Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 7 settembre 2008
Detto brutalmente: l'arte non è democratica. Non ha bisogno di nessuna legittimazione popolare. Non cerca il consenso. Tanto meno lo insegue. Semmai lo trova, come un effetto collaterale che può essere gradito finché si vuole ma che mai, in nessun caso, diventerà la causa primaria di ciò che si fa.
Detto a chiare lettere: Lucio Battisti era un individualista che credeva in se stesso e che non riconosceva nessun altro impegno al di là della sua ricerca creativa, nessun altro vincolo al di là del rispetto del proprio talento, nessun altro obbligo al di fuori del tentativo, continuamente rinnovato, di superare le acquisizioni precedenti per approdare a nuove prospettive. O per lo meno a nuovi spiragli, attraverso i quali intravvedere un modo differente di esprimersi.
La parabola artistica di Battisti, com'è noto, viene divisa in due fasi nettamente separate, contraddistinte dalla presenza al suo fianco di due parolieri altrettanto notevoli ma diversissimi: la prima, quella che lo portò a dominare le classifiche di vendita e a imporsi come straordinario autore di canzoni tanto immediate quanto innovative, è segnata dal sodalizio con Mogol; la seconda, che è introdotta dal prologo di E già e si snoda attraverso altri cinque album sempre meno accessibili e compiacenti, è caratterizzata dalla collaborazione con Lino Panella. La versione corrente è che a un certo punto, per motivi imprecisati, Battisti abbia deciso di farla finita col suo passato di cantautore accattivante e celebratissimo – capace di sfornare una dopo l'altra canzoni memorabili e per nulla ripetitive – e di contrapporre a quell'immagine ormai stereotipata, che tendeva a imprigionarlo in un cliché, una figura defilata e pressoché inafferrabile, che gli garantisse una piena e rinnovata libertà d'azione. Al posto della star che non sbaglia un colpo, ma che deve sempre rimanere uguale a se stessa, una sorta di perenne esordiente, che può rimescolare le carte ogni volta che lo desidera. Al posto del suo stesso monumento, più ingombrante che lusinghiero, un viandante inafferrabile, affrancato una volta per tutte dal gioco, amorevole e ricattatorio, delle aspettative da parte dei fan.
Ma è proprio così? C'è davvero, nel percorso (e nella personalità) di Battisti, questa demarcazione tanto netta tra un prima e un dopo? Tra il periodo delle canzoni orecchiabili che tantissimi adoravano, e che in tantissimi accendevano la voglia di ricantarle, e il periodo dei brani spigolosi e schivi, difficili da ascoltare e ancora più difficili da mandare a memoria?
Vale la pena di approfondire. Le distanze tra la prima e la seconda fase sono troppo evidenti per essere negate, ma allo stesso tempo nell'attività di Battisti c'è dall'inizio alla fine un elemento che non viene mai meno, un filo rosso che collega i primi 45 giri agli ultimi album e che li rende, sul piano dell'approccio creativo, assai meno lontani di quanto non sembri. Quale che sia il risultato finale, infatti, il suo obiettivo non è mai assecondare il gusto dominante. E non è nemmeno, una volta agguantato il successo, replicare all'infinito il proprio marchio di fabbrica, come pure fanno, con una manipolazione tanto più grave in quanto più sottile, e formalmente ineccepibile, la massima parte dei professionisti delle Hit Parade.
Battisti non corre insieme al pubblico. E non si ferma ad aspettarlo. Battisti segue il suo ritmo interno e allunga il passo in progressioni continue. Individua una meta e la raggiunge. Tende l'orecchio e percepisce in anticipo ciò che gli altri, più distratti o meno dotati, coglieranno solo in seguito. Ma non è la sagacia di chi osserva le mode internazionali e si sforza di introdurle in Italia per assicurarsi una posizione di favore, in vista del momento in cui la massa scoprirà finalmente l'ennesima novità e se ne lascerà sedurre.
Battisti fa quello che fa perché, in quel dato momento, la sua elaborazione interiore è arrivata a quel determinato punto. La vastissima popolarità conquistata a partire dal 1969, con tre singoli nella Top 20 e l'album d'esordio al primo posto, non dipende affatto da un'affinità permanente coi suoi ammiratori: è solo l'incrocio, prolungato ma transitorio, tra un musicista che si evolve di continuo e un pubblico che, dopo la grandiosa accelerazione collettiva vissuta tra i Sessanta e i Settanta, rifluisce nella consueta passività. Perdendo il gusto per ciò che è inconsueto, e magari spiazzante, ma significativo. Smarrendo la disponibilità a farsi guidare in territori sconosciuti.
