Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 14 settembre 2008
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 14 settembre 2008
Un bel lavoretto, avrà pensato John Pasche. Cinquanta sterline ben guadagnate. A poco più di vent’anni, e nel giro di due settimane, era riuscito a trovare un’idea azzeccata (complessa in profondità, semplicissima a prima vista) per il marchio degli Stones. The Rolling Stones, cazzo. Una delle band migliori, e di maggior successo, di tutta quanta l’Inghilterra. Di tutto quanto il mondo.
Mi piace, avrà pensato Mick Jagger. Ed è sempre meglio, comunque, di quello schifo di bozzetti che aveva proposto la casa discografica. Ma sì, aveva fatto bene a occuparsene direttamente lui e a parlarne con quel ragazzo, quel John, e a vedere come se la cavava. Studente o non studente, il giovanotto ci si era messo d’impegno. Ci aveva dato dentro. E il risultato era arrivato: piacevole, e immediato, e per nulla stupido. Come una bella canzone di quelle che facevano loro. Come un bel riff di quelli che scodellava Keith Richards.
Era il 1971. Il nuovo 45 giri si sarebbe chiamato Brown Sugar, il nuovo 33 Sticky Fingers. Il marchio di John Pasche sarebbe comparso per la prima volta sull’album: copertina di Andy Warhol (con la patta dei jeans in primo piano e una vera cerniera applicata alla foto: Sticky Fingers, Dita Appiccicose… e non si tratta mica di colla, chiaro) e quella linguetta dispettosa, e accattivante, a sintetizzare in una sola occhiata il messaggio ambiguo e seducente di Mick. Sono un tipo poco raccomandabile. Sono un tipo irresistibile. Sberleffo da teppista e fascino da divo. Tutto nello stesso stampo. Nello stesso cocktail truccato: il caro vecchio long drink più qualche polverina che non ti immagini. Il paradosso del rock e il corto circuito dello show-business: l’establishment ti odia perché lo attacchi; l’establishment ti adora perché lo arricchisci.
Era il 1971. I Rolling Stones esistevano da nove anni, e già sembrava un mucchio di tempo. I Beatles erano arrivati al capolinea. Le cose correvano velocemente. Cambiavano velocemente. Le band si scioglievano. Le rockstar morivano: il 18 settembre del ’70 era toccata a Jimi Hendrix, il 4 ottobre a Janis Joplin, il 3 luglio del ’71 sarebbe stata la volta di Jim Morrison. Meglio non guardare troppo lontano. Meglio andare avanti giorno per giorno. Canzone per canzone. Concerto dopo concerto. Notte dopo notte. Talmente indaffarati a vivere (a bruciare) che non c’è spazio per nient’altro, men che meno per una domanda così scema come quella su cosa sarebbe rimasto, a distanza di dieci, venti, o trent’anni, di tutta quella corsa sfrenata.
Era il 1971. Siamo nel 2008. Arriva il Victoria & Albert Museum di Londra e compra il disegno originale di John Pasche, sborsando la considerevole somma di 92.500 dollari. O 63.000 euro. O 50.400 sterline. Non era mai successo, sottolineano i commentatori. Mai accaduto che un museo (un museo!) decidesse di acquistare, e di esporre, un marchio del rock’n’roll. Che siamo abituati a vedere in tutt’altro contesto. E che si fa un po’ fatica, in effetti, a immaginare nelle sale austere di un’istituzione tipicamente culturale, messo sotto vetro e convenientemente etichettato. A proposito: cosa scriveranno gli esperti per presentare il cimelio? Un sobrio, laconico «logo dei Rolling Stones, autore John Pasche, 1971», oppure un’intera nota esplicativa, che si diffonda sulla rilevanza della band nel panorama rock e sull’efficacia esemplare dell’opera grafica, «corrispettivo visuale della provocatoria attitudine espressiva e comportamentale del gruppo e, più in particolare, del suo elemento maggiormente rappresentativo, il cantante Michael Philip “Mick” Jagger»?
