Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 14 settembre 2008
Una singolare (ma eccellente), combinazione di temi. Una famiglia. Una madre bella e distaccata, un padre goffo ed una figlia unica (Giovanna), molto simile a lui. Verità e immaginazioni di una fetta di borghesia vecchia di settant’anni che costretta sull’orlo dell’abisso dalla follia di Giovanna reagirà rimanendo in scia ad una normalità, tragica e malinconica insieme. Ecco, dopo la famiglia in disarmo della terzultima – o penultima – pellicola: “La cena per farli conoscere” ove Diego Abatantuono era un padre dolorosamente finto, il settantenne Pupi Avati ha scelto ancora una volta un tema difficilissimo per il suo nuovo film: i rapporti fra consanguinei. La famiglia, questa sconosciuta. Disprezzata (anzi abbattuta) da buona parte dei registi alla moda in nome del “tutto è possibile”, viene difesa dal regista bolognese che rimane (fortunatamente) un passo indietro rispetto ai Muccino e agli Ozpeteck e che si “limita” a constatarne la profondissima crisi. Il malato è grave ma è ancora vivo sembra volerci dire. Ce la farà o non ce La farà? È un discorso da affrontare col massimo senso di realtà. Ma forse non è solo questione di sana concretezza ma anche di fede cattolica. E quella di Avati ha radici piuttosto antiche.
A Roma negli anni Settanta Pupi (Giuseppe all’anagrafe), ha frequentato il giro “giusto”: gli intellettuali di sinistra (ma non c’era bisogno di aggiungerlo, gli intellettuali sono sempre di sinistra diceva, scherzando, Montanelli). La gang di Bernardo Bertolucci, Moravia e Pasolini, l’allegra brigata che farà parlare di sé nei secoli dei secoli. E Pupi che fa? Si adegua e si becca il “bollino rosso”? Di più: pensa di farsi allievo di Krishnamurti per impegnarsi nella grande e “democratica” ribellione? Ovvero, terza opzione, la più difficile, cerca di ragionare? Anche qui è questione di fede secondo noi. E di saperla vivere con serenità questa fede, cosa sa che a Pupi è sempre riuscita benissimo.
Avati è un personaggio che il furioso Nietzsche avrebbe definito come un “misero” cristiano con la sua morale degli umili. Anche se, paradosso per paradosso, il suo è un cristianesimo molto “nicciano”, più fedele alla terra e all’attimo che fugge che provvidenzialistico e arido di legami con l’hic et nunc. Ma è consolante sapere che, oltre ai “nicciani” anche quelli di sinistra non lo avrebbero amato più o meno per lo stesso motivo: in Italia occupare i banchi di una chiesa tutte le sere, o peggio impegnarsi con la Cei, può essere considerato a seconda dei casi un atto da da p-e-r-i-c-o-l-o-s-i creduloni o da maniaci illiberali. Molti nemici insomma, molto onore. La normalità è un obiettivo, secondo la formula di Stefano Zecchi, ma un obiettivo oramai sempre più difficile.
Per farla breve Pupi sceglie di frequentare le sue di compagnie (la Chiesa) e non le altre (gli artisti così detti engagè). E cerca contemporaneamente, insieme al fratello Antonio, di rendersi indipendente auto-finanziando le proprie fatiche grazie alla nascita di DueA Film. Ben al di là delle ideologie dunque c’è un pubblico che i film di Avati li vede, li apprezza, anzi li ama. Quelli di Pupi sono film per tutti, soprattutto per i giovani (“Ma quando arrivano le ragazze?” - 2005). Il modo migliore per chiarire quale sia il suo “mestiere per vivere” è quello di definirlo regista per i giovani, per i giovani di ogni tempo e paese dunque, e ancora per tutti.
Non sono pochi i pugili – quelli veri intendiamo – che non abbiano manifestato almeno una sola volta nella loro carriera disappunto (disprezzo?), per l’hollywoodiano premio Oscar “Rocky”. Per lo sport – quello vero – la finzione cinematografica è sovente una grossolana presa in giro. Crediamo al contrario che non ci sia un solo giocatore di poker – giovane o ex giovane – che non abbia giudicato con favore l’avatiano “Regalo di Natale”. Indimenticabile film dell’86.
Circostanza questa che la dice lunga sulle capacità (di scelta), sulla bravura e sul realismo di un grande, versatile, regista che riesce a creare le tensioni giuste pur non cedendo alla facile spettacolarità. Insomma pur non sparandola grossa. “Regalo di Natale” che ha avuto un seguito nel 2005 è forse il più riuscito dei film di Avati. Centoventi minuti di intelligente mix di buona parte del suo ricco materiale artistico. Suspense e concretezza.
