domenica 19 ottobre 2008

Caro Fossati, politico insofferente (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 19 ottobre 2008

Un eterno apprendistato, e non solo della musica. Anche dell’amore, della scrittura, della vita. La vita che ha più sfaccettature di un diamante. E lo stesso fascino quando brilla. E la stessa durezza se ti azzardi a stringerla. La vita che nessuno te la insegna e che, in molti casi, non riesci ad insegnartela nemmeno tu stesso: capisci una cosa ma poi te ne dimentichi, trovi un significato e poi lo smarrisci, scorgi una verità e poi la perdi di vista.
«Ancora oggi non so come e quando attacco un lavoro, non lo so come capiti. Però succede che a un certo punto mi ci trovo dentro, ci sprofondo con una passione formidabile, e allora lì, in quel momento, capisco che l’idea va portata in fondo. A quel punto inizia a plasmarsi il progetto, non si lavora più soltanto di intuizioni. Si fatica coi muscoli, si modella secondo l’intuizione avuta. Giusta o sbagliata, non ha importanza.»
L’artista come un esploratore: sente il richiamo di un territorio e ci si inoltra. A volte trova quello che sperava e a volte no. A volte ritorna e racconta, altre volte tiene tutto per sé. Problemi nostri, se lo prendiamo alla lettera. Se scambiamo le sue impressioni per certezze. I suoi disegni per fotografie. Se – ed è il più grave errore che si possa fare – scorriamo i suoi taccuini di viaggio e immaginiamo che si riferiscano tutti allo stesso luogo. È il rischio di ogni album: pensare che, siccome raduna una serie di brani in una stessa raccolta, abbia un filo conduttore dall’inizio alla fine. È l’equivoco cui sono esposti innanzitutto i cantautori: ascoltarli e credere che tutto quello che cantano sia autobiografico, o che comunque rispecchi un punto di vista preciso, coerente, stabilizzato una volta per sempre.
«Da qualsiasi angolazione lo si guardi – ha scritto Andrea Scanzi nella sua bella “biografia ufficiale” pubblicata nel 2006 da Giunti – Fossati resta un artista difficilmente decifrabile.» Infatti: e non solo perché ci sono stati così tanti cambiamenti di direzione, lungo la strada, da escludere ogni interpretazione univoca; la difficoltà risiede nel modo stesso di scrivere, nella ricorrente (costante?) sensazione che quello che emerge sia soltanto una parte di quello che Fossati ha dentro, una singola combinazione di circostanze creative piuttosto che la manifestazione di un’identità permanente. Come se lui tirasse un filo, che spunta fuori dal groviglio della vita e reclama attenzione, e provasse ad annodarlo con altri. Tono su tono. Contrasto su contrasto. Non ci sta promettendo una corda così lunga da circondare il mondo, o un guinzaglio così robusto da impedire al tempo di scappare via. Sta seguendo quello strano richiamo che si chiama ispirazione. Quella irresistibile seduzione che prima avvince l’artista e poi, se tutto va bene, si estende anche a noi.
Eppure, certamente senza volerlo, certamente senza inseguirlo, negli ultimi album qualche elemento comune inizia ad affiorare. Uno lo si potrebbe definire politico, ma di una politica che è lontanissima dalle ideologie, e ancora di più dai partiti: una “politica” – termine che ormai, al punto in cui siamo, si deve mettere tra virgolette come se lo utilizzassimo in un’accezione insolita, quasi forzata – in cui la dimensione morale torna al primo posto. In mezzo alle innumerevoli falsità in cui siamo sprofondati, tra bugie di piccolo cabotaggio e menzogne così vaste da ricoprire ogni cosa, si riafferma il bisogno di sgombrare il campo, se non altro, dall’ipocrisia dilagante. La bottega di filosofia, in Lampo viaggiatore. Cara democrazia, ne L’arcangelo. Il paese dei testimoni e La guerra dell’acqua in quest’ultimo Musica moderna.
Fossati ha occhi per vedere e nessun motivo per fingere di non avere visto. La sua insofferenza è istintiva, sorpresa (e quasi addolorata) dal fatto di non essere sufficientemente condivisa da produrre una reazione generale, un rifiuto definitivo della colossale mistificazione di questo nostro mondo dominato dall’economia del massimo profitto. Questo mondo che produce per vendere e per fare soldi, invece che per sfamare i popoli e liberarli, il più possibile, dalle necessità materiali.


«Per strada ho visto l’angelo del bene / Il lavoro mi ripaga, mi ha detto / È un cretino di una multinazionale, a cui le cose vanno dritte / Vuole stare in cima, vuole viaggiare la vita su una limousine / (…) Se sei un uomo non dire bugie / Parla dritto agli orfani della Terra / La guerra dell’acqua è già cominciata, in qualche modo e da qualche parte / E poi tocca a noi, e poi tocca a noi.»
Uno, la politica. Due, l’amore. Che era già apparso in tante altre occasioni, col suo carico di attrazione e di fatalità, ma che negli ultimi anni sembra affermarsi come il centro di qualunque esistenza. L’ultima occasione, in una vita sempre più filtrata e irresponsabile, per essere coinvolti fino in fondo, entrando in contatto col meglio, ma anche col peggio, di noi stessi. Un amore ancora più accettato nella sua forza misteriosa e potente, potente fino a diventare invincibile. Un sortilegio al quale abbandonarsi non tanto per i suoi fremiti di gioia ma per i suoi squarci, anche dolorosi, di verità. Su ciò che siamo. Su ciò di cui abbiamo bisogno.
«Mai più saggezza, mai più / Se c’è un rimedio io corro da te / Senza una mano che mi sfiori io corro da te.»
E la musica? Quella musica che, per Ivano Fossati, è ancora più importante delle parole, ancora più centrale nel suo bisogno di esprimersi e di crescere, di sentirsi all’altezza delle sue aspirazioni di ragazzino entusiasta e inesperto, meravigliato della bravura dei grandi e del tutto insicuro di potervisi anche solo avvicinare?
È musica, ancora una volta, che si lascia ascoltare facilmente ma che il meglio di sé lo riserva a chi non si ferma alla superficie. Musica da avvicinare a più riprese, magari sottraendosi alla tentazione di ascoltare l’album per intero e limitandosi a un brano per volta. Come un libro di racconti che si chiude al termine di ogni singola storia. Come una città lungo l’itinerario di un viaggio: ti accontenti di attraversarla, e di precipitarti verso la tappa successiva, o ti regali il tempo di conoscerla meglio?
Un’altra lezione nascosta nelle pieghe della sua arte. Un invito implicito che sarebbe sciocco ignorare.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la neonata rivista diretta da Massimo Fini.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Bello questo ritratto di Fossati, usato anche come recensione dell'ultimo album (magnificatomi da molti ma che non ho ancora acquistato).
Condivido tutto quello che hai scritto, Federico. Abbiamo gusti e passioni davvero molto simili :-)