Niente da fare. In quest’epoca in cui l’arte diventa subito merce, e in cui le ribellioni vengono prontamente metabolizzate sotto forma di fenomeno di costume, l’unica garanzia di restare se stessi è non avere successo. La diversità autentica prospera solo nell’ombra. O nella luce naturale – così diversa da quella artificiale dei riflettori, e da quella artificiosa dei media – di un’attività che si svolga in ambiti ristretti, più amatoriali che professionistici.
Quand’anche uno non si lasci abbindolare dalle lusinghe della fama, mantenendosi magnificamente lucido come Bruce Springsteen, o magnificamente stordito come Keith Richards, il controllo su se stessi non comporta affatto il controllo sulla propria immagine. Per quanto ci si sforzi di chiamarsi fuori dalle regole dominanti, e di tenere le distanze da chi detiene il potere e lo esercita a proprio uso e consumo, si è continuamente esposti a qualche genere di manipolazione. Anche se i Rolling Stones non sono certo i campioni del rigore morale, e della coerenza tra le intenzioni iniziali e gli sviluppi successivi, nella loro vitalità smodata c’è qualcosa di profondamente, intrinsecamente, definitivamente inconciliabile con lo statu quo. Cosa diavolo hanno a che spartire, tipi come loro, col Victoria & Albert Museum di Londra o con qualsiasi altro, dannato caveau dell’immaginario contemporaneo? Quali che fossero le intenzioni dei responsabili del museo (presumibilmente più giovani degli stessi Stones, oramai ben oltre la sessantina), dovrebbero capire che non è quello il luogo giusto per accogliere i simboli del rock. Se proprio li si vuole raccogliere, e mettere in mostra, lo si faccia in spazi che siano dedicati esclusivamente a loro e che abbiano una denominazione diversa da quella, comunque legata all’archiviazione, di “museo”. Non è una differenza puramente terminologica. È una differenza – decisiva – che cambia il modo di relazionarsi con un particolare oggetto e col suo habitat. Declinando quella relazione al passato, si trasforma una cosa ancora viva e vitale in un reperto storico. Senza capire, oltretutto, che esibire l’originale di un logo, destinato di per se stesso alla riproduzione la più ampia possibile, è una contraddizione in termini. Quello che sarebbe interessante, semmai, è vedere gli abbozzi intermedi che hanno condotto Pasche al risultato finale. Se esistono, please, metteteli on-line. E su un sito gratuito.
Mi piace, avrà pensato Mick Jagger. Ed è sempre meglio, comunque, di quello schifo di bozzetti che aveva proposto la casa discografica. Ma sì, aveva fatto bene a occuparsene direttamente lui e a parlarne con quel ragazzo, quel John, e a vedere come se la cavava. Studente o non studente, il giovanotto ci si era messo d’impegno. Ci aveva dato dentro. E il risultato era arrivato: piacevole, e immediato, e per nulla stupido. Come una bella canzone di quelle che facevano loro. Come un bel riff di quelli che scodellava Keith Richards.
Era il 1971. Il nuovo 45 giri si sarebbe chiamato Brown Sugar, il nuovo 33 Sticky Fingers. Il marchio di John Pasche sarebbe comparso per la prima volta sull’album: copertina di Andy Warhol (con la patta dei jeans in primo piano e una vera cerniera applicata alla foto: Sticky Fingers, Dita Appiccicose… e non si tratta mica di colla, chiaro) e quella linguetta dispettosa, e accattivante, a sintetizzare in una sola occhiata il messaggio ambiguo e seducente di Mick. Sono un tipo poco raccomandabile. Sono un tipo irresistibile. Sberleffo da teppista e fascino da divo. Tutto nello stesso stampo. Nello stesso cocktail truccato: il caro vecchio long drink più qualche polverina che non ti immagini. Il paradosso del rock e il corto circuito dello show-business: l’establishment ti odia perché lo attacchi; l’establishment ti adora perché lo arricchisci.
