giovedì 2 ottobre 2008

E i maledetti ascoltavano De André... (di Giovanni Tarantino)

Articolo di Giovanni Tarantino
Dal Secolo d'Italia di mercoledì 1 ottobre 2008
«Quando tutti protestavano contro la guerra in Vietnam io portavo una catena nello zaino e distribuivo volantini in memoria di Jan Palach, lo studente cecoslovacco che si diede fuoco in piazza San Venceslao, a Praga, per protestare contro l’invasione dei carri armati sovietici. Ma quando tutti protestavano contro la guerra in Vietnam io suonavo la musica hard rock, ascoltavo allora, come le ascolto adesso, le canzoni di De André e Guccini, sicuramente in controtendenza per la mia cerchia di amicizie, anche se a conti fatti i “giovani fascisti” dell’epoca, non innalzarono mai un fronte categoriale in campo musicale (almeno i più sensibili e intellettualmente curiosi)».
Che molti giovani che militavano a destra vissero intensamente gli anni del ’68, inteso come fenomeno a cui ascrivere anche periodi successivi all’anno anagrafico 1968, non è certo una novità. O almeno non lo è per chi, da sempre, ha saputo dare una lettura globale di quel momento storico, ponendo l’accento sull’immaginario giovanile piuttosto che guardando alle divisioni politiche in senso stretto. Così come non sorprende che Guccini e De André fossero ascoltati “a destra”: del resto già Fabrizio Marzi, cantautore legato alla stagione della cosiddetta “musica alternativa”, in una sua canzone intitolata proprio Il Sessantotto, ricordava i giovani di destra e il loro interesse per i cantautori italiani: «… quando Guccini non cantava treni / e i “maledetti” amavano De André». Dati ed eventi che non sorprendono chi, in definitiva, ha preferito guardare ai giovani in quanto tali e non come una categoria da chiudere in gabbie e stereotipi, di chi ha voluto mettere in risalto l’afflato generazionale e la condizione dell’“essere giovani». Con un inconfondibile riferimento a eventi e icone del ’68, arriva adesso in libreria Il tempo nella bottiglia (edizioni Aindartes, pp. 128, euro 12) ultimo lavoro del giornalista Domenico Claudio Zarcone. Già autore del pamphlet Pensare il nulla e dei racconti Genealogia di un amore, Il bilico e il coma, La signorina dai piedi di cristallo e Il Passaggio delle Ombre, Zarcone ha una formazione filosofica che lo ha portato ad approfondire il “pensiero ribelle” tra le fila della Società filosofica italiana.
Studioso di Nietzsche, Evola e Heidegger ritiene la filosofia la sua «più grande aspirazione» e, in questo suo ultimo lavoro, conduce il lettore lungo un viaggio che parte dal ’68, annoevento che spiega e descrive come pochi saggi e romanzi, in questo 2008 in cui mentre se ne celebra il quarantennale pochi stati capaci di fare. E che spiega il periodo della gioventù come il tempo dentro una bottiglia immaginaria: «Dentro quella bottiglia c’è tutto il mio tempo. Il tempo dell’amore, il tempo del dolore, il tempo delle certezze che si sarebbero inaridite, il tempo degli eroi, il tempo della bellezza, il tempo dell’audacia, il tempo della musica. Il tempo di quando pensavo che avrei avuto sempre più tempo a diposizione di tutti, il tempo da dividere con i miei amici come Sasà, il tempo delle stelle cadenti e dei desideri, il tempo della follia e delle osterie, del coraggio e dell’incoscienza. Insomma, il tempo della mia attuale nostalgia, sorella, madre e purtroppo matrigna del mio vagabondare». E da un vero e proprio vagabondare parte la recherche du temps perdu di Claudio e Sasà, protagonisti del racconto, dove coesistono storie reali e frammenti di finzione letteraria. Claudio è un ragazzo che aderisce alla Giovane Italia, motivato da un forte senso di ribellismo nei confronti di tutto ciò che percepisce come conforme: una scelta la sua, come quella di tanti altri, orientata anche dalla passione per le letture che in quegli anni si facevano a destra, da Evola a Jünger, passando per Schmitt, Mishima, giungendo fino ai “poeti armati” Pierre Drieu La Rochelle, Robert Brasillach e Céline. Ma che allo stesso tempo ama le icone della sua generazione: «La verità vera è che io, seguace ancora acerbo della tradizione occidentale, della musica celtica, delle saghe nordiche di Evola (e del suo individuo assoluto) e di Roma antica, amavo nello stesso tempo la trasgressione, il dir no come norma sostanziale, e il rock». Puntuale, in effetti, è l’omaggio che l’autore ha voluto fare ai più ascoltati e gettonati complessi del tempo: dai Led Zeppelin ai Pink Floyd, dai Procol Harum della celebre A whiter shade of Pale fino ai Creedence della bellissima Have you ever seen the rain.
