martedì 9 settembre 2008

Sì a Giorgio Gaber nelle scuole (di Alessandro Grandi)

(dipinto di Roberto Agostini www.robertoagostini.it)
Articolo di Alessandro Grandi
Dal Secolo d'Italia di martedì 9 settembre 2008
Riaprono le scuole. Con un’emergenza in più, secondo Riccardo Chiaberge (nella foto), responsabile del supplemento culturale del quotidiano il Sole 24 Ore. L’emergenza Gaber, la definisce il giornalista. Riferendosi al progetto del ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, di far conoscere Giorgio Gaber agli studenti delle superiori e delle università. Per Chiaberge, che tenta la carta dell’ironia, la Gelmini è evidentemente «troppo giovane per aver ascoltato con attenzione i testi di Gaber». E il giornalista (e intellettuale liberale) invita il ministro a leggersi (ma non sarebbe meglio ascoltare?) il brano gaberiano Io non mi sento italiano che, nel Chiaberge-pensiero, rappresenta un evidente atto di accusa contro il precedente governo Berlusconi. Oppure il più datato Si può, con le considerazioni sulla possibilità di ricantare Faccetta nera o di farsi «ognuno una bella Lega». E conclude, il grande esperto culturale, ironizzando sul pericolo che qualcuno utilizzi come inno del partito «Libertà, libertà, libertà obbligatoria».
Scelte curiose dei testi di Giorgio Gaber, da parte del quotidiano di Confindustria. Ovviamente nessuno può pensare di annettere Gaber al Popolo della libertà, alla destra o al postfascismo d’antan. Ma d’altronde il ministro Gelmini non aveva proprio questa intenzione. Semplicemente, molto semplicemente, ha pensato di offrire agli studenti l’opportunità di studiare musiche e testi di un intellettuale – un cantautore e un autore di testi teatrali – che ha caratterizzato, con la propria intelligenza, un periodo che inizia negli anni Sessanta per arrivare sino al nuovo millennio. Senza rivendicazioni, senza appropriazioni. Non dovrebbe essere difficile da comprendere. Ma, soprattutto, senza operazioni assurde, che nulla hanno a che fare con la cultura, di estrapolazione di qualche frase per schierare Gaber da un lato della barricata. Quale lato, poi? «Gaber, il più anarchico, il più insubordinato di tutti», ammette persino Chiaberge. In questo modo, però, lo si disinnesca, lo si esclude da qualsiasi analisi approfondita. Comodo, certo, per chi è un rappresentante tipico di quell’Ingranaggio stroncato da Gaber già all’inizio degli anni Settanta quando Silvio Berlusconi non infastidiva ancora il giovane Riccardo Chiaberge. Così come farebbe comodo dimenticare le tante invettive contro un’America che porta tante cose, come il chewingum, ma la cultura proprio no (America lyrics): «Non c’è un popolo più stupido degli americani ». E ancora, «se non c’erano gli americani, a quest’ora noi eravamo europei». Un must, per Confindustria. Ma gli studenti potrebbero persino capire e apprezzare.
Non meno “politicamente scorretti” i ripetuti attacchi contro la (pseudo) democrazia. La «superstizione della democrazia», che è una cosa vuota come la schiuma dello Shampoo, con l’inutile rito del voto descritto nelle Elezioni e il cittadino modello che si reca al seggio e frega la matita copiativa. È questo il Giorgio Gaber che piace alla cultura progressista, o è quello che suscita timori? E nella recente rincorsa (progressista e liberal-conservatrice) a cancellare il Sessantotto, quali versi estrapoleranno i difensori del pensiero unico? «Il coraggio di quel maggio», citato nel Dilemma, o l’ironia di Al bar Casablanca, con gli “intellettuali barbuti” che – dotati degli immancabili giornali intonsi ma con «i titoli rossi» – mangiano il gelato e discettano su cosa dovrebbero fare gli operai? Forse basterebbe far leggere ai ragazzi il testo de I reduci per raccontare l’intero periodo dal Sessantotto al terrorismo, sino al riflusso. Dalla «voglia di rompere tutto, le nostre famiglie, gli armadi, le chiese, i notai, i banchi di scuola, i parenti, le 128», trasformando la rabbia in coraggio, per poi passare all’organizzazione, ai lunghi e inutili discorsi. Dall’illusione di una rivoluzione alla crisi e al recupero della dimensione individuale, per poi tornare alla voglia di fare un’azione e prendere coscienza di essere «nella merda totale» e ritrovarsi come reduci sconfitti. Quattro minuti e venti secondi per spiegare quindici anni. Davvero ha torto la ministra Gelmini?
Ma forse non è il ministro a dover aver paura di un recupero di Gaber. Forse sono i reduci del bar Casablanca a non saper fare i conti con il proprio passato e con le ironie del creatore del Teatro Canzone. «La realtà è un uccello» è un’analisi anche teorica degli errori dell’allora Pci (il partito comunista italiano). E la «libertà obbligatoria» era quella imposta dall’ultrasinistra gruppettara, non quella di un partito che ancora non esisteva.
