martedì 30 settembre 2008

Show must go on... per quel che resta dei Queen il motto non vale più... (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 28 settembre 2008
Il modo giusto era un taglio netto tra il prima e il dopo: il prima dei Queen al completo, quando sembrava normale sfoggiare uno dopo l’altro gioielli barocchi come Bohemian Rhapsody e bracciali d’acciaio come Under Pressure, caldi mantelli avvolgenti come Somebody to Love e tenute essenziali, quasi brutali, come Another One Bites The Dust, e il dopo dei tre che erano sopravvissuti alla morte di Freddie Mercury, avvenuta il 24 novembre 1991. Il modo giusto era affondare la lama senza paura e affrontare il dolore. Guardare in faccia quello che si stava perdendo e che non sarebbe tornato mai più. La morte di Freddie. La morte del gruppo. La scomparsa prematura di un cantante straordinario. L’epilogo improvviso di una carriera ancora apertissima.
Sarebbe stato giusto piangere, e maledire il destino, e prendersi una sbornia colossale. Fare tutto quello che un lutto richiede – e concede. Fare un bellissimo funerale a Freddie Mercury. E poi un grandioso concerto commemorativo, per Freddie e per i Queen. E poi… poi basta. Poi voltare pagina, una volta per tutte, e incamminarsi su qualche nuova strada. Proseguire tutti e tre insieme, o ciascuno per conto proprio. Scrivere altri pezzi. Incidere nuovi album. Avventurarsi in tournée tutte da inventare, da scoprire, da rischiare. E solo lì, solo di tanto in tanto, dare spazio a un omaggio al passato. «Era musica che amavamo. È musica che amiamo ancora. E tu non guardarci male, Freddie, se non la cantiamo bene come la cantavi tu.» Oppure, perché no, mettersi seduti in un angolo del palco e far partire un filmato dei tempi d’oro. E guardarlo, ascoltarlo, assaporarlo, insieme a tutto il pubblico, col suo stesso miscuglio di entusiasmo e di rimpianto.
Non è andata così, purtroppo. Brian May & Co. non hanno resistito alla tentazione e si sono tenuti stretti il loro vecchio nome. Stemma nobiliare e marchio di fabbrica. Affermazione d’orgoglio (legittima) e garanzia di profitti (discutibile). I Queen hanno continuato a esistere, ma in una versione artificiosa e a scartamento ridotto. Hanno smesso di essere un gruppo in piena attività, che nel bene o nel male continua comunque il suo percorso, e sono diventati una sorta di fondazione a carattere auto celebrativo. Un’antologia qui, una riunione “eccezionale” lì, l’album postumo coi pezzi già incisi da Freddie ma non ancora completati al momento della sua morte, l’album dal vivo che recupera, nel 2004, il concerto del 5 giugno 1982, e infine il dvd che ripropone, nel 2007, gli show di Montreal del 24 e 25 novembre 1981, già visti nel 1983 sotto forma di film, e successivamente di vhs, col titolo di We Will Rock You.
L’intero catalogo, insomma, dello sfruttamento a posteriori. E quel che è peggio, quello che maggiormente faceva risaltare l’inopportunità di un prosieguo, una serie di esibizioni con altri cantanti più o meno dotati, più o meno celebri. Elton John, George Michael, persino Zucchero. «Siamo qui per ricordare il nostro caro, mitico, ineguagliabile Freddie (ma sai che business, se il gruppo si ricostituisse stabilmente…)». Applausi del pubblico. Sorrisi del management. La Regina è morta; lunga vita alla Regina.
Alla fine lo hanno fatto. Brian May e Roger Taylor, che nel frattempo avevano tentato senza troppo successo la strada delle carriere solistiche, hanno deciso che bisognava riprovarci. John Deacon no: lui, che pure era stato descritto dallo stesso Mercury come uno che «ha sempre avuto un occhio particolarmente attento per i nostri affari», si era tirato fuori già da molto tempo e si è ben guardato dal lasciarsi coinvolgere.
May e Taylor hanno concluso la loro ricerca, il loro casting ultradecennale, identificando il nuovo cantante in Paul Rodgers, potente voce di matrice rock-blues con un lunghissimo passato che era cominciato già negli anni Sessanta con i Free ed era proseguito prima con la Bad Company, per tutto il decennio successivo, e poi da solo. Paul Rodgers che si affaccia con discrezione. Che riconosce con franchezza le difficoltà di misurarsi con un’eredità tanto ricca da diventare imbarazzante. Con un repertorio che non è solo impegnativo di per sé ma che è universalmente noto nelle versioni precedenti, fino a un’identificazione totale tra ogni singolo brano e il magnifico cantante che li ha interpretati a suo tempo. « È una sfida enorme, perché si tratta di una musica molto diversa da quella cui sono abituato. Devo entrare dentro quelle canzoni e interpretarle a modo mio. Non posso fingere di essere Freddie, in nessun modo, perché Freddie è unico».
I Queen sono tornati in circolazione nel 2005: lungo tour, principalmente europeo, e disco dal vivo, intitolato Return of the Champions (guarda caso su etichetta Hollywood, come ad evocare la Capitale Planetaria del Remake). La critica ha storto il naso. E anche i fan meno inclini ad accontentarsi di qualsiasi surrogato. Ma al botteghino è andata bene. E loro hanno alzato il tiro: perché non fare un album nuovo di zecca, ora?
Ci sono voluti un paio d’anni. E adesso eccolo qui, questo Cosmos of Rock. Che è firmato “Queen + Paul Rodgers”. Che è dedicato, sia pure con una solitaria riga in fondo al libretto coi testi, a Freddie Mercury. E che, a non sapere che è uscito oggi, lo si potrebbe tranquillamente scambiare per un lavoro di almeno vent’anni fa. Rock robusto, ma datato. Di gusto più americano che europeo. Quello che in gergo si chiama Aor, Adult oriented rock. Fai conto i Journey, i Foreigner, quel tipo di gruppi che sforna (sfornava) dischi a formula fissa: tre quarti di pezzi squadrati e un quarto di ballate ruffiane – insopportabili se le giudichi, irresistibili se ti ci abbandoni – a metà strada tra dolcezze acustiche e impennate elettriche.
E alla fine è come se, per caso o per destino, per paradosso o per giustizia, i termini della somma avessero cambiato di posto, invertendo l’ordine degli addendi e ribaltando gli equilibri. Più che Queen + Paul Rodgers, sembra Paul Rodgers + Queen. Non proprio ciò che ci si aspettava. Vero, Mr. May? Vero, Mr. Taylor?

Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la neonata rivista diretta da Massimo Fini.

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