sabato 25 ottobre 2008

Dall'Esquilino il "Blade Runner" alla romana di Tommaso Pincio (di Errico Passaro)

Articolo di Errico Passaro
Dal Secolo d'Italia di venerdì 24 ottobre 2008
Esce per Einaudi Cinacittà di Tommaso Pincio (nella foto), ed è subito scalpore. Il romanzo (pp. 335, euro 17) porta il sottotitolo Memorie del mio delitto efferato, ma non è un semplice giallo come tanti che sono usciti negli ultimi tempi, bensì un misto di “noir” e “science fiction”, che si colloca nella logica dell’“avantpop” già esplorato da Pincio con il suo Lo spazio sfinito (al riguardo, è da notare come l’autore prenda le distanze dalla fantascienza, sostenendo che la sua è piuttosto «una materializzazione dell’inconscio del presente»… perché, la fantascienza non è anche questo?). Lo stile è quello asciutto dell’“hard-boiled”, di cui Pincio non si perita di sfruttare alcuni stereotipi estetici e contenutistici, come il protagonista dedito a sperperare la propria esistenza, la narrazione in prima persona, l’avvocato stazzonato, le pale del ventilatore… I fatti vengono anticipati con pochi cenni, quasi casuali, ripresi un po’ più avanti, facendo crescere la curiosità nel lettore. Le descrizioni sono particolareggiate, al punto da farci visualizzare in maniera quasi fotografica la scena dell’azione.
Uno dei meriti è quello di saper tratteggiare una credibile e originale figura di “perdente”: apatico, rassegnato, sembrerebbe un uomo senza storia, e invece, nella parabola da perfetto sconosciuto a celebrità del male, il nostro attraversa una serie di stadi intermedi che Pincio si preoccupa di descrivere fin nel dettaglio. Dapprima, lo troviamo studente di belle arti e belle speranze. Poi, assistiamo alla sua metamorfosi in gallerista, spinto a ciò dalla necessità di sublimare le velleità artistiche frustrate. Quindi, con leggero scarto, diventa una sorta di “principe russo” in esilio, l’“ultimo dei Quiriti”, cinico ed ignavo, contrassegnato dal vizio, dalla solitudine e dall’ostinata volontà di continuare a vivere in Roma. Più avanti, il nostro s’incarna nell’«uomo che si accontentava. L’uomo delle piccole cose», capace di campare di rendita con la liquidazione del padre e vivere un eterno indolente anno sabbatico, una “vita da espatriato” alla maniera di un personaggio di Ernest Hemingway, giungendo all’illuminazione spirituale nelle contemplazione estetica di ballerine di go-go bar. Infine, eccolo manifestarsi come mostro assassino, arrivato a un punto morto della sua intera esistenza, ridotto a uno stato vegetativo fatto solo di funzioni corporali e mentali di base, accusato di avere ucciso una donna ed aver giaciuto per una settimana accanto al suo cadavere e tuttavia indifferente al proprio destino. Intorno al protagonista, squinternato ma tutto sommato positivo nell’amara rassegnazione al corso della sua vita, ruotano alcuni, ben definiti personaggi di contorno: lo scalcinato avvocato Trevi, la seducente puttana Yin, il ribelle Giulio e, soprattutto, il memorabile Wang, metà saggio e metà ciarlatano, oltre a tutta una serie di comprimari (l’albergatore e il suo scagnozzo, per esempio) che danno colore alla vicenda e fanno da spalla al mattatore unico della vicenda. Ma dove Pincio da il massimo di sé è nella descrizione d’ambiente, nella raffigurazione di una Roma «luogo di morte e dell’assurdo», assoggettata a una successione di «anni senza inverno» e vivibile solo di notte a causa del clima torrido. La “kaput mundi” è stata abbandonata dai romani per le terre fredde del Nord – specie la Danimarca – e ha subito l’invasione pacifica, ma non per questo meno distruttiva, di torme di cinesi. Il centro storico è ridotto a una specie di Chinatown, mentre le periferie sono desertificate. Furoreggia il “morbo romano”, una sottospecie di malaria, mentre altri danni li fa l’economia del sottosviluppo portata dalla globalizzazione (non a caso la moneta corrente è il “globo”).
Il risultato finale è la pungente descrizione di una società ridotta a una catena alimentare, dove, con le parole di Edmondo Berselli, ciò che spicca è la «perdita dei riferimenti, dei codici, dei galatei... la trasposizione dell’edonismo anonimo della nostra civiltà ultrasecolarizzata anche politicamente». Non è privo di significato simbolico il fatto che, in assenza di qualsiasi superiore valore morale di riferimento, la Dolce Vita fellinia assurga a mitologia personale del protagonista. Un altro elemento degno di nota è il contrasto fra la bruta materialità dello scenario fantascientifico e la filosofia sognante della millenaria civiltà cinese, che considera la realtà come un ambiente fluttuante, in cui i sogni, le fantasticherie, le esperienze allucinogene hanno pari dignità con le visioni del quotidiano. Non per nulla i cinesi si stabiliscono originariamente nel quartiere romano chiamato Esquilino, “Exquilino”, il contrario di “inquilino”, colui che “abita fuori”, colui che non condivide le tradizioni e le norme di linguaggio della civiltà ospitante e la fagocita. I cinesi si trasformano nei dominatori del territorio ed agiscono nel segno di un razzismo all’inverso: il caso criminale del protagonista diventa eclatante non tanto per l’oggettiva efferatezza della vicenda, ma perchè ad essere uccisa è “una di loro”. «I cinesi, lungi dall’essere realistici, stanno a rappresentare la nostra paura dello straniero», dice Pincio in un’intervista a Lara Crinà per “D” di Repubblica, ma poi è l’autore stesso, all’interno del testo, a definire la popolazione orientale come i «barbari del terzo millennio ». Accanto alla denuncia della deriva morale del materialismo moderno e dei rischi di un’immigrazione incontrollata e di una globalizzazione selvaggia, troviamo, come elemento di saldatura, il monito ecologista, l’accusa di disattenzione nei confronti dell’involuzione climatica, il disinteresse verso i guasti di un modello di vita che sta portando al surriscaldamento planetario e che può portare Roma, la Città Eterna, a diventare terra di conquista per moltitudini esotiche.
Insomma, a conti fatti, Cinacittà si rivela, forse anche oltre le stesse intenzioni dell’autore, un romanzo “ecumenico”, capace di render conto di tutte le sfaccettature di un fenomeno travolgente per il quale ancora non abbiamo ancora elaborato adeguati strumenti di comprensione: da una parte, le paure diffuse della nostra società; dall’altra, la sacrosanta esigenza di non chiudersi ermeticamente alle culture emergenti, ma, piuttosto, di accoglierle in un clima di scambio, integrazione e reciproca tolleranza. Solo fantascienza? Per ora ancora sì. Ma, domani, la realtà potrà forse smentire clamorosamente gli scenari di Cinacittà. E credo che tutti, Pincio compreso, non possano che augurarselo.
Errico Passaro. Ufficiale dell'Aeronautica Militare, dottore in giurisprudenza, è giornalista pubblicista. Ha pubblicato su testate e collane professionali un saggio in volume, oltre 100 racconti e cinque romanzi: "Il delirio", Solfanelli; "Nel solstizio del tempo", Keltia; "Gli anni dell'aquila", Settimo Sigillo; "Le maschere del potere", Nord; "Inferni", Secolo d'Italia. Dal 12 maggio è in libreria il romanzo fantasy (scritto con Gabriele Marconi) "Il Regno Nascosto" (Dario Flaccovio Editore).

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