Sasà, invece, è un anarchico convinto, anticlericale duro e puro, che aveva perduto la madre da bambino e il cui anarchismo appariva a Claudio come «l’impulso a una insurrezione inconscia contro chi aveva avuto una madre, una famiglia nella quale poter vivere serenamente l’infanzia e la gioventù. La sua rivolta contro la famiglia era e fu forse voglia di una famiglia». Tuttavia Sasà, a cui è dedicato il libro, rimane negli anni un anarchico individualista che rifiuta comunque qualsiasi collocazione a sinistra. In definitiva «una grande, splendida e stupenda persona Sasà, uno “zingaro felice” come avrebbe detto Claudio Lolli più di un trentennio fa». Cosa fanno Claudio e Sasà insieme? Vivono gli anni della loro gioventù, segnati da un’amicizia profonda e fraterna con un obiettivo in comune: «Vivere, godere, studiare poco ma leggere tanto, suonare, amare, girare il mondo a prescindere dai nostri ruoli politici di partenza». Sembra quasi il riecheggiare negli anni Sessanta-Settanta di suggestioni trovate in capolavori come Il nostro anteguerra in cui Brasillach parlava della sua amicizia con un giovane anarchico, o il Gilles di Drieu La Rochelle, dove il protagonista del romanzo, militante di un movimento prefascista in Francia cerca di convincere un coetaneo comunista della buona fede delle proprie ragioni.
E anche qui i due protagonisti, che pur partono dalla comune città di origine, Palermo, vivono quegli anni in maniera intensa e scanzonata perennemente in viaggio per le strade d’Europa, come tanti e tanti ragazzi che in quegli anni scelsero di vivere la loro gioventù on the road. Dalla Svizzera all’Olanda, da Zurigo a Eindhoven e Utrecht fino alla tappa obbligata della “libertaria” Amsterdam, «patria dell’atmosfera hippy, raggruppamenti spontanei nella zona di piazza Dam, autentico centro di ritrovo per tutti gli sbandati d’Europa, cortesia, “fumo” a volontà anche libero, poi ancora musica e colori. Amsterdam – rievoca Zarcone – era a quei tempi il regno dell’incontro giovanile…».
E ancora avventure dei due amici in Germania e in particolare a Colonia e nei boschi del Reno, ad Hannover e Friburgo, poi via per Copenaghen fino in Finlandia. È un viaggio continuo fatto anche di notti fredde passate nelle stazioni e di pranzi passati a pane duro e, di conseguenza, di escamotage ideati per racimolare qualche spicciolo e continuare il viaggio, sempre sull’onda di quella «goliardia esistenziale» che aveva abbattuto – almeno fino al primo ’68 – ogni divisione politico- ideologica e solidificato il legame tra amici. Perché ciò che contava veramente per un giovane di fine anni ’60 e dei primi ’70 era «viaggiare e conoscere posti nuovi, non importava quali». Zarcone coglie così il significato profondo delle ragioni di tanti giovani che armati di sacco a pelo e sete di conoscenza si misero a girare il mondo. Viaggio di un poeta si intitolava, nel 1972, una canzone dei Dik Dik. Era quello lo spirito dell’epoca. Lo aveva spiegato Jack Kerouac in On the road: «Dobbiamo andare e non fermarci finchè non siamo arrivati. Dove andiamo? Non lo so, ma dobbiamo andare».
Giovanni Tarantino è nato a Palermo il 23 giugno 1983. Attento indagatore delle culture e delle dinamiche giovanili, collabora con il Secolo d’Italia. Si è laureato in Scienze storiche con una tesi dal titolo Movimentisti. Da Giovane Europa alla Nuova destra.

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