Il problema, sintetizzando al massimo e azzardando una formuletta stringata, è che Battisti è un artista rock che per una serie di motivi, per molti versi accidentali, è stato scambiato per un artista pop. Non è questione di linguaggio sonoro. La differenza, specie in quegli anni, si fissa nell'autenticità dell'ispirazione e nella determinazione a non fare nulla solo perché funziona sul piano commerciale. In questo senso, il che contribuisce a spiegare l'equivoco, Mogol è un abilissimo paroliere pop, che ha come massima ambizione quella di scrivere canzoni di successo, mentre Battisti è un talentuoso musicista di matrice rock che scrive quello che gli passa per la testa: e se va in classifica, bene; se no, pazienza.
L'altra faccia dell'equivoco – poiché la superficialità ha più maschere del diavolo - è che Battisti è stato sottovalutato, o addirittura ignorato, dal pubblico “di sinistra”, talmente risucchiato nella politicizzazione della musica (e di tutto il resto) da non concedere alcun riconoscimento a chi non fosse schierato sulle sue stesse posizioni. Lasciamo pure da parte l'abusata querelle sulle convinzioni personali di Lucio e sul fatto che lui avesse, oppure no, simpatie per la destra più o meno estrema: quello che per troppo tempo non si è capito è che la sua musica era un grandissimo esempio di contaminazione. E quindi di curiosità, di apertura, di assoluta mancanza di pregiudizi. In una situazione meno irrigidita, e ottusa, Battisti sarebbe stato visto serenamente non solo come uno dei più felici inventori di melodie del panorama italiano, ma anche come uno dei massimi artefici dello svecchiamento del gusto nazionale. E le sue canzoni non sarebbero mai diventate, come si è scoperto col tempo, il “vizio segreto” di chi d'istinto amava le varie Emozioni, Mi ritorni in mente e La canzone del sole, ma era poi costretto a negare, agli altri e un po' anche a se stesso, di annoverare il “fascista” Battisti tra i cantautori prediletti.
L'ottusità, del resto, non si limita certo alle chiusure ideologiche. Battisti, che pure aveva un carattere fin troppo riservato, avrebbe avuto bisogno di un ambiente molto più vivo e generoso di quanto non sia, tradizionalmente, quello che popola il nostro mondo discografico. In un contesto diverso, nel quale gli artisti si preoccupino innanzitutto di creare cose belle e non di conquistare, o difendere, con le unghie e coi denti il proprio posticino alla tavola imbandita dei diritti d'autore, si sarebbe potuto sperare che lui trovasse buoni motivi per aprirsi a chissà quante collaborazioni artistiche e a chissà quali contatti umani, evitando dapprima di tenersi in disparte e, infine, di isolarsi completamente. Se a circondarlo non fosse stato il solito, avvelenato miscuglio di soggezione e di invidia che avvolge i migliori, ma un'atmosfera gioiosa di sincera ammirazione, forse la sua ritrosia sarebbe stata sconfitta. E i suoi ultimi quindici anni, dalla rottura con Mogol in poi, si sarebbero snodati diversamente, sia sul piano artistico sia su quello umano.
Se da un lato la “rivoluzione copernicana” degli anni Ottanta e Novanta è ammirevole, per come dimostra una sana e orgogliosa indipendenza dalle lusinghe del successo, dall'altro suscita almeno qualche perplessità sulla freddezza emotiva che la attraversa. Nello stesso momento in cui riconosciamo il coraggio di una scrittura che non vuole più accontentarsi di una bella melodia o di un ritmo trascinante, e tanto meno dei sapienti, calcolatissimi versi di Mogol, ci chiediamo se i meriti dell'artista Battisti siano sufficienti a scaldare il cuore dell'uomo Lucio. Se la vita che conduce sia quella che voleva: o se, come accade continuamente, né il talento né la forza morale siano sufficienti a tenere vivo l'entusiasmo e a regalare quel po' di gioia di cui si ha comunque bisogno.
Ammettiamo che l'ipotesi che abbiamo già visto sia esatta. Che davvero, all'origine del suo chiamarsi fuori dalla scena italiana, e dal suo stesso mito, ci sia stato innanzitutto il rifiuto degli effetti distorsivi della celebrità. Il prevalere del personaggio sulla persona. E addirittura sull'opera, con un rischio di stravolgimento che non è sfuggito neppure a una superstar cinica e smaliziata come Madonna. «La fama – ha affermato lei recentemente – è un sottoprodotto. Dovrebbe arrivare perché fai delle cose che parlano alle persone e le persone vogliono sapere del tuo lavoro. Sfortunatamente il personaggio ha il sopravvento sull'operato artistico».