Ancor più irriverenti i testi degli anni successivi, a partire dalle pesanti battute sulla politica e gli atteggiamenti dei compagni (Quanto è moda, è moda), sui salariati del piacere, per arrivare all’invettiva totale di Io se fossi Dio. Un brano ormai cancellato da ogni rievocazione. Con il feroce attacco post mortem al santificato Aldo Moro, «un politicante qualunque», trasformato in uno statista «solo perché gli ha sparato un brigatista». E allora cosa deve temere, il ministro? Le spassose considerazioni contro la televisione deficiente (La strana famiglia)? L’attacco contro il saluto romano? Contro i tecnocrati della Presa del potere, un po’ nazisteggianti? O quelli della Peste? Magari agli intellettuali del Pd darebbe più fastidio che si spiegasse nelle scuole l’origine della Nave, ripresa da Louis-Ferdinand Céline che, non a caso, è uno degli scrittori preferiti da Sandro Luporini, coautore dei testi di Gaber. E che dire di «Io, se fossi Dio, stramaledirei gli inglesi come mi fu chiesto»?
Certo, non sarà facile far accettare dai giovani viziati l’idea che fossero meglio i padri di un tempo – anche se a volte un po’ ottusi, autoritari, però con un senso della vita – rispetto agli odierni padri-amici privi di ogni sostanza (I padri miei -I padri tuoi). E anche l’insistenza degli ultimi anni sull’assoluta necessità di un ritorno a un maggior rigore, all’impegno, alla serietà. Nei rapporti personali, innanzi tutto. Perché è dall’individuo, dalla famiglia che si riparte per ricostruire una società allo sbando, disillusa e senza speranze. Un fil rouge, per Gaber, da Chiedo scusa se parlo di Maria sino a Quando sarò capace di amare. Ma ancora prima, quando insisteva sulla necessità di imparare a camminare, perché il primo rapporto è quello con il proprio corpo. «Cerco un gesto, un gesto naturale».
Tanti anni di attività e di pensiero portano, quasi inevitabilmente, a ripensamenti, a cambiamenti di prospettiva e di idee. È cambiato il mondo e le risposte devono essere diverse. Ma l’intelligenza resta un elemento fondamentale per affrontare il presente e il futuro. Così il “compagno” Gaber si era già ritrovato pesantemente contestato dalla sinistra.
Disilluso, probabilmente. Perché è vero che «la libertà non è star sopra un albero, libertà è partecipazione», ma la banalità della massa è scoraggiante, così come quella del piccolo borghese meschino. Eppure, ricordava Gaber nelle sue ultime canzoni, non bisogna arrendersi, occorre rifiutare il conformismo e creare una nuova coscienza. Un’altalena di sentimenti, con la voglia di ritornare sulla strada, luogo ideale per il confronto, per la crescita individuale e collettiva. Evitando di chiudersi nelle case dove «non c'è nulla di buono» mentre «sulla strada è l’unica salvezza». Ancor più problematico, soprattutto per Confindustria, accettare che nelle scuole arrivi il Gaber pensiero in termini di economia. Il mercato pare quasi aver ispirato Giulio Tremonti per il suo ultimo libro contro il pericolo del mercatismo. Senza eccessi, senza illusioni e senza timori. Un mercato che non deve essere Dio ma con cui ci si deve confrontare. Mentre, in fondo, proprio a Brunetta dovrebbe piacere Qualcuno era comunista, laddove si sottolinea che qualcuno lo era perché voleva statalizzare tutto, fose «perché non conosceva impiegati statali, parastatali e affini».
Ma in fondo – questo è chiaro – è tutto un gioco intellettuale. Bisognerebbe, semplicemente, crescere e dimenticarsi gli anni della gioventù, quando si pensava che un verso di una canzone fosse il Vangelo. Il ministro Gelmini vuol portare i testi nelle scuole (magari correggendo anche gli errori come quelli sulla morte di Gozzano) per un confronto, per una discussione, per uno studio. Non certo per dettare la linea.
Non dovrebbe essere difficile da capire, purché si sia in buona fede. Dote non sempre riconosciuta da Gaber ai giornalisti: «Io, se fossi Dio, maledirei davvero i giornalisti, e specialmente tutti, che certamente non son brave persone e dove cogli, cogli sempre bene; compagni giornalisti avete troppa sete e non sapete approfittare della libertà che avete: avete ancora la libertà di pensare, ma quello non lo fate, e in cambio pretendete la libertà di scrivere». Ha ragione Chiaberge: Gaber è un pericolo per la scuola.

Alessandro Grandi. Nato in provincia di Torino nel 1984 e milanese d'adozione, si è laureato giovanissimo in Economia e management delle amministrazioni pubbliche e delle istituzioni internazionali. Ricercatore universitario, non disdegna di coltivare la passione per la musica e soprattutto per la batteria, strumento che suona da ben prima di iniziare a camminare. Ha un gruppo di "musica incazzata" ma preferisce non farne il nome affinchè la sua qualità di economista serio e apprezzato non rovini l'immagine della band creando comprensibile imbarazzo agli altri membri.

3 commenti:

Anonimo ha detto...

...che dire...quasi quasi mi faccio uno shampoo...
Carlo Tortarolo

Roberto Alfatti Appetiti ha detto...

Ciao Carlo, benvenuto!

Giorgio Ballario ha detto...

Insegnare (o meglio ancora, far ascoltare) Gaber a scuola?
Perché no. Malgrado i pruriti di Chiaberge, un grande spirito libero non potrebbe che far bene ai nostri scolari, pronti a crescere come polli in batteria nella scuola delle tre "i" e nel Paese del rincoglionimento televisivo.
Io continuo a far mio un aforisma del grande Longanesi (morto più di 50 anni fa): Non manca la libertà, mancano gli uomini liberi.