Era il 1971. I Rolling Stones esistevano da nove anni, e già sembrava un mucchio di tempo. I Beatles erano arrivati al capolinea. Le cose correvano velocemente. Cambiavano velocemente. Le band si scioglievano. Le rockstar morivano: il 18 settembre del ’70 era toccata a Jimi Hendrix, il 4 ottobre a Janis Joplin, il 3 luglio del ’71 sarebbe stata la volta di Jim Morrison. Meglio non guardare troppo lontano. Meglio andare avanti giorno per giorno. Canzone per canzone. Concerto dopo concerto. Notte dopo notte. Talmente indaffarati a vivere (a bruciare) che non c’è spazio per nient’altro, men che meno per una domanda così scema come quella su cosa sarebbe rimasto, a distanza di dieci, venti, o trent’anni, di tutta quella corsa sfrenata.
Era il 1971. Siamo nel 2008. Arriva il Victoria & Albert Museum di Londra e compra il disegno originale di John Pasche, sborsando la considerevole somma di 92.500 dollari. O 63.000 euro. O 50.400 sterline. Non era mai successo, sottolineano i commentatori. Mai accaduto che un museo (un museo!) decidesse di acquistare, e di esporre, un marchio del rock’n’roll. Che siamo abituati a vedere in tutt’altro contesto. E che si fa un po’ fatica, in effetti, a immaginare nelle sale austere di un’istituzione tipicamente culturale, messo sotto vetro e convenientemente etichettato. A proposito: cosa scriveranno gli esperti per presentare il cimelio? Un sobrio, laconico «logo dei Rolling Stones, autore John Pasche, 1971», oppure un’intera nota esplicativa, che si diffonda sulla rilevanza della band nel panorama rock e sull’efficacia esemplare dell’opera grafica, «corrispettivo visuale della provocatoria attitudine espressiva e comportamentale del gruppo e, più in particolare, del suo elemento maggiormente rappresentativo, il cantante Michael Philip “Mick” Jagger»?
Niente da fare. In quest’epoca in cui l’arte diventa subito merce, e in cui le ribellioni vengono prontamente metabolizzate sotto forma di fenomeno di costume, l’unica garanzia di restare se stessi è non avere successo. La diversità autentica prospera solo nell’ombra. O nella luce naturale – così diversa da quella artificiale dei riflettori, e da quella artificiosa dei media – di un’attività che si svolga in ambiti ristretti, più amatoriali che professionistici.
Quand’anche uno non si lasci abbindolare dalle lusinghe della fama, mantenendosi magnificamente lucido come Bruce Springsteen, o magnificamente stordito come Keith Richards, il controllo su se stessi non comporta affatto il controllo sulla propria immagine. Per quanto ci si sforzi di chiamarsi fuori dalle regole dominanti, e di tenere le distanze da chi detiene il potere e lo esercita a proprio uso e consumo, si è continuamente esposti a qualche genere di manipolazione. Anche se i Rolling Stones non sono certo i campioni del rigore morale, e della coerenza tra le intenzioni iniziali e gli sviluppi successivi, nella loro vitalità smodata c’è qualcosa di profondamente, intrinsecamente, definitivamente inconciliabile con lo statu quo. Cosa diavolo hanno a che spartire, tipi come loro, col Victoria & Albert Museum di Londra o con qualsiasi altro, dannato caveau dell’immaginario contemporaneo? Quali che fossero le intenzioni dei responsabili del museo (presumibilmente più giovani degli stessi Stones, oramai ben oltre la sessantina), dovrebbero capire che non è quello il luogo giusto per accogliere i simboli del rock. Se proprio li si vuole raccogliere, e mettere in mostra, lo si faccia in spazi che siano dedicati esclusivamente a loro e che abbiano una denominazione diversa da quella, comunque legata all’archiviazione, di “museo”. Non è una differenza puramente terminologica. È una differenza – decisiva – che cambia il modo di relazionarsi con un particolare oggetto e col suo habitat. Declinando quella relazione al passato, si trasforma una cosa ancora viva e vitale in un reperto storico. Senza capire, oltretutto, che esibire l’originale di un logo, destinato di per se stesso alla riproduzione la più ampia possibile, è una contraddizione in termini. Quello che sarebbe interessante, semmai, è vedere gli abbozzi intermedi che hanno condotto Pasche al risultato finale. Se esistono, please, metteteli on-line. E su un sito gratuito.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000. Prima su “Ideazione.com”, poi sui quotidiani “Linea”, di cui è stato caporedattore fino al maggio scorso, e “Secolo d’Italia”.
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