Articolo di Filippo Rossi
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 7 settembre 2008
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 7 settembre 2008
Il New York Times, con un breve necrologio pubblicato a una manciata di ore dalla sua morte, aveva capito più di tanti italiani quel che ha rappresentato Lucio Battisti per il nostro paese. Dimostrando che, a volte, per comprendere meglio l’essenza delle cose bisogna osservarle con sguardo distaccato, con interesse lontano: il quotidiano americano spiegava infatti come Battisti in Italia «avesse definito un’era». Aggiungendo: «Come Bob Dylan in America», paragone azzeccatissimo. Ecco, a dieci anni dalla morte, avvenuta il 9 settembre del 1998, ora che la lontananza temporale comincia finalmente ad aprirci gli occhi, si può ben dire che Lucio Battisti, con la sua musica, le sue canzoni, con tutto se stesso, anche, ha definito davvero un’era italiana (la fine dei Sessanta, i Settanta, gli Ottanta…) riuscendo come nessun altro a darle un’unità sintattica e immaginifica. Considerando la storia italiana, un’impresa quasi impossibile. Lucio Battisti ha unito ciò che nessun altro è riuscito a unire, intrecciando fili invisibili di note e poesia. Ha dato forma. Ha scavallato schemi musicali e culturali. Abbattuto steccati. Amalgamato. In anni di scontri e divisioni, Battisti è riuscito, sembra quasi un miracolo, a non essere cantante di nicchia, di barricata. O di odio. Unico tra i cantanti e cantautori, ha costruito la propria icona su quel distacco interessato che lo ha portato ad essere un iper-italiano, uno di quegli italiani, e ce ne sono stati veramente pochi, che ha concentrato su di sé l’immaginario condiviso di un intero paese. E da questo punto di vista, il suo essere considerato “fascista” e “di destra” («Negli anni settanta si sapeva che Battisti stava a destra e che era vicino al Msi. Non c’era bisogno di prove, lo si sapeva e basta», ha detto una volta Pierangelo Bertoli) alla fin dei conti ha rappresentato un “di più” che gli ha permesso ciò che agli altri era precluso: abbracciare un’Italia ancora divisa da un’eterna guerra civile psicologica prima che politica. Tantoché la collezione completa dei dischi del “fascista” Battisti, nel ’78, stava persino nel covo delle Brigate Rosse di via Montenevoso a Milano, dove fu sequestrata con stupore dai carabinieri di Dalla Chiesa.
Battisti, insomma, cantante politico più dei cantanti politici, nonostante la sua apparente distanza, perché ha saputo mettere in musica i cambiamenti profondi della società italiana. E se, nel 1998, l’allora sindaco di Roma Francesco Rutelli, alla sua scomparsa, rifiutò con motivazioni culturali e politiche più che legittime la proposta del consiglio comunale capitolino di dedicare il nuovo Auditorium proprio al cantante di Poggio Bustone, oggi si può dire che quel nome non avrebbe per niente stonato nell’indicare quel moderno tempio della musica: perché Battisti non è stato solo un uomo di spettacolo, non è stato solo un cantante. Battisti ha segnato un’era. E’ per questo che il paragone che arriva da oltre oceano con Bob Dylan, il menestrello rivoluzionario che non si piegò mai all’ideologismo di maniera, non è per niente fuori luogo: Blowin’ in the wind come Il mio canto libero.
Lucio Battisti, quindi, come eroe di un’italianità non conservativa, in qualche modo anti-italiana. Sempre in movimento, comunque insoddisfatto. «Un artista – ha detto lo stesso cantante – non può camminare dietro al suo pubblico, ma davanti. E’ rischioso, ma è suo dovere correre il rischio». La sua fuga dal mondo, in fondo, può essere interpretata proprio così: «E’ necessario – spiegò – non confondere l’uomo, pieno di debolezze, con l’artista che deve essere perfetto, infallibile». La fuga come gesto definitivo, assoluto, estremo, rivoluzionario come è stata rivoluzionaria tutta la sua carriera. Dall’inizio alla fine: dagli anni Sessanta ai Novanta.