Ammettiamo tutto questo. E riconosciamone le ottime ragioni, le buone intenzioni, l'intrinseca coerenza. Eppure, la reazione di Battisti appare troppo granitica, troppo deliberata, per essere accolta a cuor leggero e del tutto condivisa. Gli ultimi album sono senz'altro interessanti, ma quasi mai coinvolgenti. Anche restando a distanza di sicurezza da ogni genere di banalità da classifica, e da ogni automatismo dell'emotività a buon mercato, si sente la mancanza di uno slancio più genuino e viscerale, che sprigioni il suo potenziale con la forza di un incantesimo. Forse, la risposta ideale doveva consistere in una scelta ancora più drastica: rinunciare alle canzoni, con il loro corredo di parole da cucire alla musica, e dedicarsi solo alla composizione strumentale. Oppure, che è una variante della stessa soluzione, rivolgersi al mercato di lingua inglese come autore, sperando di incontrare un paroliere del calibro del Bernie Taupin del migliore Elton John.
Resta quello che resta, invece. I testi di Panella che si arrampicano dappertutto con innegabile perizia, ma anche come free climbers che scalano le pareti a specchio di un grattacielo e che, con tutto il loro sfoggio di bravura, fanno rimpiangere un qualunque, onesto alpinista dilettante che se la suda in montagna. I suoni di Battisti che promettono più di quello che mantengono, rincorrendo le parole nel tentativo di avvolgerle in un mantello avveniristico che poi, alla prova dei fatti, si rivela troppo leggero per scaldarle e troppo hi-tech per abbellirle.
Resta il rimpianto che almeno qualche volta, magari in coda a un intero album stilizzato e rigoroso, non abbia fatto la sua comparsa un brano meno chiuso in se stesso: qualcosa che, pur senza ripetere la forma delle grandi canzoni del passato, ne recuperasse almeno un poco della limpidezza, un po' di quella fresca inventiva che fa sgorgare le note come un respiro a pieni polmoni e che, dopo, permette di tuffarsi nuovamente negli abissi di qualsiasi riflessione, e di qualsiasi disincanto.
Detto a chiare lettere: Lucio Battisti era un individualista che credeva in se stesso e che non riconosceva nessun altro impegno al di là della sua ricerca creativa, nessun altro vincolo al di là del rispetto del proprio talento, nessun altro obbligo al di fuori del tentativo, continuamente rinnovato, di superare le acquisizioni precedenti per approdare a nuove prospettive. O per lo meno a nuovi spiragli, attraverso i quali intravvedere un modo differente di esprimersi.
La parabola artistica di Battisti, com'è noto, viene divisa in due fasi nettamente separate, contraddistinte dalla presenza al suo fianco di due parolieri altrettanto notevoli ma diversissimi: la prima, quella che lo portò a dominare le classifiche di vendita e a imporsi come straordinario autore di canzoni tanto immediate quanto innovative, è segnata dal sodalizio con Mogol; la seconda, che è introdotta dal prologo di E già e si snoda attraverso altri cinque album sempre meno accessibili e compiacenti, è caratterizzata dalla collaborazione con Lino Panella. La versione corrente è che a un certo punto, per motivi imprecisati, Battisti abbia deciso di farla finita col suo passato di cantautore accattivante e celebratissimo – capace di sfornare una dopo l'altra canzoni memorabili e per nulla ripetitive – e di contrapporre a quell'immagine ormai stereotipata, che tendeva a imprigionarlo in un cliché, una figura defilata e pressoché inafferrabile, che gli garantisse una piena e rinnovata libertà d'azione. Al posto della star che non sbaglia un colpo, ma che deve sempre rimanere uguale a se stessa, una sorta di perenne esordiente, che può rimescolare le carte ogni volta che lo desidera. Al posto del suo stesso monumento, più ingombrante che lusinghiero, un viandante inafferrabile, affrancato una volta per tutte dal gioco, amorevole e ricattatorio, delle aspettative da parte dei fan.
Ma è proprio così? C'è davvero, nel percorso (e nella personalità) di Battisti, questa demarcazione tanto netta tra un prima e un dopo? Tra il periodo delle canzoni orecchiabili che tantissimi adoravano, e che in tantissimi accendevano la voglia di ricantarle, e il periodo dei brani spigolosi e schivi, difficili da ascoltare e ancora più difficili da mandare a memoria?