In fondo quello che ha sempre caratterizzato il regista indipendente è la scelta di non utilizzare facili espedienti per richiamare il pubblico e legarlo alla poltrona. Avati non è Tornatore piuttosto che Benigni, registi di buon mestiere che riescono a modulare i sentimenti e che usano le “storie” come un violinista usa l’archetto per far vibrare le corde giuste, mentre con le altre cinque dita pizzicano e solleticano le pulsioni dei cinefili. I suoi progetti? Pellicole che in primo luogo hanno rispetto dello spettatore, del suo essere persona. In fondo è questa sua normalità a renderlo diverso da molti altri uomini di cinema nostrani.
Avati è un regista dalla mano leggera – non ideologico si sarebbe detto una volta. Non usa “violenza” al pubblico , né se lo arruffiana con la morale di un facile sociologismo del “come siamo”, “come eravamo” e “come saremo” (e come potremo essere se…). Veggente? Futurologo? Manco per sogno, Avati ci offre i suoi frutti così come vengono senza obiettivi precisi, marxiani in senso lato. Conosce la fortuna dell’indipendenza, è un uomo di cinema e non un “intellettuale” – al più un uomo colto, un artista completo – o peggio un uomo di piazza, che ci racconta verità politiche (locuzione se, di nuovo, niccianamente intesa assai temibile), per il gusto della lotta e dell’impegno.
In tutto questo, per chi ci crede o no (o non vuol cedere ai filosofismi), la fede ha un ruolo centrale. Il messaggio da annunciare sta tutto nella sua centralità, inutile perdersi nei labirinti di modernissime rivoluzioni, quel che c’è da conservare è giusto si conservi. È un segno di coraggio anche nel Terzo millennio. Avati è un uomo di spettacolo a tutto campo si potrebbe dire, autore dei soggetti cinematografici, scrittore e adesso regista teatrale al festival di Todi diretto da Maurizio Costanzo, che sa utilizzare generi diversi come si evince dalla sua filmografia ricca di oltre 40 pellicole e di serial televisivi di successo. La maggior scommessa restano comunque gli attori che hanno preso parte ai suoi film. Dall’ultimo serissimo Ezio Greggio (protagonista ne “Il papà di Giovanna” insieme a Francesca Neri e Silvio Orlando, premiato qualche giorno fa, a Venezia, con la Coppa Volpi), a Katia Ricciarelli non troppo a suo agio con le tecniche cinematografiche, da uno dei fedelissimi morto prematuramente Nick Novecento, ad Antonio Albanese, da Vittoria Puccini a Neri Marcorè che quando non imita o sfotte Zapatero e Gasparri, caratterizza con robusta arte i suoi personaggi, furbi o tontoloni che siano. Quello che Avati compie sugli attori resta comunque un gran lavoro. Il suo è un cinema fatto essenzialmente di personaggi, più di recitativi che di scene di gruppo. Pupi è bravissimo a concentrarsi sugli attori che non sono mai dei burattini che recitano per il proprio regista-Mangiafuoco, ma professionisti spesso già affermati o con un celebre passato – anche televisivo – che si accordano alla sceneggiatura con una naturalezza che reca sorprese. La prima di Pupi è come aiuto di Piero Vivarelli nel ’68 (ancora lui!) nel film “Satanik”. L’anno dopo però si espone al giudizi del pubblico, in verità ristrettissimo, con un proprio film horror: “Balsamus”, primo di una serie di modalità di comunicazione cinematografica che ha compreso la commedia, il thriller, le biografie, giù giù (o su su) fino al sentimentale puro. Avati è anche legatissimo a Bologna o a un’Emilia presa per intero, che spesso hanno ispirato i suoi lavori, i soggetti e le sceneggiature. E poi, naturalmente, c’è la musica.
Avati è un discreto musicista, appassionato fin da giovane al jazz, amico e compagno di Lucio Dalla (del quale con obiettività riconosce il maggior talento), ma è stato peraltro anche un semplice impiegato di una della più note industrie di surgelati del nostro Paese. Così ricco di calore umano, lì non poteva durare molto a lungo…
Il suo amore per la musica (il jazz in particolare) è un filo che attraversa molti film del suo repertorio. Anche il curioso e solo in parte riuscito “Noi tre” (1984), poco conosciuta “intrusione” di Avati nella biografia mozartiana. Imparagonabile, per carità di Dio (almeno per chi ama Mozart), al puskiniano “Amadeus” di Milos Forman, né al cupo e meno noto “Dimenticate Mozart”. Pellicola dell’ex Germania federale. Curiosamente i tre film recano tutti la stessa data: anno di grazia 1984.