Figlio legittimo del suo tempo e di quegli anni di sviluppo e libertà, figlio di quella rivolta anti ideologica prima della stagione dell’ideologia, da ragazzo Lucio aveva la stanza tappezzata di chitarre, ma si era dovuto prendere il diploma di perito tecnico. Il padre voleva che cominciasse a lavorare. Lucio era un artista, voleva vedere il mondo, andava in Olanda, in Germania, senza un soldo perché il padre non lo voleva incoraggiare su quella “brutta strada”. Certe volte dormiva nei sottoscala. Una volta il padre gli ha rotto una chitarra in testa. Lo faceva per il suo bene. Non sapeva che sarebbe diventato Battisti. Il “suo” Sessantotto lo ha vissuto partecipando al Cantagiro con Balla Linda, che sale ai vertici della classifica di vendita; poi il grande successo lo ottiene da autore, per l’Equipe 84, con 29 settembre e Nel cuore, nell’anima, accanto ad una fallimentare prima esperienza sanremese come autore di La farfalla impazzita, proposta da Dorelli e Paul Anka.
Ma la strada giusta è quella solistica e, dopo brani come Io vivrò e La mia canzone per Maria, nel ’69 è proprio Sanremo a consacrargli il successo con Un’avventura, cantata in coppia con Wilson Pickett: «Non sarà un’avventura, non può essere soltanto una primavera, questo amore non è una stella, che al mattino se ne va…». La carriera di autore e di cantautore da quel momento marciano di pari passo, con i Formula Tre, per i quali scrive Questo folle sentimento ed un altro pugno di hit single, e con il suo primo album da solista: intitolato semplicemente Lucio Battisti (1969). E’ però nel 1970 che raggiunge la sua forma migliore con l’album ed il singolo Emozioni, e canzoni indimenticabili: Fiori Rosa Fiori di Pesco, Mi ritorni in mente, Il tempo di morire, Non è Francesca, Anna, Acqua azzurra, acqua chiara, ultimi successi della grande stagione dei 45 giri. «Battisti ridisegnò – ha scritto Marco Rossi parlando proprio del ruolo rivoluzionario svolto nella storia della musica leggera italiana – gli schemi armonici, le basi ritmiche, i tempi e persino i giri armonici caratteristici dei vari accordi». In sostanza reinventò, da solo, la canzone moderna italiana. E con essa la cultura: «Lucio – ha ricordato Giulio Rapetti Mogol – non ha mai sentiti confini nella musica. Avrebbero dovuto farlo anche nei conservatori: allevare gente che non avesse confini e che sapesse scrivere liberamente musica sinfonica, pop, etnica, cioè libertà totale. Invece c’era questo irrigidimento che tutt’ora esiste…».
Un artista che riusciva ad andare, sempre, oltre schemi precostituiti, profondamente “anti ideologico”, ecco cosa è stato Battisti negli anni Settanta. Soprattutto da qui le incomprensioni da parte di un mondo culturale e politico impregnato di ideologia. E così erano gli album, veri e propri progetti musicali e manifesti culturali, ad interessare Battisti negli anni ’70, a cominciare da Amore e non amore, un disco rivoluzionario per l’epoca, pieno di rock, di brani strumentali, e con la provocatoria Dio mio no, brano censurato dalla Rai nel ’71: è l’anno della sua ultima apparizione tv, nella trasmissione Tutti insieme. L’anno seguente, ancora due capolavori, Umanamente uomo: il sogno, e Il mio canto libero, segnano il trionfo della coppia Battisti-Mogol, che punta al rinnovamento nel ’73 con Il nostro caro angelo: «Si ciba di radici e poi, lui dorme nei cespugli sotto gli alberi, ma schiavo non sarà mai…». Dalla metà degli anni Settanta, la produzione tende a farsi più discontinua: Anima Latina (’75), La batteria, il contrabbasso, eccetera... (’76), Io, tu, noi, tutti (’77), Una donna per Amico (del ’78, epoca dell' ultima intervista rilasciata dal cantante), e Una giornata uggiosa, che segna la fine della collaborazione con Mogol. Gli anni Ottanta ci propongono un Battisti completamente rinnovato e innamorato dell’elettronica, prima con E già (scritta con la moglie Grazia Letizia Veronesi), poi con l’affascinante Don Giovanni che è stato definito dai critici «tra i migliori prodotti musicali italiani di quel decennio, fatto con il paroliere Pasquale Panella, con il quale ha realizzato anche L’apparenza, La sposa occidentale (’90), Cosa succederà alla ragazza (’92) e il suo ultimo lavoro, Hegel.