Vale la pena di approfondire. Le distanze tra la prima e la seconda fase sono troppo evidenti per essere negate, ma allo stesso tempo nell'attività di Battisti c'è dall'inizio alla fine un elemento che non viene mai meno, un filo rosso che collega i primi 45 giri agli ultimi album e che li rende, sul piano dell'approccio creativo, assai meno lontani di quanto non sembri. Quale che sia il risultato finale, infatti, il suo obiettivo non è mai assecondare il gusto dominante. E non è nemmeno, una volta agguantato il successo, replicare all'infinito il proprio marchio di fabbrica, come pure fanno, con una manipolazione tanto più grave in quanto più sottile, e formalmente ineccepibile, la massima parte dei professionisti delle Hit Parade.
Battisti non corre insieme al pubblico. E non si ferma ad aspettarlo. Battisti segue il suo ritmo interno e allunga il passo in progressioni continue. Individua una meta e la raggiunge. Tende l'orecchio e percepisce in anticipo ciò che gli altri, più distratti o meno dotati, coglieranno solo in seguito. Ma non è la sagacia di chi osserva le mode internazionali e si sforza di introdurle in Italia per assicurarsi una posizione di favore, in vista del momento in cui la massa scoprirà finalmente l'ennesima novità e se ne lascerà sedurre.
Battisti fa quello che fa perché, in quel dato momento, la sua elaborazione interiore è arrivata a quel determinato punto. La vastissima popolarità conquistata a partire dal 1969, con tre singoli nella Top 20 e l'album d'esordio al primo posto, non dipende affatto da un'affinità permanente coi suoi ammiratori: è solo l'incrocio, prolungato ma transitorio, tra un musicista che si evolve di continuo e un pubblico che, dopo la grandiosa accelerazione collettiva vissuta tra i Sessanta e i Settanta, rifluisce nella consueta passività. Perdendo il gusto per ciò che è inconsueto, e magari spiazzante, ma significativo. Smarrendo la disponibilità a farsi guidare in territori sconosciuti.
Il problema, sintetizzando al massimo e azzardando una formuletta stringata, è che Battisti è un artista rock che per una serie di motivi, per molti versi accidentali, è stato scambiato per un artista pop. Non è questione di linguaggio sonoro. La differenza, specie in quegli anni, si fissa nell'autenticità dell'ispirazione e nella determinazione a non fare nulla solo perché funziona sul piano commerciale. In questo senso, il che contribuisce a spiegare l'equivoco, Mogol è un abilissimo paroliere pop, che ha come massima ambizione quella di scrivere canzoni di successo, mentre Battisti è un talentuoso musicista di matrice rock che scrive quello che gli passa per la testa: e se va in classifica, bene; se no, pazienza.
L'altra faccia dell'equivoco – poiché la superficialità ha più maschere del diavolo - è che Battisti è stato sottovalutato, o addirittura ignorato, dal pubblico “di sinistra”, talmente risucchiato nella politicizzazione della musica (e di tutto il resto) da non concedere alcun riconoscimento a chi non fosse schierato sulle sue stesse posizioni. Lasciamo pure da parte l'abusata querelle sulle convinzioni personali di Lucio e sul fatto che lui avesse, oppure no, simpatie per la destra più o meno estrema: quello che per troppo tempo non si è capito è che la sua musica era un grandissimo esempio di contaminazione. E quindi di curiosità, di apertura, di assoluta mancanza di pregiudizi. In una situazione meno irrigidita, e ottusa, Battisti sarebbe stato visto serenamente non solo come uno dei più felici inventori di melodie del panorama italiano, ma anche come uno dei massimi artefici dello svecchiamento del gusto nazionale. E le sue canzoni non sarebbero mai diventate, come si è scoperto col tempo, il “vizio segreto” di chi d'istinto amava le varie Emozioni, Mi ritorni in mente e La canzone del sole, ma era poi costretto a negare, agli altri e un po' anche a se stesso, di annoverare il “fascista” Battisti tra i cantautori prediletti.
