il (nostro) mondo, l’ha cambiato per davvero.
Poggio Bustone, Rieti. Ancor’adesso è difficile azzeccare la strada giusta. Lucio nasce lì, a marzo del 1943. Una famiglia «tradizionale», dice Rossi, come ce ne sono tante nei luoghi di un’arcitalia che a tutt’oggi non ha smesso gli abiti della sincerità. Un’Italia che ha lo splendido vizio del calore umano. Qui l’anima romantica la trovi nei sorrisi semplici delle ragazze, nei giovani con tanta voglia di fare, così capisci com’è che Lucio si sia ritrovato in tasca tanta ispirazione.
A scoprire Battisti è stato fra gli altri Renzo Arbore. Quando il napoletano di Foggia fa una “cosa” tutti a parlare di stravaganza (Clarinetto compreso), salvo poi, come la zucca di Cenerentola, trasformarla nella genialata del decennio in corso. Così è stato per Lucio Battisti del quale l’Arbore talent scout intuì l’originalità delle proposta musicale. Punto.
Nato come chitarrista, all’occorrenza anche batterista, e poi anche autore (con quella voce piccola, diseguale, non sempre intonata, come avrebbe fatto a cantare nell’Italia dei “balocchi” e dei “profumi”?), l’avventura di Lucio inizia come le storie che si sentono in giro per i bar o si leggono sui periodici. Ricorda la fiaba del Brutto anatroccolo. O forse la giovane Callas, alla quale in tanti ripetevano: con quella voce così brutta come farai a cantare? La Garbo invece, (altra divina), avrebbe avuto un corpo troppo matronale per bucare lo schermo… Oppure De Andrè, scolaro svogliato, scarsino in italiano... Un mondo di perfettini sarebbe stato un ben misero mondo, Asinov piuttosto che Ira Levin o Frank Oz, senza vita, senza emozioni.
La fiaba di Lucio s’apre così, come una misteriosa ouverture. Lucio era un pignolo così ce lo restituisce la cronaca, ma di imperfezioni ne aveva parecchie compresa la “presunzione” di sentirsi soltanto un musicista e non un personaggio televisivo da rovesciare nelle case di un’Italia già moderna.
Ad un certo punto, mi dice Marco Rossi, «qualcuno gli deve aver detto che così non poteva andare», che un artista doveva pur dire qualcosa in Tv: per i giovani, per il futuro, o chessòio contro la Chiesa pre-conciliare, e poi l’aborto, il progresso, il giro d’Italia, la vita, la morte, i miracoli…, che doveva fare tutto quel che facevano all'epoca i cantautori. In cambio però ci fu il silenzio.
Forse è per questo che Lucio non interessava granché (disinteresse peraltro ben ripagato). Dopo il lungo Sessantotto, in molti si son seduti al tavolo a rifare le regole, se ci stavi bene sennò eri sciaguratamente fuori. Mentre si giocavano i destini del Paese e in prossimità dei problemi dell’azienda Italia, Lucio e Giulio (cioè Mogol, conosciuto alla Ricordi nel ‘65), se ne andavano da Milano a Roma a cavallo (giugno-luglio 1970), come due antichi pellegrini. Una vacanza da cowboys, un atto d’amore verso la natura, ma anche una sfida a un’Italia oramai brutta e incattivita. Per Battisti, forse, la vita sarebbe potuta continuare anche così. Sella e destriero portoghese, la musica e le verdi pianure. Mentre bivaccava in riva al mare o a pochi metri dalla sponda di un fiume, da qualche parte del mondo iniziava un’altra epoca: l’era dei voli commerciali dei jumbo jet, l’era della globalizzazione aerea.
La carriera del ragazzo dalla voce un po’ roca, “trasgressivo” ma anche molto casereccio, inizia nel bel mezzo della bufera degli anni Sessanta. Al tramontare del decennio che ha cambiato l’Italia, Lucio è già stato a Sanremo (nel 1969 l’anno di Zingara, con Un’avventura insieme a Wilson Pickett la cui “pelle nera” era invidiatissima da Nino Ferrer), ha già vinto il Festivalbar con Acqua azzurra acqua chiara singolare canzone d’amore (lo rivincerà l’anno dopo), ed ha pubblicato il suo primo album (Lucio Battisti), come raccolta di singoli di successo. L’anno a venire, invece, sarà la volta dell’Lp Emozioni.