Qual è il denominatore comune delle scelte registiche dell’ex dirigente della Findus? Non facile a dirsi; dal punto di vista dello stile: una certa personale morbidezza, una gentilezza di fondo ed una “classe” riconosciuta da molti addetti ai lavori. Dal punto di vista dei contenuti invece il culto mai estremistico, mai moralistico, semmai colorato appena da una sottilissima nostalgia, dei ricordi (perfino autobiografici). Una memoria della quale sono i protagonisti dei film a farsi carico, sperimentando la trincea delle gioie e dei dolori. Protagonisti che recano sul proprio corpo – viso e movenze – i segni di un’essenzialità non-ermetica, anzi anti-ermetica sul cui comodo carro far salire ogni probabile spettatore.
C’è da rimanere sorpresi ad esempio nel rivedere Carletto Delle Piane, per come gli amanti del genere comico l’avevano conosciuto (accanto a Sordi per esempio), nei panni del prof Balla corteggiare la bella Tiziana Pini ne “Una gita scolastica” del 1983, film che segna il passaggio ad una stagione più felice di Avati. Una pellicola (tratta da una storia vera), ambientata alla vigilia della prima Guerra mondiale e costruita sulla memoria di storie comuni che potrebbero appartenere ad ognuno di noi, ad ogni ex studente.
Film della svolta abbiamo detto. Buon successo. Non che prima di lavori da ricordare non ce ne fossero (peraltro Pupi collaborò con l’ultimo Pasolini, quello del violento “Salò o le 120 giornate di Sodoma”). Basti citare il noir “La casa dalle finestre che ridono” (1976), scritto da Maurizio Costanzo che già da quegli anni non esentava nessuno dalla sua onnipresenza e con altri due celebri nomi del suo originario gruppo di attori: Lino Capolicchio e Gianni Cavina. Poi ancora: “Bordella” commedia musicale del ’77 col giovane Christian De Sica e “Zender” altro horror con Gabriele Lavia. Prima Pupi aveva girato uno stranissimo film (almeno nel titolo), “La mazurca del barone, della santa e del fico fiorone” col grande Ugo Tognazzi che l’aveva momentaneamente rilanciato dopo un inizio a passo di gambero. Sono pellicole che a due generazioni di distanza dalla loro prima uscita andrebbero riviste, per apprezzarne e la freschezza e l’amore per il dettaglio. Basti sapere che ai nostri giorni “La casa dalle finestre che ridono” è considerato un vero e proprio film culto.
Fra i tanti generi, perfino “gialli”, interessanti anche i film avatiani d’ambientazione storica (medievale): “Magnificat” (1993) ed il più recente “I cavalieri che fecero l’impresa” (2001), con Raoul Bova e basato sull’omonimo romanzo dello stesso Avati. È un film sulla Sacra Sindone, in pieno periodo tolkeniano Pupi si spinge abbastanza oltre i confini del Fantasy. Bella l’idea ma non altrettanto la realizzazione. È un film che passa velocemente senza lasciare tracce profonde. Poco male però, i fan del regista bolognese abituati ai sali-scendi del loro favorito, dimenticheranno presto arcani, cavalli e cavalieri. Un anno dopo (con “Il cuore altrove”), s’immergeranno o nell’ovale della splendida Vanessa Incontrada o nel sorriso di Nino D’Angelo, re dei neo-melodici (de gustibus…).
Marco Iacona è dottore di ricerca in "Pensiero politico e istituzioni nelle società mediterranee". Si occupa di storia del Novecento. Scrive tra l'altro per il bimestrale "Nuova storia contemporanea", il quotidiano "Secolo d'Italia" e il trimestrale "la Destra delle libertà". Per il quotidiano di An nel 2006 ha pubblicato una storia del Msi in 12 puntate. Ha curato saggi per Ar e Controcorrente edizioni. Nel 2008 ha pubblicato: "1968. Le origini della contestazione" globale" (Solfanelli).
1 commento:
Ho appena visto "Il papà di Giovanna" e mi è piaciuto. Ho 37 anni e sono cresciuto a pane ed effetti speciali/sentimentali. Mi è sembrato un film che riporta ad un realismo rispetto alla fatica della normalità. Interessante sapere che altri hanno avuto la mia stessa impressione, riuscendolo a vedere senza pregiudizi estetico-ideologici. Ho letto critiche feroci su un presunto "sfacciato revisionismo storico", ma forse nascono da un clima un po' da paranoia antifascista di questi ultimi giorni. Manuele, Roma
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