L'ottusità, del resto, non si limita certo alle chiusure ideologiche. Battisti, che pure aveva un carattere fin troppo riservato, avrebbe avuto bisogno di un ambiente molto più vivo e generoso di quanto non sia, tradizionalmente, quello che popola il nostro mondo discografico. In un contesto diverso, nel quale gli artisti si preoccupino innanzitutto di creare cose belle e non di conquistare, o difendere, con le unghie e coi denti il proprio posticino alla tavola imbandita dei diritti d'autore, si sarebbe potuto sperare che lui trovasse buoni motivi per aprirsi a chissà quante collaborazioni artistiche e a chissà quali contatti umani, evitando dapprima di tenersi in disparte e, infine, di isolarsi completamente. Se a circondarlo non fosse stato il solito, avvelenato miscuglio di soggezione e di invidia che avvolge i migliori, ma un'atmosfera gioiosa di sincera ammirazione, forse la sua ritrosia sarebbe stata sconfitta. E i suoi ultimi quindici anni, dalla rottura con Mogol in poi, si sarebbero snodati diversamente, sia sul piano artistico sia su quello umano.
Se da un lato la “rivoluzione copernicana” degli anni Ottanta e Novanta è ammirevole, per come dimostra una sana e orgogliosa indipendenza dalle lusinghe del successo, dall'altro suscita almeno qualche perplessità sulla freddezza emotiva che la attraversa. Nello stesso momento in cui riconosciamo il coraggio di una scrittura che non vuole più accontentarsi di una bella melodia o di un ritmo trascinante, e tanto meno dei sapienti, calcolatissimi versi di Mogol, ci chiediamo se i meriti dell'artista Battisti siano sufficienti a scaldare il cuore dell'uomo Lucio. Se la vita che conduce sia quella che voleva: o se, come accade continuamente, né il talento né la forza morale siano sufficienti a tenere vivo l'entusiasmo e a regalare quel po' di gioia di cui si ha comunque bisogno.
Ammettiamo che l'ipotesi che abbiamo già visto sia esatta. Che davvero, all'origine del suo chiamarsi fuori dalla scena italiana, e dal suo stesso mito, ci sia stato innanzitutto il rifiuto degli effetti distorsivi della celebrità. Il prevalere del personaggio sulla persona. E addirittura sull'opera, con un rischio di stravolgimento che non è sfuggito neppure a una superstar cinica e smaliziata come Madonna. «La fama – ha affermato lei recentemente – è un sottoprodotto. Dovrebbe arrivare perché fai delle cose che parlano alle persone e le persone vogliono sapere del tuo lavoro. Sfortunatamente il personaggio ha il sopravvento sull'operato artistico».
Ammettiamo tutto questo. E riconosciamone le ottime ragioni, le buone intenzioni, l'intrinseca coerenza. Eppure, la reazione di Battisti appare troppo granitica, troppo deliberata, per essere accolta a cuor leggero e del tutto condivisa. Gli ultimi album sono senz'altro interessanti, ma quasi mai coinvolgenti. Anche restando a distanza di sicurezza da ogni genere di banalità da classifica, e da ogni automatismo dell'emotività a buon mercato, si sente la mancanza di uno slancio più genuino e viscerale, che sprigioni il suo potenziale con la forza di un incantesimo. Forse, la risposta ideale doveva consistere in una scelta ancora più drastica: rinunciare alle canzoni, con il loro corredo di parole da cucire alla musica, e dedicarsi solo alla composizione strumentale. Oppure, che è una variante della stessa soluzione, rivolgersi al mercato di lingua inglese come autore, sperando di incontrare un paroliere del calibro del Bernie Taupin del migliore Elton John.
Resta quello che resta, invece. I testi di Panella che si arrampicano dappertutto con innegabile perizia, ma anche come free climbers che scalano le pareti a specchio di un grattacielo e che, con tutto il loro sfoggio di bravura, fanno rimpiangere un qualunque, onesto alpinista dilettante che se la suda in montagna. I suoni di Battisti che promettono più di quello che mantengono, rincorrendo le parole nel tentativo di avvolgerle in un mantello avveniristico che poi, alla prova dei fatti, si rivela troppo leggero per scaldarle e troppo hi-tech per abbellirle.
Resta il rimpianto che almeno qualche volta, magari in coda a un intero album stilizzato e rigoroso, non abbia fatto la sua comparsa un brano meno chiuso in se stesso: qualcosa che, pur senza ripetere la forma delle grandi canzoni del passato, ne recuperasse almeno un poco della limpidezza, un po' di quella fresca inventiva che fa sgorgare le note come un respiro a pieni polmoni e che, dopo, permette di tuffarsi nuovamente negli abissi di qualsiasi riflessione, e di qualsiasi disincanto.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000. Prima su “Ideazione.com”, poi sui quotidiani “Linea”, di cui è stato caporedattore fino al maggio scorso, e “Secolo d’Italia”.
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