Stilare classifiche non basate sui numeri ma sulla fortuna di un brano o serie di brani è sovente un azzardo. Ma, a chiunque chiediate quali sono i cinque dischi-simbolo degli anni '70 e '80, difficilmente nell'elenco non includerà Emozioni. È una lunga poesia cadenzata, narrata dalla voce di Lucio, amata da tre generazioni di “ragazzi” e, per dirne una, mille volte di più dell’anziano “Meriggiare pallido e assorto” del nobel Montale. Se si vuole un perché, si faccia caso alla voce di Lucio, alla sua magia (si noti ad esempio, la crescente intensità volutamente sporcata dopo la frase mogoliana “nascere un giorno una rosa rossa”: l’indefinibile passaggio vocale arricchisce i colori del lirismo orchestrale. È una stregoneria anche questa).
Gli anni Settanta (soprattutto la prima metà), per il successo ottenuto e per le novità proposte, peraltro in questa fase mai rifiutate da un pubblico che rimane sostanzialmente fedele, sono gli anni di Lucio. Storia singolare è anche questa: agli anni bui del nostro Paese fa da contrappunto la fresca melodia di Battisti; ma caso unico o comunque raro il suo distacco appare totale (o comunque velato da un’ispirazione, per i tempi, nettissima): sembra quasi che, ricciolino com’è, viva fra gli Hobbit; peraltro in anni dove tutto è complicato, così complicato che neanche oggi ci si capisce un’acca, la sua musica fa testo: come un manuale di scuola-guida per diciottenni La canzone del sole (quella del “mare nero”), si trasforma in un abbecedario per i giovani chitarristi del presente e dei giorni a venire.
Certo, poi di temi sociali, varie ed eventuali ne vengono fuori a bizzeffe (ad esempio ne Il mio canto libero e ne Il nostro caro Angelo), ma la sensibilità di Battisti (e peraltro, sembra, anche quella di Mogol), non si allontana granché da un “forte-piano” riprodotto con leggerezza, difensivo e moderato (in medio…) più che esageratamente progressista.
Dalla seconda metà però dei Settanta comincia ad accadere l’irreparabile. Lucio pare allontanarsi sempre di più dalla propria immagine di piccolo eroe romantico. Corre, cerca una fuga in avanti, va in controsterzo e sbanda. Lascia il suo pubblico (nel 1976 c’è l’addio alla scena), febbricita cercando una carriera all'estero. Se la crisi umana è dubbia (peraltro dal ’76 Lucio è sposato con Grazia Letizia Veronesi), quella professionale è un interrogativo che tuttora divide i fan. Una donna per amico è il canto del cigno di quello che un po’ tutti battezzarono come un “animale” a due teste: Mogol-Battisti; Una giornata uggiosa (1980) è la fine del bel Tristano che precede la morte di Isotta. Dopo 15 anni il grande “amore” fra i cavalieri della Milano-Roma è finito per sempre. Fra i due c’è una contesa artistica, rientrata anni dopo, che avrebbe appassionato l’ultimo Richard Strauss: quale ordine stabilire fra la musica e la poesia?
Del Battisti degli anni Ottanta e Novanta non è facile dire. Un uomo sempre più chiuso, isolato fra i boschi di Molteno gelosissimo della privacy, che respinge la stampa. E comunica attraverso le canzoni. Pubblica sei album, cinque con testi di Pasquale Panella. Melodie e testi complicati, “modernissimi” che inseguono lo stupore. Metà del suo pubblico è entusiasta, l'altra metà piange "il vecchio Battisti".
L’ultimo album ha per titolo il cognome di un filosofo: Hegel. Sul far del crepuscolo l’età della ragione ha lasciato dietro di sé quella delle emozioni, Battisti aveva sacrificato sul rogo degli anni i suoi cappelli da mago.
Marco Iacona è dottore di ricerca in "Pensiero politico e istituzioni nelle società mediterranee". Si occupa di storia del Novecento. Scrive tra l'altro per il bimestrale "Nuova storia contemporanea", il quotidiano "Secolo d'Italia" e il trimestrale "la Destra delle libertà". Per il quotidiano di An nel 2006 ha pubblicato una storia del Msi in 12 puntate. Ha curato saggi per Ar e Controcorrente edizioni. Nel 2008 ha pubblicato: "1968. Le origini della contestazione" globale" (Solfanelli).

1 commento:

Anonimo ha detto...

Ho appena letto un'agenzia del '98 che ricordava un incontro al ristorante con Dalla. L'altro Lucio gli esponeva un progetto e lui senza tanti giri di parole rifiutava con la sua dissacrante sincerita'. Non aveva il senso dei treni da rincorrere, seguiva la sua traettoria che virava sempre al cambiamento. Non e' mai stato uguale a se' stesso e i suoi fan lo amano senza troppa retorica. Amare Battisti e' un modo di essere: "orgoglio e dignita'" che poi sono l'altra faccia del canto libero di chi e' "spaventato dai pensieri un poco aperti".