«Con Battisti – ha detto alla suo morte Renzo Arbore – se ne va il più grande rivoluzionario della musica leggera italiana». E se i giudizi postumi possono essere distorti dall’effetto epitaffio, già nel 1990 Gino Castaldo su Repubblica esaltava così il “nuovo” Battisti: «Il più sorprendente tra i vecchi protagonisti della nostra canzone, per anni amatissimo dal pubblico e ferocemente snobbato dalla critica. In epoca di assoluta staticità creativa, quando anche i nuovi emergenti non riescono a superare del tutto l’impronta dei maestri, Battisti è stato l’unico con i suoi ultimi due dischi, Don Giovanni e L’apparenza, a sconvolgere totalmente gli stereotipi della canzone, ha provato a tracciare strade completamente nuove».
Rivoluzionario, appunto. Sempre Ansaldo, per commentare gli ultimi dischi, all’inizio dei Novanta ha descritto un Battisti che in realtà può ben corrispondere a tutti i trent’anni di storia musicale: «Ma dove vuole arrivare Battisti? Certo da Lucio Battisti non possiamo aspettarci prese di posizione ideologiche, manifesti programmatici. Lui è quello che con maggiore tenacia, dopo aver fatto scuola per anni percorre la canzone lungo un linea tangenziale, del tutto obliqua rispetto alla strada maestra. Viene anzi il sospetto che dietro i suoi ultimi dischi ci sia un progetto destabilizzante. Se gli altri cantautori in qualche modo ridanno fiato alle possibilità formali ed espressive della canzone, Battisti sembra affetto da una sorte di ammaliante cupio dissolvi, nella quale il senso stesso del suo mestiere viene messo radicalmente in discussione. Detto altrimenti, se Dalla, De Andrè, Fossati e gli altri, sembrano motivati nel proseguire ognuno a loro modo un percorso storico lineare, ascoltando le nuove canzoni di Battisti
dobbiamo immaginare una specie di azzeramento di tutti i valori, una immaginaria e simbolica catastrofe che avesse distrutto tutte le fondamenta del mondo precedente. Da queste macerie di note e parole, Battisti sta edificando qualcosa di radicalmente nuovo, come una di quelle mutazioni genetiche raccontate nelle fantasie letterarie del dopobomba». E, a dieci anni dalla morte, è proprio per questa sua magica e geniale capacità di percorrere strade traverse, sentieri inesplorati e vie sconosciute che Battisti continua ad essere uno dei grandi rivoluzionari della cultura italiana del Novecento. E, oltretutto, senza mai aver voluto fare la Rivoluzione. Il genio è tutto in questa, apparente, contraddizione.
Filippo Rossi, giornalista e scrittore (autore, con Luciano Lanna, del saggio-dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra, Vallecchi 2003), ha cominciato al quotidiano Il Tempo, è stato caporedattore del settimanale l'Italia, direttore delle news di Radio 101 e collaboratore di diverse testate politico-culturali. Attualmente è coordinatore editoriale della fondazione presieduta da Gianfranco Fini, "Farefuturo".
dobbiamo immaginare una specie di azzeramento di tutti i valori, una immaginaria e simbolica catastrofe che avesse distrutto tutte le fondamenta del mondo precedente. Da queste macerie di note e parole, Battisti sta edificando qualcosa di radicalmente nuovo, come una di quelle mutazioni genetiche raccontate nelle fantasie letterarie del dopobomba». E, a dieci anni dalla morte, è proprio per questa sua magica e geniale capacità di percorrere strade traverse, sentieri inesplorati e vie sconosciute che Battisti continua ad essere uno dei grandi rivoluzionari della cultura italiana del Novecento. E, oltretutto, senza mai aver voluto fare la Rivoluzione. Il genio è tutto in questa, apparente, contraddizione.
Filippo Rossi, giornalista e scrittore (autore, con Luciano Lanna, del saggio-dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra, Vallecchi 2003), ha cominciato al quotidiano Il Tempo, è stato caporedattore del settimanale l'Italia, direttore delle news di Radio 101 e collaboratore di diverse testate politico-culturali. Attualmente è coordinatore editoriale della fondazione presieduta da Gianfranco Fini, "Farefuturo".
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